La crisi della
Repubblica italiana
PAOLO FLORES D'ARCAS, filosofo, pubblicista e ricercatore universitario, direttore della rivista MicroMega
"Esula dai poteri del Presidente della Repubblica sindacare sulle opinioni politiche dei candidati ai singoli ministeri"
LUIGI MARATTIN, deputato pd
Il fatto che - per fare un comunicato di presunta (molto presunta) rassicurazione che stava aspettando mezzo mondo - Savona non abbia usato agenzie o quotidiani ma un blog di ignobili cialtroni che sputano letame su tutti, fornisce una reale misura di come siamo messi.
CARLO COTTARELLI, economista, convocato da Mattarella
Ogni futuribile governo dovrebbe approfittare della congiuntura relativamente positiva – tra crescita, anche se poco esaltante, e tassi bassi – per cominciare ad aggiustare i conti pubblici; altrimenti, non appena la crescita si dovesse interrompere, il Paese finirebbe sotto attacco e con tutta probabilità sarebbe costretto a fare sacrifici in un contesto estremamente sfavorevole.
«Sarei orgoglioso di servire il mio Paese. Il problema è: per fare che cosa? Non per creare più debito»
LUCIANO FONTANA, direttore del Corriere della Sera
Non è la prima volta che un capo dello Stato chiede ai partiti un cambiamento di un ministro, mai però è accaduto quello che è andato in scena nei giorni scorsi.
C’è qualcosa di incomprensibile nella vicenda che ha portato il presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte alla rinuncia. Una sfida al rispetto istituzionale che si deve al presidente della Repubblica, al buon senso politico, ai timori crescenti per i rischi economici e finanziari che il Paese può correre. Aver fatto saltare tutto dopo ottantaquattro lunghissimi giorni, tornare alle elezioni in autunno prolungando a dismisura la crisi italiana ha il senso di una grave sconfitta.
I due vincitori del 4 marzo, Movimento Cinque Stelle e Lega, non possono accusare che se stessi per il fallimento. Hanno avuto tutto il tempo di stendere un «contratto» pieno di provvedimenti di cui non si conoscevano le fonti di finanziamento. Di sottoporlo ai loro elettori tramite la Rete e i gazebo. Di litigare su chi, tra Salvini e Di Maio, dovesse ottenere l’incarico. Di tirare fuori dal cilindro, visti i veti reciproci, Giuseppe Conte: un candidato premier sconosciuto, senza esperienza politica e amministrativa, riducendo così la figura del presidente del Consiglio a un «esecutore» dell’accordo privo di quei compiti di guida e di coordinamento dell’azione di governo che la Costituzione gli assegna. Un’escalation culminata con l’indicazione al ministero dell’Economia, il più delicato vista l’enormità del nostro debito pubblico, di uno stimato professore, Paolo Savona, sostenitore della possibilità di uscire dall’euro, un tema mai sottoposto ai cittadini in campagna elettorale.
Tutto questo mentre lo spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi (un concetto non astratto ma molto concreto per la vita dei cittadini, perché misura quanto dobbiamo pagare per finanziare il nostro debito e quanto di conseguenza cittadini e imprese per ottenere prestiti e mutui) balzava da 130 a 215 punti. Il presidente della Repubblica, esercitando i poteri previsti dalla Costituzione, ha chiesto ai due partiti di indicare una figura più adatta a rappresentarci nelle delicate partite economiche che dovremo affrontare. Una personalità che soprattutto cancellasse il sospetto che l’Italia non volesse onorare i propri debiti e puntasse al crollo dell’intera costruzione europea. Una scelta utile anche a contrastare la volgare e ingiusta campagna dei media tedeschi contro il nostro Paese, a dimostrare che abbiamo tutto il diritto di affermare che l’Europa deve voltare pagina.
Non è la prima volta che un capo dello Stato chiede ai partiti un cambiamento di un ministro, mai però è accaduto quello che è andato in scena nei giorni scorsi. Una sfida arrogante, senza mezzi termini, volta a umiliare la più alta figura della Repubblica in nome di un’investitura popolare ( se vogliamo essere esatti, in realtà di metà dei votanti italiani) che darebbe diritto a tutto, anche al disprezzo istituzionale, anche alla contrapposizione feroce e insensata. Perché, ad esempio, non poteva essere scelto come ministro dell’Economia il numero due della Lega Giancarlo Giorgetti?
La sensazione è che, invece di ragionare seriamente sulla formazione del governo, Matteo Salvini , e in scia anche Luigi Di Maio, fossero impegnati a preparare la nuova campagna elettorale, a creare l’occasione per sfilarsi da un accordo fragile e rischioso, pieno di promesse impossibili. Meglio tornare a fare la cosa che riesce loro più congeniale, agitare le piazze e scatenare campagne sulla Rete avendo trovato anche un nuovo obiettivo: il Presidente della Repubblica. Comprensivi e gentili nei colloqui al Quirinale, un istante dopo pronti a richieste surreali, per non dire eversive, come l’impeachment del capo dello Stato da parte del Movimento Cinque Stelle.
I giorni che ci attendono saranno pesanti. Tutti i partiti dovrebbero recuperare un minimo di senso di responsabilità. Ci sono questioni economiche urgenti da affrontare e una legge elettorale da modificare per evitare che le elezioni anticipate riproducano la situazione paralizzante del 4 marzo. In fondo lo devono a tutti gli italiani che assistono smarriti.