lunedì 29 febbraio 2016

Regione Sicilia. Mancando politica e programmazione si prova a mettere le "pezze"



La Regione garantisce i fondi, arriva l'ultimo via libera alle proroghe dei precari degli enti locali,
Pass una delle norme più complicate della Finanziaria. Il governo ha dovuto alzare un muro per impedire che il recinto delle categorie ammesse alle proroghe per il 2016 si allargasse a dismisura. Solo dopo cinque ore di  scontri l'Ars ha approvato la norma che  stanzia il budget per i 24 mila precari degli enti locali siciliani. 
Pronti poco meno di 189 milioni. Soldi che servono a finanziare il percorso già avviato con la norma  che il governo nazionale ha fatto approvare a dicembre nella propria legge di Stabilità.
La novità della legge approvata ieri all'Ars riguarda l'obbligo per i sindaci di avviare i processi di stabilizzazione.  Finora ogni legge che ha previsto il posto fisso è rimasta sulla carta per problemi finanziari: i sindaci temono che dopo un iniziale finanziamento, la Regione non supporti più il pagamento degli stipendi. 
Ora Crocetta ha fatto approvare un articolo che impone ai sindaci di coprire con stabilizzazioni tutti i vuoti d'organico, pena la perdita dei corrispondenti finanziamenti. È il tentativo del governo regionale di scuotere i sindaci. 
Un emendamento di Vincenzo Vinciullo (Ncd) permette di erogare i finanziamenti e consentire quindi almeno le proroghe dei contratti nei Comuni in dissesto: una chance che in primis salverà i precari di Bagheria, Augusta e un'altra quindicina di città e paesi. 
Approvato anche l'articolo che garantisce i finanziamenti per tutti i dipendenti dell'Ente acquedotti siciliani, sia quelli ancora in forze all'ente che quelli trasferiti in altri uffici regionali. E anche la norma che garantisce i fondi ai consorzi di bonifica e ai suoi duemila dipendenti (mille dei quali precari) è stata approvata: il budget per quest'anno aumenta di 2 milioni e 296 mila euro raggiungendo così i 36 milioni e 336 mila euro. 
Tagliati però 50 mila euro destinati all'Ascebem (l'associazione dei consorzi), approvata invece una norma che impone di tagliare del 20% le spese di gestione (escluse quelle per il personale) a patto che questo taglio non sia già stato fatto l'anno scorso. 
Ma sui consorzi — ha ammesso l'assessore Cracolici — la partita è ancopra tutta da giocare perché serve una riforma che permetta di assorbire debiti e assegnare nuove funzioni. 
Cassati invece gli emendamenti che avrebbero offerto un paracadute (leggasi proroga) ai precari delle Province e ai 3.600 operatori degli ex sportelli multifunzionali della formazione professionale. 
Nel primo caso c'è ancora margine per intervenire prima del varo definitivo della manovra previsto per oggi. Nel secondo caso si rinvia tutto a una norma da discutere dopo la Finanziaria, anche perché il costo dell'operazione sarebbe di 36 milioni. 
Il no agli operatori degli sportelli multifunzionali è andato in scena mentre una delegazione di lavoratori era in pressing sul Parlamento. Santi Formica, Marco Falcone e Vincenzo Figuccia hanno a lungo tenuto bloccata l'aula nel tentativo di far inserire nell'articolo sui precari la norma per questa categoria. 
Allo stesso modo l'aula ha discusso per oltre un'ora di un emendamento che avrebbe salvato 8 precari licenziati dal piccolo Comune di Milo (nel Messinese) per problemi di bilancio: inutile il pressing di Forza Italia. Su queste norme è andato in scena un durissimo scontro fra i deputati e il presidente dell'Ars, Giovanni Ardizzone, che ha bloccato gli emendamenti per evitare l'esplosione di proposte da parte di ogni deputato. Ma per Giuseppe Picciolo, Edy Tamajo, Michele Cimino, Totò Cascio, Salvo Lo Giudice, Totò Lentini e Marcello Greco (Sicilia Futura) «non è condivisibile l'intransigenza della presidenza dell'Ars su temi tanto delicati. Bisogna pensare allo sconforto di migliaia di famiglie». 
Ardizzone ha fatto da diga contro la pioggia di emendamenti che avrebbero radicalmente modificato la Finanziaria negli articoli più importanti e ha imposto al Parlamento una novità assoluta: «Niente sedute notturne per approvare norme tanto delicate». 
Con questa premessa stamani si riparte dal voto sul futuro di Riscossione Sicilia.

