domenica 31 maggio 2020

Cognomi e Storia. Italiani di origine albanese: Cuccia ....... a cura di Mimmo Cuccia

Cuccia 

























I Cuccia nell’Albania di Skanderbeg

Museo di Croja, esterno
I Cuccia, nella forma albanese Kuka o Kuçi, sono molto presenti nei testi che parlano della biografia dello Skanderbeg, delle sue imprese militari e della sua azione politica.
Nel “Tesoro di Notizie su de’ Macedoni” di Nicolò Chetta, pubblicato nel 2002 a cura del Comune di Contessa Entellina e dell’Università degli Studi di Palermo, nelle pagine 264, 268 e 273, si parla diffusamente delle imprese militari ediplomatiche di Paolo Cucchia, inviato come ambasciatore di Giorgio Castriota presso il Papa e il re Alfonso di Napoli. Di Giorgio Cucchia si parla nelle pagine 295, 300. Anche Giorgio Cucchia, cappellano dello Skanderbeg, compì per conto del principe albanese missioni diplomatiche presso il Pontefice di Roma. Sempre nello stesso volume del Chetta, a pag. 309, si parla di un Giorgio Cucchia, valoroso ufficiale dell’esercito albanese, catturato e scorticato vivo assieme ad altri sette eroi i cui nomi sono: Musacho Angelina, Gino Mysak, Giovanni Perlato, Nicolò Elisio, Giovanni Manessi, Vladenio Giuriz e Moise, questi ultimi due nipoti dello Skanderbeg.
Il cognome Cucchia è presente in molte altre pagine dell’opera del Chetta. Oltre che alle pagine 511 e 512 del volume, al paragrafo 253 “Catalogo delle siciliote famiglie albane”, in cui si parla delle famiglie albanesi presenti in Sicilia, i Cucchia vengono citati alle pagine 258, 335, 345, 375, 453, 444, 445, 446, 453, 454 e 470.
Dell’episodio della cattura e della condanna a morte di Giorgio Cucchia e degli altri sette valorosi ufficiali dell’esercito albanese parlano anche le altre biografie dello Skanderbeg. Vedasi “Storia di Giorgio Castriotto sopprannominato Scanderbeg Principe dell’Albania” pagine 184 e 185. Il volume, pubblicato a Palermo nel 1847, dalla Tipografia di Domenico Oliveri, è stato ripubblicato in ristampa anastatica dal Comune di Contessa Entellina nel 1998. Sempre nello stesso volume, a pag. 242, viene riprodotto il diploma di Giovanni di Aragona, indirizzato al nipote Ferdinando, re di Napoli, con cui raccomanda i nobili albanesesi, consanguinei dello Skanderbeg: Petrus Emmanuel de Pravatà, Zaccarias Croppa, Petrus Cuccia e Paulus Manisis. L’ autore dice che il diploma si trova nella Memoria di Palazzo Adriano del prof. Crispi, stampata nel 1827.
Dei Cuccia e di altre illustri famiglie albanesi dei tempi dello Skanderbeg, si parla anche nel volume “I Castriota Principi d’Albania” – Origine della Famiglia Castriota - edita da Valletta Tipografia del “Malta” nel 1929, e precisamente nelle pagine 36, 37 e 38.
Dai documenti e dai testi consultati o citati quello che parla dei rapporti di consanguineità tra i Castriota e i Cuccia è il diploma del re Giovanni di Aragona dell’ 8 ottobre 1467. Tale documento della cancelleria di Barcellona è stato alla base delle ricostruzioni storiche successive ed era stato pacificamente accetato dalla storiografia arbëreshë e italiana.  Se tale documento fosse frutto di un falso, così come sostiene il prof. Matteo Mandalà nel volume “Mundus vult decipi”, edito a Palermo nel 2007 da A.C. Mirror, mancherebbe il fondamento di tale ricostruzione storica. In ogni caso resta, comunque, storicamente provato il rapporto tra lo Skanderbeg e alcuni esponenti della famiglia Kuka o Kuçi, presenti nelle imprese militari e nelle missioni diplomatiche del Principe albanese, di cui parlano diverse biografie dello Skanderbeg.
I Cuccia e altre famiglie albanesi [1] del periodo di Skanderbeg sono presenti, oltre che nei saggi storici [2], anche nelle opere letterarie, del prof. Giuseppe Schirò, Direttore del R. Istituto Orientale di Napoli[3] . In tali opere di natura poetica, scritte sia in italiano che in albanese lo Schirò affronta il tema della loro emigrazione in Sicilia, dopo che era venuta meno in patria ogni possibilità di resistenza contro l’invasore ottomano in Albania.
Domenico Cuccia
   



