Riportiamo una ulteriore testimonianza sul terremoto del gennaio 1968. Lentezza nei soccorsi e sorpresa dell'Italia avanzata nello scoprire attraverso le telecamere tv una Sicilia sconosciuta. La Sicilia dell'interno era ferma di oltre un secolo rispetto all'altra Italia. La testimonianza è di uno dei più grandi giornalisti dell'ultimo cinquantennio: Enzo Biagi, estratta dal libro Io c'ero.
Il Contessioto
Tutto comincia alle 3,02 di lunedì 15 gennaio. A Palermo, in un istituto di religiosi, c’è il solo sismografo dell’isola. Registra la grande scossa, poi il pennino si rompe. Finito.
Da quel momento inizia la nostra vicenda. Le telescriventi battono nomi di paesi quasi sconosciuti: Ghibellina, Montevago, Partanna. La radio dà le prime notizie: forse dieci, forse ventiquattro morti. Il nuovo telegiornale si presenta in modo drammatico: la Sicilia è sconvolta dal terremoto. I quotidiani della sera parlano di centinaia di dispersi.
Gli italiani sono rattristati ma non sorpresi. Sanno che, qualche volta, la terra trema, sanno che i fiumi possono straripare e che dal cielo può scendere impetuoso il ciclone. Hanno in mente i giorni del Vajont e di Firenze, e conoscono il rituale della sciagura. Gli appelli alla fratellanza, i pellegrinaggi delle autorità, le addizionali sulle imposte. Ma scoprono qualcosa di nuovo: la disorganizzazione, l’inefficienza.
I primi settantacinque soldati arrivano dopo un giorno, la legge per la protezione civile è in discussione dal 1950 ma non è mai entrata in vigore, i soccorsi procedono lentamente, ci sono due camion che sfollano tremila superstiti, la gente è disperata.
Scoprono che laggiù il tempo si è fermato, e dalle macerie emerge un mondo che non ha niente a che fare con le autostrade, i consumi, la scuola obbligatoria, la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria.
Guardano le fotografie: muli, bambini, vecchi che rabbrividiscono negli abiti neri, piccoli uomini dal volto chiuso sotto l’ombra delle berrette, le case sconvolte mostrano la miseria nascosta, il contrasto fra le stoviglie di plastica e le capre che alloggiano sotto lo stesso tetto. C’erano tanti presepi, con le donne che filavano e i pastori, con i fabbri e i ciabattini che lavoravano sulla strada, e i poveri e i cani che si dividevano il pane; adesso quelle scene sono scomparse nel polverone, sono rimasti i bivacchi e le tende messe su dai militari, e soltanto i falò che si accendono nella notte per riscaldare gli ultimi protagonisti dei malinconici eventi nazionali: i terremotati.
Gli italiani conoscevano la Sicilia letteraria, quella di Vittoriani odorosa di arance, quella di Brancati ossessionata dal sole e dai desideri, quella di Verga umile e orgogliosa, quella di Tommasi di Lampedusa pervasa dal sottile rimpianto di un’altra epoca, spazzata via dal vento della storia e dal piccolo esercito che era sbarcato dal Nord.
Conoscevano la Sicilia del cinematografo e delle inchieste, i delitti della mafia –“Io amo il cane, ma se il cane mi attraversa la strada , il cane muore”- e quella di un’incosciente burocrazia che ha speso miliardi per costruire villaggi inabitabili, come a Manganaro, con la chiesa, la caserma dei carabinieri, la piazza del monumento al Seminatore, che getta negli aridi campii soldi dei contribuenti; e convalescenziari o ospedali nei quali svernano le pecore, come a Piana degli Albanesi.
Conoscevano la Sicilia splendida degli itinerari turistici e quella, un po’ cupa, ironica e le grandi macchie d’alberi, dove si va a cacciare il coniglio selvatico, i silenziosi palazzi dei baroni, con i quadri, le porcellane e i mobili che erano arrivati anche dalla Cina, e, nelle gallerie, i ritratti degli antenati, facce aspre di funzionari borbonici o sorridenti e bionde fanciulle britanniche che, seguendo Nelson, erano venute ad accasarsi quaggiù.
Adesso hanno visto che c’è una realtà che va oltre il romanzo, la fantasia, il gioco degli interessi economici e politici; e noi, che abbiamo il problema del parcheggio o di come riempire il tempo libero, non possiamo continuare ad ignorare la delusione e la rabbia di chi ha il problema di vivere.
Forse è venuto il momento di tradurre le promesse in fatti, se si vuol vincere un’indifferenza e uno scetticismo che gli anni e gli avvenimenti continuano a incoraggiare.
Dopo Marsala, Garibaldi concentrò le sue truppe a Vita per prepararsi ad affrontare, con i Mille e i picciotti, i reparti del re che lo aspettavano a Calatafimi. Mi disse un signore del luogo che i notabili e i borghesi di quelle parti seguirono comodamente la battaglia dal crinale di un colle, seduti sulle seggiole che qualcuno aveva pensato di affittare. Non volevano parteggiare per nessuna delle parti, non si aspettavano, in ogni caso, niente di buono. Infatti, sulla facciata della chiesa di Calatafimi si legge una scritta ammonitrice: “Solo Dio è grande”. I devoti non concedono dunque troppa fiducia ai potenti di passaggio.