Essere minoranza. Spiegare per far conoscere -5-

«In pace, preghiamo il Signore»
Molti quando si riferiscono alla Liturgia bizantina evocano -a ragione- il concetto di "simbolo". Effettivamente essa è una liturgia "simbolica". 
E' però facile cadere nell'equivoco, perchè, con superficialità, il simbolismo viene applicato ad ogni singolo atto della celebrazione piuttosto al suo complesso. 

Viene -per esempio- da molti ritenuto che "il piccolo ingresso" (quando il libro del Vangelo viene elevato e portato in processione sull'altare) vuole significare l'uscita nella vita pubblica, per predicare, di Gesù Cristo. 
Un evento, quindi, del passato, una rievocazione storica.
Altre interpretazioni -su questa tipologia interpretativa- vengono attribuite ad altri singoli atti della celebrazione.
In verità questo tipo di simbolismo, secondo i liturgisti, non ha nulla a che fare col significato della Liturgia.

La Chiesa ha sempre temuto che per i fedeli meno formati la parola "simbolo" possa significare qualcosa difforme dal reale, l'antitesi del vero. Ed in effetti  -e purtroppo- sono tanti coloro che attribuiscono una interpretazione del simbolo liturgico come "rappresentazione figurata", non reale.

          Da qui la conclusione a cui molti pervengono
              "Gesù Cristo uscì realmente per predicare; oggi 
               quell'evento viene simbolicamente rappresentato, 
               per farne memoria". 

Questo tipo di lettura semplicistica -lo ripetiamo-, secondo i liturgisti, è arbitraria e punta a trasformare le azioni liturgiche al livello di scene didattiche. 
Queste interpretazioni distraggono dal vero significato della Divina Liturgia e, di fatto, riducono il simbolo a qualcosa di divaricato dalla "realtà".


Quale è allora il senso della Liturgia bizantina ?
Nel n. 3 della serie "essere minoranza" è stato messo in evidenza che l'eucarestia, nel rito bizantino, rappresenta il "sacramento dell'assemblea", ossia della Chiesa, della comunione di tutti i fedeli. 

In breve
"Questo mondo" imperfetto (decaduto) aspira ad essere salvato. 
Esso fu creato e affidato all'uomo perchè la sua vita (di creatura) potesse partecipare alla vita divina.
Il peccato (la caduta) ha intaccato la creazione e l'uomo è vissuto di sè, chiuso in sè stesso, coltivando il proprio egoismo.
Cristo ha portato la salvezza del mondo, ripristinando la "vita" intera -la vita eterna- quale era nella condizione originale e quale sarà nel compimento, nel Regno. 

Nella Divina Liturgia, entro cui la Chiesa si costituisce mediante l'Assemblea, si fa esperienza della vita nuova, esperienza del fatto che la Chiesa esiste solamente per essere costantemente trasformata in quella realtà che essa rivela e dove non esiste egoismo perchè Dio è in tutti ed in tutto.
La Chiesa (costituita dall'Assemblea) esiste per attualizzare l'invisibile nel visibile, lo spirituale nel materiale.

La Liturgia ricorda, vuole ricordare, che il mondo vissuto dalla Chiesa è già salvato, salvato dalla Croce e dalla Resurrezione di Cristo.
Il mondo che viviamo -nell'assemblea, nella comunione dell'Assemblea - è quello già salvato. 

Nella Liturgia preghiamo per essere salvati e nel contempo preghiamo perchè siamo stati già salvati.  Alla fine infatti si prega "Abbiamo visto la vera luce, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, abbiamo trovato la vera fede…".

La Divina Liturgia è quindi -nel rito bizantino- il sacramento dei sacramenti in virtù dell'azione dello Spirito Santo.
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Torneremo sul simbolismo liturgico, per coglierne il significato alla luce di quanto riportato sopra.

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La grande litania
Dopo l'esclamazione solenne del celebrante: "Benedetto il regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ...", inizia  la prima struttura dialogica della Divina liturgia che consiste nelle parole pronunciate dal diacono o dal sacerdote: «In pace, preghiamo il Signore» . 
L’uomo non sa pregare e neanche sa quello che in realtà è necessario per lui, perciò la chiesa insegna come pregare e cosa chiedere a Dio. 
La grande litania non è preghiera del singolo individuo, ma di tutta la chiesa. 
La pace presuppone un ringraziamento della vita personale e comunitaria, una confessione dei peccati e un perdono di Dio, una riconciliazione con se stesso, con il prossimo e con Dio.
Chi prega con questo stato d’animo, è soddisfatto della sua vita ed è pronto a ricevere il sacramento dell’eucaristia. 