[1] Reres, Cropa, Pravatà, Paolo Manes, Skirò, Musacchia, Bideri, Masrek e altri.
[2] Giuseppe Schirò, Opere VIII Saggi, “Cenni sulla origine delle colonie albanesi di Sicilia”.
[3] Giuseppe Schirò, Opere III e IV, “Te dheu i huaj” (edizione del 1940). Volume III Canto V pagine 150 e 151; vol. IV Canto II “Gli Antenati”, pagine 60 e 61, pagine; Canto VII “Giovanni Kastriota”, pagine 290 e 291.

==000O000==

I Cuccia in Albania e in Italia
I Cuccia o Cucchia, in albanese Ku¢i o Kuka, sono presenti in varie zone dell’Albania. Nel nord est del paese vi è la città e il distretto di Kukës con una popolazione di circa 48.000 abitanti. Nel museo nazionale di Kruja, nella sezione dei principali collaboratori dello Skanderbeg, è esposta la statua di  Pal Kuka, con la didascalia che si trattava di un diplomatico; tale statua è stata da me fotografata. I testi di storia che parlano delle gesta di Skanderbeg riferiscono, oltre alle missioni diplomatiche di Pal Kuka, di un Giorgio Kuka cappellano di Skanderbeg, di un Giorgio Kuka, ufficiale dell’esercito albanese, caduto nelle mani dei turchi e da questi scorticato vivo, assieme ad altri sette eroi, di un Bajano Kuka. Un Oso Kuka è stato un eroe albanese di Scutari e la sua abitazione è in atto adibita a Museo.
Le notizie riportate sono state acquisite dalle tre biografie di Skanderbeg di cui sono in possesso. Per quanto riguarda Giorgio Cuchia i testi parlano di un cappellano dello Skanderbeg e di un ufficiale dell’esercito albanese, catturato e trucidato dai turchi (non so se si tratti della stessa persona).

Nicolò Chetta, rettore del Seminario Greco-Albanese di Palermo,  nato a Contessa Entellina il 31/07/1741 e deceduto a Palermo il 15/11/1803,  li ritiene originari della Macedonia, provenienti da un’area vicina all’attuale Albania. Il cognome albanese Kuça, Cuchia nei primi atti in latino volgare, redatti in Sicilia,  si è trasformato in Cuccia ed è presente in tutte le comunità albanofone siciliane.

In Sicilia, nei documenti riportati in pubblicazioni da me consultate, per la prima volta si incontra un Luca Cuchia e un Petrus Cuchia nel 1501 tra i firmatari dei Capitoli di Mezzojuso [1]; si incontrano un Ioannis Cuccia, Iuratorum huius universitatis Terrae Comitissae,  firmatario nel 1520 dei Capitoli di Contessa,   e un Leoluca Cuccia, magistro, tra i testimoni del Notaio [2]. Ancora a Contessa Entellina ritrovo ufficialmente il cognome Cuchia in un censimento (chiamato Rilevo) del 1593 [3]. Il cognome Cuccia è, inoltre, più volte citato nel saggio storico “Cenni sulle origini delle colonie albanesi di Sicilia” del prof.Giuseppe Schirò, docente di lingua e letteratura albanese presso il Regio Istituto Orientale di Napoli.

Bisogna tenere presente che tutti i capitoli di concessione dei terreni agli albanesi furono scritti in latinis vulgaribus da notai non albanesi, che traducevano nel volgare in uso in Sicilia i nomi albanesi. I membri delle comunità arbëreshë, che conoscevano entrambe le lingue, si impegnavano a spiegare ai loro connazionali i contenuti degli atti sottoscritti.
Gli immigrati albanesi in Italia hanno dovuto lottare duramemente per non essere sottoposti a un processo di latinizzazione forzata e per mantenere un rito, quello bizantino, che in un periodo di controriforma religiosa veniva visto, soprattutto dai vescovi latini, quasi come ortodosso scismatico. Qualche volta i vescovi ci sono riusciti, vedasi San’Angelo Muxaro, in Sicilia, o Spezzano albanese, in Calabria, dove il prete di rito greco è stato arrestato - con l’accordo tra il vescovo e il barone del luogo- ed è morto in prigione, mentre  tutto il popolo è diventato di rito latino.