Quando la fase dei sentimenti e lo slancio della commozione saranno passati, rimarranno negli accampamenti centocinquantamila senzatetto. Senza speranza e senza coraggio. Sono sfuggiti alla prepotenza dei mafiosi e degli sfruttatori, alle insidie dell’indigenza, alla furia della natura. Chissà se riusciranno anche a scampare ai moduli, alle lentezze parlamentari e al nostro egoismo.
Da quel momento inizia la nostra vicenda. Le telescriventi battono nomi di paesi quasi sconosciuti: Ghibellina, Montevago, Partanna. La radio dà le prime notizie: forse dieci, forse ventiquattro morti. Il nuovo telegiornale si presenta in modo drammatico: la Sicilia è sconvolta dal terremoto. I quotidiani della sera parlano di centinaia di dispersi.
Gli italiani sono rattristati ma non sorpresi. Sanno che, qualche volta, la terra trema, sanno che i fiumi possono straripare e che dal cielo può scendere impetuoso il ciclone. Hanno in mente i giorni del Vajont e di Firenze, e conoscono il rituale della sciagura. Gli appelli alla fratellanza, i pellegrinaggi delle autorità, le addizionali sulle imposte. Ma scoprono qualcosa di nuovo: la disorganizzazione, l’inefficienza.
I primi settantacinque soldati arrivano dopo un giorno, la legge per la protezione civile è in discussione dal 1950 ma non è mai entrata in vigore, i soccorsi procedono lentamente, ci sono due camion che sfollano tremila superstiti, la gente è disperata.
Scoprono che laggiù il tempo si è fermato, e dalle macerie emerge un mondo che non ha niente a che fare con le autostrade, i consumi, la scuola obbligatoria, la sicurezza sociale, l’assistenza sanitaria.
Guardano le fotografie: muli, bambini, vecchi che rabbrividiscono negli abiti neri, piccoli uomini dal volto chiuso sotto l’ombra delle berrette, le case sconvolte mostrano la miseria nascosta, il contrasto fra le stoviglie di plastica e le capre che alloggiano sotto lo stesso tetto. C’erano tanti presepi, con le donne che filavano e i pastori, con i fabbri e i ciabattini che lavoravano sulla strada, e i poveri e i cani che si dividevano il pane; adesso quelle scene sono scomparse nel polverone, sono rimasti i bivacchi e le tende messe su dai militari, e soltanto i falò che si accendono nella notte per riscaldare gli ultimi protagonisti dei malinconici eventi nazionali: i terremotati.
Gli italiani conoscevano la Sicilia letteraria, quella di Vittoriani odorosa di arance, quella di Brancati ossessionata dal sole e dai desideri, quella di Verga umile e orgogliosa, quella di Tommasi di Lampedusa pervasa dal sottile rimpianto di un’altra epoca, spazzata via dal vento della storia e dal piccolo esercito che era sbarcato dal Nord.
Conoscevano la Sicilia del cinematografo e delle inchieste, i delitti della mafia –“Io amo il cane, ma se il cane mi attraversa la strada , il cane muore”- e quella di un’incosciente burocrazia che ha speso miliardi per costruire villaggi inabitabili, come a Manganaro, con la chiesa, la caserma dei carabinieri, la piazza del monumento al Seminatore, che getta negli aridi campii soldi dei contribuenti; e convalescenziari o ospedali nei quali svernano le pecore, come a Piana degli Albanesi.
Conoscevano la Sicilia splendida degli itinerari turistici e quella, un po’ cupa, ironica e le grandi macchie d’alberi, dove si va a cacciare il coniglio selvatico, i silenziosi palazzi dei baroni, con i quadri, le porcellane e i mobili che erano arrivati anche dalla Cina, e, nelle gallerie, i ritratti degli antenati, facce aspre di funzionari borbonici o sorridenti e bionde fanciulle britanniche che, seguendo Nelson, erano venute ad accasarsi quaggiù.
Adesso hanno visto che c’è una realtà che va oltre il romanzo, la fantasia, il gioco degli interessi economici e politici; e noi, che abbiamo il problema del parcheggio o di come riempire il tempo libero, non possiamo continuare ad ignorare la delusione e la rabbia di chi ha il problema di vivere.
Forse è venuto il momento di tradurre le promesse in fatti, se si vuol vincere un’indifferenza e uno scetticismo che gli anni e gli avvenimenti continuano a incoraggiare.
Dopo Marsala, Garibaldi concentrò le sue truppe a Vita per prepararsi ad affrontare, con i Mille e i picciotti, i reparti del re che lo aspettavano a Calatafimi. Mi disse un signore del luogo che i notabili e i borghesi di quelle parti seguirono comodamente la battaglia dal crinale di un colle, seduti sulle seggiole che qualcuno aveva pensato di affittare. Non volevano parteggiare per nessuna delle parti, non si aspettavano, in ogni caso, niente di buono. Infatti, sulla facciata della chiesa di Calatafimi si legge una scritta ammonitrice: “Solo Dio è grande”. I devoti non concedono dunque troppa fiducia ai potenti di passaggio.
Quando la fase dei sentimenti e lo slancio della commozione saranno passati, rimarranno negli accampamenti centocinquantamila senzatetto. Senza speranza e senza coraggio. Sono sfuggiti alla prepotenza dei mafiosi e degli sfruttatori, alle insidie dell’indigenza, alla furia della natura. Chissà se riusciranno anche a scampare ai moduli, alle lentezze parlamentari e al nostro egoismo.
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