Chi presiede l’assemblea, invita i fedeli a pregare e ha il ruolo d i rafforzare la fede del popolo. 
Tutti preghiamo in Cristo, attraverso il suo Spirito secondo le parole dell’apostolo Paolo che dice: «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre”» (Gal 4,6). 
La eireniká (grande litania) inizia con le intercessione per il mondo e segue, poi, una supplica che dice: «Per la pace dall’alto e la salvezza delle anime nostre preghiamo il Signore». 
La vera pace non la troviamo sulla terra o nel mondo ma ci viene dall’alto, ci viene donata da Cristo. 
Si prega per quello che l’evangelo chiama l’unico necessario, (Lc 10,42) cioè per il regno di Dio e «la pace dall’alto» ossia la giustizia di Dio .
Acquisire la pace è segno della salvezza, ma è necessario anche per ottenere ogni virtù.

«Per la pace del mondo intero, per la saldezza delle sante Chiese di Dio e l’unione di tutti, preghiamo il Signore». La chiesa prega perchè il mondo abbia quella pace che non è dell’uomo, ma di Dio ed in tal modo tutti possono essere compartecipi del regno di Dio, perchè la chiesa e coloro che stanno in essa possano essere dei veri testimoni di Cristo e del suo regno. 
Gesù dice ai suoi discepoli che sono il sale della terra e la luce del mondo (Mt 5,13-14) e questo è valido anche per i successori degli apostoli e dei discepoli.
Pregare per la saldezza della chiesa significa tener presente la fedeltà al Vangelo e alla buona notizia che è stata portata, quella del regno di Dio. 

Si prega inoltre per l’unione di tutti perché Cristo è venuto nel mondo «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11, 2) e dunque per superare le divisioni fra gli uomini.

«Per questa santa casa e per coloro che vi entrano con fede, pietà e timore di Dio, preghiamo il Signore». La fede, la pietà e il timore di Dio costituiscono le condizioni per unirsi alla preghiera della chiesa e al sacramento dell’eucaristia. 

Nel momento in cui il fedele entra nella chiesa è cosciente che va a stare per un po’ di tempo nella presenza di Dio e la sua sete di Dio gli fa cambiare atteggiamento per poter pregare in un modo più autentico possibile.

La grande litania continua con preghiere dove si nominano i capi della chiesa e si sottolinea l’idea di unità tra la chiesa locale e quella universale, poi si prega per il paese e per le sue autorità civili, per la città, per la mitezza del clima, l’abbondanza dei frutti della terra, per coloro che sono in viaggio, per i sofferenti, i prigionieri ecc. 

Questa preghiera (la grande litania) abbraccia tutto l’universo.

La preghiera dell’eireniká finisce con le seguenti parole: «Facendo memoria della santissima, immacolata, più che benedetta, gloriosa sovrana la madre di Dio e sempre vergine Maria, insieme a tutti i santi, affidiamo noi stessi, gli uni gli altri, e tutta la nostra vita a Cristo Dio» .
Tutti i fedeli, avendo come esempio la vergine Maria, colei che ha accolto prima fra tutti il messaggio della salvezza, sono invitati a lasciarsi nelle mani di Dio, a seguire le cose dall’alto sapendo che la vera vita si trova in Cristo e che i cristiani l’hanno ricevuta al momento del battesimo.

                                                                «In pace, preghiamo il Signore»

domenica 28 febbraio 2016

La Mafia. Salvatore Lupo: "E' un incrocio di criminalità violenta, politica e affari".