Una circostanza, invocata dagli albanesi d’Italia a loro favore nei confronti di chi li guardava con sospetto, era il ricordo di Giorgio Castriota, definito dal Papa Atleta di Cristo, e i legami che legavano i profughi alle gesta dell’eroe albanese. Il re di Napoli era grato al Castriota per l’aiuto ricevuto nella lotta contro gli angioini e i nobili infedeli. Dopo il tentativo fallito, di Giovanni Castriota, di riaccendere la lotta in Albania (anno 1482) [1] e la caduta di Corone (anno 1532) vennero nell’Italia meridionale e in Sicilia, con gli altri profughi, i più stretti collaboratori dello Skanderbeg, moglie e figli compresi, e successivamente molti coronei.
Un documento, richiamato da alcune famiglie arbëreshë per tutelare la propria posizione, era una lettera del re Giovanni II d’Aragona al proprio nipote Ferdinando, re di Napoli, datata 8 ottobre 1467, in cui raccomandava alcuni nobili albanesi, definiti consanguinei dello Skanderbeg. L’autenticità di tale lettera, su cui si era basata tutta la storiografia arbëreshe a cominciare da Pompilio Rodotà, dal prof. Giuseppe Schirò, docente di Lingua e Letteratura albanese presso il Regio Istituto orientale di Napoli,  dal prof. Alessandro Schirò, dal sacerdote Spiridione Lo Iacono e altri, è stata recentemente messa in dubbio dal prof. Matteo Mandalà dell’Università di Palermo, in un suo libro intitolato: “Mundus vult decipi”.  In tale saggio l’autore, sulla base di una ipotesi avanzata anche da altri, ipotizza un falso. Lo stesso rilievo di falsità viene mosso nei confronti di un altro documento, sempre rilasciato dalla cancelleria di Barcellona, e datato 18 ottobre 1467.
In ogni caso, la mancata autenticità del documento della cancelleria del regno di Aragona non rileva ai fini della corrispondenza tra il cognome Kuka presente in Albania, ai tempi dello Skanderbeg, e il cognome Cuchia o Cuccia presente nelle colonie albanesi della Sicilia. Tale tesi è suffragata non solo da tutti gli storiografi  arbëresh ma anche dagli altri studiosi. Vedasi  il saggio: “Sviluppi onomastico-toponomastico tribali delle comunità albanesi di Sicilia” del prof. Giuseppe Valentini S.J, titolare della cattedra di albanese dell’Università di Palermo nel secondo dopoguerra. In tale saggio il Valentini studia l’etimologia e la provenienza di 48 famiglie siciliane di origine albanese. Per quanto riguarda i Kuçi (e non  Kuqi) il prof. Valentini ipotizza una antichissima origine nella località presidiata di Cucci, nel limite danubiano  di Pannonia, nel secolo IV.  Secondo il Valentini  i Kuçi furono una forte tribù albanese del nord, verso la piana di Podgorica, nominati fin dal 1335 e poi nel 1416 e, come una vera comunità, nel 1455.   Sempre il Valentini ci dice che il cognome Kuçi, per quanto con varia grafia, è largamente presente  tra gli stradioti, dal 1482 al 1547, con almeno 19 nominativi. Per il prof. Valentini, che conosceva bene l’Albania avendovi vissuto a lungo, è ipotizzabile che i Cuccia che sono presenti in Sicilia siano venuti direttamente dalla Grecia. In ogni caso  secondo il suddetto professore,  considerata la vastità dei toponimi, è difficile rintracciare la precisa origine albanese.
Durante la mia permanenza a Tirana, nel luglio del 2017, ho letto l’annuncio funebre di un Kuqi.
 I Cuccia, assieme ad altre famiglie albanesi  (Musacchia, Reres, Schirò e altri) hanno assunto un ruolo di rilievo nelle nostre comunità e, in atto, sono presenti in tutte le comunità albanofone della Sicilia. Ci sono, inoltre, altri Cuccia le cui famiglie provenivano dai centri albanofoni della Sicilia, presenti a Palermo e in altre città della Sicilia e d’Italia. Nell’ambito dei comuni di origine gli stessi hanno svolto nel passato, e continuano a svolgere, ruoli rilevanti nella comunità. Molti sono stati avvocati, notai, medici, insegnanti, dirigenti della Pubblica Amministrazione, sindaci, papas.  A Palermo una via è dedicata a Simone Cuccia, avvocato e noto giurista, docente di diritto penale dell’Università di Palermo e per diversi anni membro della Camera dei deputati. A Enrico Cuccia, di origine siculo albanese e uno dei più importanti banchieri dell’Italia del secondo dopoguerra, è dedicata una piazza di Milano.
I testi richiamati  descrivono pure le altre famiglie albanesi presenti in Sicilia, chi vuole approfondire la storia e l’etimologia dei cognomi delle altre famiglie lo può, pertanto, fare attingendo alle opere degli autori citati. Fornirò qualche notizia su alcune di queste famiglie, i cui nomi sono ancora presenti in Albania come ho potuto personalmente constatare, in uno scritto successivo. 

Domenico Cuccia

[1] I nomi di Luca Cuchia e Petro Cuchia, quali firmatari dei Capitoli di Mezzoiuso, sono riportati nel volume I Capitoli delle Colonie Greco Albanesi di Sicilia, raccolti e pubblicati da Giuseppe La Mantia, a pag. 51.
[2] Il nome di Ioannis Cuccia, quale firmatario dei Capitoli di Contessa, e di Leoluca Cuccia quale testimone del Notaro, sono riportati nel volume I Capitoli delle Colonie Greco Albanesi di Sicilia, raccolti e pubblicati da Giuseppe La Mantia, a pag. 52 e 57.
 [3] Il rilevo (censimento) del  1593, riportato nel volume di Alessandro Schirò “ Guida Illustrata delle Colonie Albanesi di Sicilia”, registra la presenza tra la popolazione di Contessa di Antonina La Cucchja, vedova con due figli, a pag. 21. 
[4] Secondo il prof. Giuseppe Schirò, dopo il fallimento della riconquista dell’Albania nel 1482, attuato da Giovanni Castriota figlio dello Skanderbeg, molti profughi  provenienti dalla città di Himarë, nella prefettura di Vlorë,  emigrarono in Sicilia, fondando la colonia di Piana degli albanesi. La tesi è stata fatta propria da alcune guide turistiche dell’Albania. Vedasi “Conoscere l’Albania”, testo in italiano pag. 103.

Alle radici del Cristianesimo

Riflessioni laiche

La scommessa sull'esistenza di Dio di BLAISE PASCAL, scienziato, matematico e filosofo, vuole evidenziare che muovendosi da basi matematiche (o di ragione) non si può affermare nulla. Egli parte da presupposti proprie del gioco delle probabilità in quanto, appunto, secondo ragione non si può escludere nessuna delle due ipotesi.

"Valutiamo i vantaggi e gli svantaggi nello scommettere che Dio esiste. 
Consideriamo le due possibilità. Se vinci, vinci tutto; se perdi, non perdi niente. 
Non esitate, allora, a scommettere che Lui esiste".

L'argomento in verità è costruito in maniera da spingere l'agnostico ad accettare di agire come se fosse credente.
Pascal non indica una via per credere o non credere, bensì un modo matematico, razionale, per agire nella vita.
Egli fra le righe dice: comportati come se credessi, Ti conviene, La Fede poi verrà. 
Sta qui la vera scommessa di Pascal. 
La probabilità (il calcolo delle probabilità, studiato a scuola) nell'impostazione di Pascal riguarda le nostre credenze e le nostre azioni e non solo gli eventi casuali o il gioco d'azzardo; verosimilmente non aiuta nessuno a credere, ma sta alla base della nostra vita.

===^^^===

Riflessioni del credente
GIANGRANCO RAVASI, cardinale, arcivescovo, teologo ed ebraista.

Scrive in una sua opera monumentale di commento alla Bibbia: I primi cinque libri della Bibbia compongono  un insieme che i giudei chiamano la "legge", la tora.
Amazon.it: LA BIBBIA DI GERUSALEMME. COMMENTI DI GIANFRANCO RAVASI ...
Genesi: è un "tutto" completo; è la storia degli antenati;
Esodo, Levitico e Numeri:  formano un altro blocco in cui, nel quadro della vita di Mosé, sono riferiti  la formazione del popolo e l'origine della sua legge sociale e religiosa.
Deuteronomio:  ha una struttura particolare: è un codice di leggi civili e religiose inserito in un grande discorso di Mosé.

... A queste tradizioni, che erano il patrimonio vivente di un popolo, che gli davano il sentimento della sua unità e che sostenevano la sua fede, sarebbe assurdo domandare il rigore che userebbe uno storico moderno, ma sarebbe ugualmente illegittimo negare loro ogni verità perchè manca loro questo rigore.