La Repubblica-Palermo

PALERMO. 
Cosa è la mafia oggi? 
«È cambiata ma è cambiata meno del mondo che ha intorno. Ed è nascosta come sempre nelle pieghe della mala politica e della mala economia. Certo, nell'era corleonese si è clamorosamente palesata con i suoi misfatti. Ma quell'era è finita, la guerra non c'è più. La Repubblica italiana è uscita da quella stagione di emergenza estrema». 
Professore Salvatore Lupo è almeno dal 2000 che tutti continuano a ripetere che la mafia si è "inabissata", che è "invisibile". 
«Nel corso della sua lunga storia, la mafia ha più che altro cercato di mantenersi coperta. Ha sempre saputo che, se le autorità o l'opinione pubblica non la cercano, non la vedono neanche. A meno che non si riveli essa stessa con le armi o con le bombe, come ha fatto per un ventennio. Oggi semmai nessuno ci può più dire che la mafia non esiste. 
In passato tanti siciliani, nei ranghi della classe dirigente ma non solo, l'hanno fatto. Magari per pruderie regionalistica, perché le polemiche sul tema suonavano come un'offesa alla sicilianità. La fine di questa cultura omertosa è stata anche causata da una repressione molto forte a partire dalla metà degli anni '80. Si sono segnati risultati senza precedenti anche rispetto al molto celebrato, ma in realtà blando, periodo fascista. 
Lo dico da storico che ha studiato quelle vicende a fondo: la maggior parte degli imputati dei processi del '28 e del '29 furono oggetto di leggere condanne, ed erano già fuori nel '31 per amnistia, qualcuno andò al confino ed era già al lavoro già negli anni '30». 
Questa sua affermazione va dritta al cuore del problema. Da più parti si dice che dopo le stragi del '92 la mafia sia stata colpita ma solo nella sua struttura militare, non in quella "politica". È andata così? 
«Non mi pare che nella considerazione di questo fenomeno possa essere introdotta una distinzione così netta. La mafia è un incrocio di criminalità violenta, politica e affari. Lo era tra '800 e '900, quando i mafiosi erano uomini di fiducia dei proprietari fondiari. "Facinorosi della classe media", li chiamava Franchetti nel 1877. Lo era anche dopo, quando i mafiosi servivano da terminale periferico di macchine politico-elettorali. Non possiamo insistere su schemi dicotomici come quelli cui lei accennava. Riveleremmo un'incapacità di fondo di capire di che si tratta». 
Ci spieghi lei di che si tratta. 
«La mafia è stata sempre un potere minore rispetto a quello ufficiale dello Stato e delle élite sociali. Dobbiamo considerare l'era dei Corleonesi come una parentesi nella storia della mafia. La stagione del terrorismo mafioso è terminata, spero definitivamente. Io non posso certo prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino ritorni a quel passato tragico, ve ne sono invece che indicano il contrario. Quella guerra è finita. Il numero degli omicidi in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno che in Lombardia. Se penso al 1991...». 
Perché proprio al 1991 ? 
«Perché quell'anno, m Italia, c'è stato il picco degli omicidi per cause riconducibili alla criminalità organizzata: 700. Praticamente quasi il doppio dei morti di violenza politica - 490 - registrati in tutti gli anni di piombo che vanno dal 1969 al 1985. L'impatto delle mafie sulla storia generale italiana è stato enorme. Poi lo Stato ha reagito».
Dunque, secondo lei, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Molti però dicono che c'è una nuova mafia... 
«Sì, e allora? Questo non cancella ciò che è avvenuto: uno scontro tremendo conclusosi con l'annientamento del gruppo di comando di Cosa nostra. Si tratta di una vittoria transitoria? Ciò non toglie che sia storicamente molto rilevante. Niente trionfalismi, certo. Lo stato di salute cagionevole (uso un eufemismo) della democrazia e della morale pubblica in Italia, e in particolare in Sicilia, esclude rivolgimenti palingenetici. Però non è giusto ne utile dimenticare che questa nostra epoca è diversa da quella sanguinosa di 35 anni fa. C'è un pezzo di opinione pubblica che ragiona come se quei fatti tragici fossero avvenuti ieri, anzi che si sente come bloccata in quel passato. Vogliamo ammetterlo che tanti sforzi, tanti sacrifici - anche della vita - sono serviti a qualcosa? È paradossale e frustrante che uno dei pochi risultati conseguiti in questo Paese non sia riconosciuto».
 Chiaro, i fatti sono fatti: ma perché c'è questo rifiuto? 
«Perché l'Antimafia più generosa e ideologica non si accontenta di sapere Riina, Provenzano e soci in galera. Il risultato oggi, una volta ottenuto, appare piccolo: ma non così appariva quando sembrava impossibile conseguirlo, nel 1985 o nel 1991! 
Perché resta inappagata la nostra esigenza di buona politica e buona economia, e non troviamo un altro bersaglio che sia adeguato al nostro tempo». 
Le voci dal di dentro, già dopo il 1992, svelavano "Cose Mondiali"..
«I sistemi criminali di scala planetaria e senza volto, il complotto universale? Lasciamo perdere. Troppi osservatori ed interpreti, anche in buonafede, cadono nel mito dell'onnipotenza della mafia. Troppi danno credito ai mafiosi più o meno pentiti, che si raccontano come se ogni essere umano e ogni forza istituzionale devono essere sempre, per forza, "nelle loro mani". Questa retorica rischia di paralizzarci. La verità è che ogni mafia può essere battuta e, in gran parte, quella che abbiamo imparato a chiamare Cosa nostra è stata battuta. Fermo restando che, purtroppo, ogni vittoria può di seguito trasformarsi in sconfitta». 
Che fine hanno fatto i patrimoni accumulati con i grandi traffici? 
«Da qualche parte saranno. E saranno attivi. Come molti degli imprenditori, dei professionisti, e naturalmente dei politici, già interni alla rete mafiosa. Attivi e più liberi di muoversi in proprio, ora che i gruppi di fuoco corleonesi non li tengono più sotto il mirino. Ma non è una nuova mafia. Diciamo meglio che si tratta dei residui della vecchia». 
Come al solito bisogna seguire l'odore dei soldi. 
«E bisogna seguire anche le tracce dei trasformismi. In una ricerca sull'economia criminale coordinata dal mio collega Rocco Sciarrone dal titolo Alleanze nell'ombra, ad esempio, scopriamo che tutte le imprese top della connection mafiosa in provincia di Palermo hanno aderito ad associazioni antiracket o antimafia».