Quelle tradizioni erano il patrimonio vivente di un popolo, che gli davano il sentimento della sua unità e che sostenevano la sua fede, sarebbe assurdo domandare il rigore che userebbe uno storico moderno; ma sarebbe ugualmente illegittimo  negare loro ogni verità perchè manca loro questo rigore.
I primi undici  cc della Genesi sono da considerare a parte. Descrivono, in modo popolare,  l'origine del genere umano; enunciano con uno stile semplice e figurato, quale conveniva alla mentalità di un popolo poco evoluto, le verità fondamentali presupposte dall'economia della salvezza: la creazione da parte di Dio all'inizio dei tempi, l'intervento speciale di Dio che forma l'uomo e la donna, l'unità del genere umano, la colpa dei nostri progenitori,  la decadenza  e le pene ereditate che ne furono la sanzione. Ma queste verità che ne formano il dogma e sono assicurate dall'autorità della Scrittura, sono nello stesso tempo fatti e, se le verità sono certe, implicano fatti che sono reali, sebbene non possiamo assicurarne i contorni sono il rivestimento mitico che è stato loro dato, secondo la mentalità del tempo e dell'ambiente.
  La storia patriarcale è una storia di famiglia: raduna i ricordi che si conservano degli antenati, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe. E' una storia popolare che si sofferma sugli aneddoti personali e sui tratti pittoreschi, senza alcuna preoccupazione di unire questi racconti alla storia generale. E' , infine,  una storia religiosa:  tutte le svolte decisive sono segnate da un intervento divino e tutto vi appare come provvidenziale: concezione teologica vera da un punto di vista superiore, ma che trascura l'azione delle cause seconde; inoltre i fatti sono introdotti, spiegati e raggruppati per dimostrare una tesi religiosa: c'è un Dio  che ha formato un popolo e gli ha dato un paese; questo Dio è Jahve, questo popolo è Israele, questo paese è la terra santa. Ma questi racconti sono storici nel senso che narrano, alla loro maniera,  avvenimenti reali,; danno un immagine fedele dell'origine e delle migrazioni degli antenati di Israele, dei loro legami geografici ed etnici, del loro comportamento morale e religioso. I sospetti che hanno circondato questi racconti dovrebbero cedere davanti  alla testimonianza favorevole che loro apportano le scoperte recenti della storia e dell'archeologia  orientali.
  Dopo una lacuna molto lunga, l'Esodo e i Numeri, che hanno una eco nei primi cc del Deuteronomio, raccontano gli avvenimenti che vanno dalla nascita alla morte di Mosé: l'uscita dall'Egitto, la sosta nel Sinai, la salita verso Kades, il cammino attraverso la Transgiordania e l'installazione nelle steppe di Moab. Se si nega la realtà storica di questi fatti e della persona di Mosè, si rendono inesplicabili il seguito della storia di Israele , la sua fedeltà allo Jahvismo, il suo attaccamento alla Legge. Si deve però riconoscere che l'importanza di questi ricordi per la vita del popolo e l'eco che trovano nei riti hanno dato ai racconti il colore di una gesta eroica (così il passaggio del Mare Rosso) e talvolta di una liturgia (così la pasqua). Israele, diventato un popolo, fa allora il suo ingresso nella storia generale e, sebbene nessun documento lo menzioni ancora nella stele del faraone Merneptah, ciò che la Bibbia dice concorda, nelle grandi linee, con ciò che i testi e l'archeologia ci insegnano sulla discesa di gruppi semitici in Egitto, sull'amministrazione egiziana del Delta, sullo stato politico della Transgiordania.
  Il compito dello storico moderno è di confrontare questi dati della Bibbia con i fatti della storia generale. Con le riserve che impongono l'insufficienza delle indicazioni della Bibbia e l'incertezza della cronologia extra-biblica, si potrà dire che Abramo visse in Canaan verso il 1850 a.C.; che Giuseppe fece carriera in Egitto e che altri "figli di Giacobbe" lo raggiunsero un pò dopo il 1700. Per la data dell'esodo, non possiamo fidarci delle indicazioni cronologiche di 1 Re 6,1 e Gdc 11,26, che sono secondarie e provengono da computi artificiosi. Ma la Bibbia contiene una indicazione precisa: secondo il testo antico di Es 1,11, gli ebrei hanno lavorato  alla costruzione delle città-deposito di Pitom  e di Ramses. L'esodo è dunque posteriore al regno di Ramses II, che fondò la città di Ramses. I grandi lavori  vi cominciarono dall'inizio del suo regno ed è verosimile che l'uscita del gruppo di Mosè ebbe luogo nella prima metà di questo lungo regno (1290-1224), diciamo verso il 1250 a.C. o poco prima. Se si tiene conto della tradizione biblica su un soggiorno nel deserto durante una generazione, l'installazione in Transgiordania si potrebbe collocare verso il 1225 a.C. Queste date sono conformi alle informazioni della storia generale sulla residenza dei faraoni della dinastia XIX nel delta del Nilo, sull'indebolimento del controllo egiziano in Siria-Palestina alla fine del regno di Ramses II, sui turbamenti che scossero tutto il vicino Oriente alla fine del sec, XIII. Esse si accordano con le indicazioni dell'archeologia sull'inizio dell'età del ferro, che coincide con l'installazione degli israeliti in Canaan.


Pentecoste
di Silvano Fausti
(1940-2015), gesuita, è stato docente di Teologia

  "Lingue come di fuoco". Il fuoco è divino, è simbolo del sole, che dà la vita, ci riscalda, fa vedere. Queste lingue si dividono. Il fuoco è uno, ciascuno lo riceve, ma lo ricevono tutti insieme, nessuno da solo.
KALÓS  Vuol dire che ognuno ha un dono particolare di Dio; che tu sei sì diverso dall'altro,  ma ricevi lo stesso fuoco.
  Tu hai questa lingua, lo esprimerai in questo modo, l'altro diversamente. E' la Prima lettera ai Corinzi 12 che spiega queste cose. Per cui si fsa la comunione nin facendo la confusione tra tutti come a Babele -che vuol dire uccidere l'individualità, uccidere le persone, uccidere l'amore -ma nell'amore, e l'amore suppone la distinzione, la differenza, quindi si fa comunione nella differenza
  Il pericolo costante anche dei gruppi cristiani, di tutti i movimenti, è di avere il "monopensiero"  del leader e di trovarsi tutti intruppati, ma questo non è più cristianesimo. Quello tutto a norma con decreti decretini, ecc. non è più cristianesimo. Se non c'è più il rispetto di tutte le diversità, c'è la torre di Babele, un pò come dice l'Apocalisse 13, dove si parla della bestia e a un certo punto si dice che chi non aveva il nome della bestia sulla mano e sulla fronte non poteva andare al mercato; se non pensi come la bestia, se non sei omologato a tutti gli altri, se non agisci come loro, non puoi vivere.
  C'è una cosa che va ulteriormente sottolineata, ed è questa divisione e distribuzione delle lingue di fuoco su ciascuno che riempie però tutti; è una visione della vita celeste di cui parla, mi pare, santa Teresa d'Avila, quando dice di aver visto calici di misura e di fogge diverse, ma tutti ugualmente pieni. Si comincia a vedere -e lo si vedrà poi in tutto il libro degli Atti-  una celebrazione della differenza, in sè positiva, di non facile composizione, di non facile accettazione.
  Anche la vita è solo nella differenza e lo stesso amore è solo nella differenza. Se no è narcisismo, cioè amare lo specchio di sé e annegare in se stessi, ma così finisce anche la vita biologica.
  C'è un tentativo che in fondo è il tentativo originario, quello di Adamo, di non accattare Dio, di rifiutare la differenza di essere figlio, oppure anche quello di nascondersi con foglie di fico, perchè non si accetta di essere diversi e si ha paura.
  Uno vorrebbe essere l'altro e invece è diverso; la vita è data dal fatto che siamo diversi, se no non è vita; e siamo ad immagine di Dio perchè siamo diversi, non perchè Dio è maschio o Dio è femmina; ma perchè la diversità in comunione è Dio. La comunione, l'amore, la vita, la fecondità, il dono di sé: questo è Dio.
  Togliendo la diversità si toglie la possibilità di Dio sulla terra; si toglie la possibilità dell'umanità sulla terra. Diventiamo tutti dei replicanti e basta. Che è l'ideale che vorrebbero tutte le religioni, e anche tutti i politici; soprattutto il mercato che governa tutti; e invece no.
  Tra l'altro, faccio notare una cosa: si compiono i giorni, come si compiono le Scritture; si riempie la casa: la stessa parola; poi si riempie tutti e ciascuno dello Spirito, tutto pieno tutto pieno, e poi questo trabocca; "tra-bocca" dalla bocca, in parole e testimonianza.
  Sono molto belle queste immagini. E' il compimento della Scrittura. Ormai siamo noi stessi il compimento della Scrittura, perchè siamo pieni di quella Parola che ci ha trasformato, come dice Paolo in 2Cor 3,3: "Siete voi la mia lettera scritta non da inchiostro, non su carta o su tavole di pietra ma su un cuore di carne".
  Siamo noi stessi la lettera di Dio, cioè la nuova legge, cioè Dio stesso.