Pensioni d'oro. Nessuna scure su di esse

In questi giorni sui media si parla del Cardinale Bagnasco, non per la sua attività "cristiana", ma per essere un beneficiario del buon cuore della Repubblica Italiana.
Si legge che costui incasserebbe mensilmente un vitalizio -a carico dei contribuenti italiani- fuori misura. 

E' la solita storia delle caste: devono gravare sul denaro pubblico.

Bagnasco come troppi altri non avverte nessun disaggio a far parte delle caste privilegiate ?
E' possibile continuare su questo piano ? E' -per lui- facile predicare il Vangelo a chi vive con redditi irrisori ?

Tutti i componenti delle caste (politiche, religiose, burocratiche …) di questo paese versano pochi contributi e riscuotono pensioni d'oro. 

Il cardinal Bagnasco  secondo notizie persistenti che girano sui media,  mai smentite, prenderebbe 4mila euro al mese per il suo servizio come arcivescovo ordinario militare. 
I giornali (è giusto ribadirlo) finora non hanno riscontri diretti al riguardo. E' certo –comunque-  che se fosse confermata la notizia, sarebbe incredibile: Bagnasco, infatti, ha portato le stellette soltanto per 3 anni, scrive Mario Giordano. 

Com'è possibile maturare 4mila euro al mese con soli 3 anni di contributi versati? 

sabato 27 febbraio 2016

Con le immagini ... ... è più facile

Sicilia da ammirare

Dal 19 marzo al 31 agosto 2016 la mostra Tormenti e incanti di Antonio Ligabue sarà visitabile presso la Sala Duca di Montalto del Palazzo dei Normanni di Palermo
ANTONIO LIGABUE: Lo chiamavano “il matto”, perché viveva completamente fuori dagli schemi, ai margini della società e della ragione, ed il suo talento artistico, a volte selvaggio e sgraziato, è stato riconosciuto solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1965, a soli 66 anni.

Il piccolo migrante: salvato il 24 febbraio nel Canale di Sicilia

Batte cinque con un soccorritore in tuta bianca a bordo della nave «Cigala Fulgosi» della Marina Militare.
Queste immagini di "umanità" si colgono solamente nel Sud Europa (Italia, Grecia). La Mitteleuropa preferisce chiudere le frontiere e godersi il proprio egoismo. 

Saggezza di provincia

Uomini, fatti, eventi. Come li ricordiamo oggi

27 Febbraio
Muore a Milano il 27 febbraio 1960 Adriano Olivetti, poliedrico imprenditore e uomo di cultura. La morte improvvisa lo coglie durante un viaggio in treno da Milano a Losanna. 
Lascia un’azienda-modello, presente su tutti i maggiori mercati internazionali, con circa 36.000 dipendenti, di cui oltre la metà all’estero.

E’ l’azienda dove nascono le famose macchine da scrivere Olivetti, dove è nata la Lettera 22, mito e oggetto di culto degli anni ’60. 

Straordinaria e poliedrica figura di imprenditore è stato anche uomo di cultura, politico, intellettuale, editore ed urbanista. Dopo essersi laureato in chimica industriale al Politecnico di Torino, nel 1924 inizia l’apprendistato nell’azienda paterna come operaio. A questo proposito, molti anni più avanti, e quando l’azienda sarà un colosso internazionale, dirà al giovane Furio Colombo: “[...] io voglio che lei capisca il nero di un lunedì nella vita di un operaio. Altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa fanno gli altri“.
L’anno seguente, Olivetti compie un viaggio negli Stati Uniti, viaggio che gli offre l’opportunità di visitare decine di fabbriche fra le più avanzate, sia sotto il profilo della concezione che del rapporto con i dipendenti. Per la sua sensibilità estrosa e ricettiva questo è uno stimolo fortissimo. La sua famiglia, di origini ebraiche il padre e valdese la madre, è di idee antifasciste ed è protagonista della fuga dall'Italia di Turati. 
Di Adriano parla Natalia Ginzburg nel suo romanzo “Lessico familiare”, era infatti amico della famiglia Levi.
lettera22Tornato in Italia, si mette in testa di aggiornare e modernizzare la Olivetti, con una serie di progetti appositamente pensati da lui. Fra le novità introdotte si trovano idee originalissime e all’avanguardia, caratterizzate da un’attenta e sensibile gestione dei dipendenti, sempre guardati dal punto di vista squisitamente umano prima che come risorse produttive. Ecco allora prendere corpo un’organizzazione decentrata del personale, una diversa strutturazione delle funzioni direttive, la razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio, lo sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero e altro ancora.

Sulla spinta di questo entusiasmo innovatore, di lì a poco avvia anche il progetto della prima macchina per scrivere portatile che uscirà nel 1932 con il nome di MP1. La nuova organizzazione fa aumentare in maniera significativa la produttività della fabbrica e le vendite dei prodotti. Alla fine del 1932 è nominato Direttore Generale dell’azienda, di cui diventerà Presidente nel 1938, subentrando al padre Camillo. Porta avanti riflessioni e sperimentazioni nel campo dei metodi di lavoro e pubblica, nella rivista da lui fondata, “Tecnica e Organizzazione“, vari saggi di tecnologia, economia e sociologia industriale.

A Ivrea avvia la progettazione e costruzione di nuovi edifici industriali, uffici, case per dipendenti, mense, asili, dando origine ad un articolato sistema di servizi sociali. In particolare, nel 1937 dà l’avvio alla costruzione di un quartiere residenziale per i dipendenti, su progetto degli architetti Figini e Pollini (il futuro padre del pianista Maurizio). In ambito strettamente indutriale, invece, riduce l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali, a parità di salario, in anticipo sui contratti nazionali di lavoro.

Nel 1956 diventa membro onorario dell’American Institute of Planners e vicepresidente dell’International Federation for Housing and Town Planning; nel 1959 è nominato presidente dell’Istituto UNRRA-Casas, creato in Italia per la ricostruzione post-bellica.
Tra i numerosi riconoscimenti che gli sono attribuiti vi sono, nel 1955, il Compasso d’Oro per meriti conseguiti nel campo dell’estetica industriale e, nel 1956, il Gran Premio di architetturaper “i pregi architettonici, l’originalità del disegno industriale, le finalità sociali e umane, presenti in ogni realizzazione Olivetti“.

Alla fine della seconda guerra mondiale l’attività di Adriano Olivetti come editore, scrittore e uomo di cultura si intensifica. Già in precedenza, assieme a un gruppo di giovani intellettuali, aveva fondato una nuova casa editrice, la NEI (Nuove Edizioni Ivrea), di fatto trasformata nel 1946 nelle Edizioni di Comunità. Con un intenso programma editoriale, sono pubblicate importanti opere in vari campi della cultura, dal pensiero politico alla sociologia, dalla filosofia all’organizzazione del lavoro, facendo conoscere autori d’avanguardia o di grande prestigio all’estero, ma ancora sconosciuti in Italia. In Europa, intanto, imperversa la seconda guerra mondiale e l’imprenditore si rifugia momentaneamente in Svizzera. Qui completa la stesura del libro “L’ordine politico delle comunità“, in cui esprime le idee alla base di un vagheggiato Movimento Comunità, fondato successivamente nel 1947. 
La rivista “Comunità“, invece, iniziate le pubblicazioni nel 1946, diventa il punto di riferimento culturale del Movimento. Alla fine del ’59 le Edizioni di Comunità pubblicheranno una raccolta di saggi di Adriano Olivetti sotto il titolo “Città dell’Uomo“.