  "E iniziarono...". Anzi, principiarono; la parola è archè: ciò che Gesù principiò a fare e a dire fin dall'inizio, adesso principiano anche loro, è il nuovo principio che è entrato in noi. Ciò che principiò Gesù fin dal principio, ora principia anche in noi in forza dello stesso Spirito.
  Attraverso il "si" di Maria, e il nostro "si" che è la preghiera, l'attesa, lo stare insieme, Gesù si fa carne in noi, e possiamo testimoniarlo perchè abbiamo il suo stesso Spirito. Se no, testimoniamo noi stessi.
  Non è la glossolalia. Qui parlano "altre lingue", cioè lingue vere che non sono le proprie. Il che vuol dire "rispetto delle diversità": ci si intende ognuno nella propria lingua oppure dicendo le stesse cose. Che cosa vorrà dire questo ? 
  Vuol dire una cosa molto semplice: c'è una lingua che tutti capiscono e la lingua che tutti capiscono è l'amore. Lo si capisce in tutte le lingue, anche senza parole.



Tutti siamo chiamati a capire. Strumentazione per leggere la Storia del passato, compresa quella locale

N. 4
Attraverso alcune parole-chiave ci proponiamo di contribuire a risolvere alcune circostanze mai chiarite e spesso eluse sul triangolo Santa Maria del Bosco, Peralta/Cardona, arbëresh di Contessa. 
Ci piacerebbe se alle nostre chiavi di lettura venissero aggiunte ulteriori precisazioni e aggiunte/collaterali a cura di chi lo desideri.

IL CASTELLO
di Calatamauro


Quando si parla di Castello, a Contessa, tutti ci riferiamo al Castello di Calatamauro, ad appena 3 Km. ad ovest del centro abitato e a 764 m s.l.m.
Più autori e storici che di esso si sono occupati lo attribuiscono al Bizantini.
Secondo fonti arabe nell'anno 839 il castello venne a patti con i musulmani. 
Con le vicende successive, egemonizzate dai normanni e poi dagli Svevi, Calatamauro in quanto fortezza situata in area a forte presenza mussulmana -nel Vallo di Mazara- risulta elencato fra i presidi (1229-30) da rilanciare militarmente e coordinatamente all'impresa di Federico II intesa a liberare l'area del corleonese e del Belice dalla consistente presenza mussulmana.

 Tornò ad un ruolo di rilevanza, ancora, nel corso della guerra del Vespro (1270-72) e negli anni successivi. I corleonesi, alleati della città di Palermo, assediarono gli angioini che si erano asserragliati proprio a Calatamauro (1282). 
Successivamente Calatamauro fu al centro di tanti passaggi di mano a cagione degli incessanti conflitti che si succedettero nell'Isola. 
Negli anni trenta del '300 esso, con tutti i feudi ad esso collegati, passò ai Peralta.

Saranno appunto i Peralta e successivamente i Cardona a doversi misurare in termini di prestigio e forza "politica" con l'Abazia di Santa Maria del Bosco, che proprio contestualmente, dal 1300 in poi, crescerà in influenza e potenza. 
I Peralta/Cardona, potentissimi  anch'essi perchè legatissimi alla corona spagnola,  possedevano domini feudali vastissimi lungo tutta la fascia meridionale dell'isola e nella sola area di Calatamauro assommavano poco meno di 20mila ettari di terreni, e tuttavia (è l'ipotesi che stiamo studiando) erano in qualche modo insidiati (in termini politici) dall'espansionismo terriero-feudale non solamente dalla potente Abazia di Santa Maria ma anche dall'altrettanto potentissima Diocesi di Monreale -il cui arcivescovo era di nomina regia- che esercitava la propria baronia feudale su molte realtà comunitarie, compreso il vicino centro feudale di Bisacquino.
L'Arcidiocesi, in termini di signoria feudale contava allora 72 feudi (con una superficie di 27.590 salme, pari a circa 50.000'ettari) che andavano da Bisacquino ad Alcamo all'attuale territorio di Piana degli Albanesi.

Sulla base di quanto abbiamo finora spulciato su quel contesto storico, c'è -riteniamo noi- in quell'inizio di XVI secolo la volontà e l'impegno dei Peralta/Cardona di bloccare l'espansionismo feudale delle due confinanti baronie ecclesiastiche 
(1) dell'Arcidiocesi di Monreale 
(2) di Santa Maria del Bosco 
entrambi confinanti con le propaggini della loro baronia sui feudi di Calatamauro.

I Peralta/Cardona (per dirla in altri termini) non intendevano che Calatamauro (ed i feudi facenti parte di quella baronia) facesse la stessa fine di Batellaro, il cui territorio finì in parte all'Abazia e in parte all'Arcivescovato di Monreale. Da qui la disponibilità a consentire la fondazione di un paese per gli arbëresh sui feudi di confine di Serradamo-Contesse, a ridosso  dei confini di pertinenza dei due enti ecclesiastici. Il tutto al fine di bloccare l'espansionismo altrui ai danni della baronia di Calatamauro.

Lo stato di bisogno degli esuli arbëreshe di avere una nuova patria trovò alleata, almeno in quel frangente, l'accortezza dei baroni Peralta/Cardona interessati a trasformare gli oltre 60 feudi rustici facenti capo a Calatamauro in feudi aggregati ad una "Università", uno schermo alle pretese altrui.
Concludendo: quando i Cardona vanno a raccogliere altre famiglie albanesi nell'altra sponda dell'Adriatico per arrivare a 80 fuochi, numero minimo di famiglie per creare lo "Stato feudale di Kuntissa", non lo fanno per bontà d'animo. Applicavano la logica e gli interessi propri del regime feudale.
Ipotesi che necessita
di ulteriori ricerche.

31 Maggio

31 Maggio 1962

L'impiccagione di Adolf Eichmann, gerarca nazista, condannato a morte in Israele per crimini di guerra.

L'arresto in Argentina
Adolf Eichmann: un criminale moderno.Processo alla banalità del ...La sera dell’11 maggio del 1960 un gruppo di uomini presso una fermata di autobus a Buenos Aires (Argentina) si avvicinarono alle spalle di un uomo e prima che potesse accorgersene lo immobilizzarono al suolo e subito caricato su un’automobile.
I quattro uomini erano agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, arrivati in Argentina per una missione. L’uomo che avevano catturato, e che identificarono con certezza all’interno dell’auto grazie a una cicatrice sopra il suo occhio sinistro, era Adolf Eichmann uno dei più importanti criminali di guerra nazisti sfuggiti alla cattura. Dieci giorni dopo Eichmann venne trasportato segretamente in Israele. Il suo processo, terminato con una condanna a morte, è diventato uno dei più celebri del secolo, oltre che un momento fondante nella storia di Israele.


sabato 30 maggio 2020

Pentecoste. Cristianesimo quale senso del mondo e della vita

Nel Cristianesimo la ricorrenza della Pentecoste indica la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti insieme nel Cenacolo, ossia sulla Chiesa.

Assieme alla Pasqua è una delle solennità importanti dell'anno liturgico.
Icona Greca Legno immagine Pentecoste Tela Serigrafata|ArtesacrashopCinquanta giorni dopo la Pasqua la Chiesa intende ricordare la visitazione dello Spirito Santo ai credenti. 
La visitazione ebbe luogo nel giorno in cui i Giudei festeggiavano e  ringraziavano Dio per la raccolta dei cereali. Per questo la Pentecoste era detta anche "festa del raccolto" o "delle primizie". 

Al tempo di Cristo però essa aveva anche un altro significato: era festa di commemorazione di un evento importante della sacra scrittura: la consegna della Legge da parte di Dio a Mosé, che avvenne il cinquantesimo giorno dopo Pasqua.

 L’icona della festa pone in evidenza il Collegio dei dodici Apostoli, seduti su una panca a forma di arco. 

 Su ogni Apostolo viene posta la lingua di fuoco, simbolo dello Spirito. Altre icone rappresentano in alto le sfere celesti (= presenza di Dio), dalle quali partono raggi di luce e, in particolare, un fascio di luce trisolare orientato sugli apostoli.