Per tradurre le idee comunitarie in realizzazioni concrete, nel 1955 fonda l’IRUR – Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale del Canavese – con l’obiettivo di combattere la disoccupazione nell’area canavesana promuovendo nuove attività industriali e agricole. L’anno seguente il Movimento Comunità si presenta alle elezioni amministrative e Adriano Olivetti viene eletto sindaco di Ivrea. Il successo induce Comunità a presentarsi anche alle elezioni politiche del 1958, ma risulta eletto il solo Adriano Olivetti.
L’esperienza imprenditoriale e culturale di Olivetti aveva attirato molti cervelli ed intellettuali che vedevano in questa esperienza un’opportunità di ricerca e progetti non eguagliate in Italia.

Il più antico testo albanese in un codice della Biblioteca Ambrosiana ... ... di Calogero Raviotta

L’inno pasquale della Resurrezione, riportato in un codice della Biblioteca Ambrosiana, è considerato, assieme alla formula battesimale (1462) dell’arcivescovo di Durazzo Pal Engjëll, il testo scritto più antico della lingua albanese, come si può dedurre dalle note e dalle considerazioni, di seguito riportate ed espresse al riguardo da alcuni studiosi.
Il testo albanese è inserito in un codice greco come precisato nella relazione di padre Marco Petta, jeromonaco della Badia Greca di Grottaferrata, “Opere edite ed inedite di padre Sofronio Gassisi”: “A padre Sofronio Gassisi deve attribuirsi il merito di aver segnalato il più antico testo albanese che fino ad oggi si conosca, inserita nella pericope evangelica del Venerdì Santo (Matteo XXVII. 62 sgg.) tramandata dal cod. Ambrosiano gr. 133, secolo XIV (A. Martini D. Bassi, Catalogus Codicum Graecorum Bibliotecae Ambrosianae. T. I, pag. 147.).

Fu in questa felice circostanza che padre Sofronio si mise in corrispondenza con l’allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana, mons. Achille Ratti (poi papa PIO XI), il quale oltre ad informarlo più precisamente dei dati bibliografici gli inviò una riproduzione fotografica della pagina indicata”.
Mons. Enrico Galbiati, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, in un suo appunto manoscritto, precisa che nel foglio 63 recto e verso è riportato l’inno della Resurrezione prima in greco (Cristòs anèsti….) e dopo in albanese (Cristi u gjall…..) ed allega la fotocopia del testo del foglio medesimo.
Mons. Eleuterio Fortino nel foglio “Besa – Fede” (aprile 1990) scrive che nel retro del foglio 63 è riportato l’inno liturgico della Resurrezione in greco, la melodia e la traduzione nel dialetto tosco. Riporta quindi alcune informazioni sulla datazione del testo, la traduzione e la pubblicazione, tenendo presente quanto scritto da alcuni studiosi e storici in Grecia (Spyridon Lambros nel 1906), in Italia (padre Nilo Borgia nel 1930 e prof. Giuseppe Schirò nel 1959), in Francia (Mario Roques), in Albania (Accademia delle Scienze).
Tutti gli studiosi comunque sono concordi nel riconoscere che i due testi citati sono i documenti più antichi scritti albanesi: la formula battesimale in lettere latine e nel dialetto ghego (Nord dell’Albania), l’inno della Resurrezione in lettere greche nel dialetto tosco (Sud dell’Albania).

Nota – Possono risultare utili brevissime notizie su alcuni studiosi sopra citati:
- Padre Sofronio Gassisi (1873-1923), nato a Contessa Entellina, Jeromonaco della Badia Greca di Grottaferrata, studioso di liturgia e paleografia,  direttore del periodico “Roma e l’Oriente”, considerato un anticipatore dell’ecumenismo.
-  Padre Nilo Borgia (1870 - 1942), nato a Piana degli Albanesi, jeromonaco della Badia Greca di Grottaferrata, nato a Piana degli Albanesi, entrò nella Badia Greca di Grottaferrata nel 1883 e abbracciò la vita monastica distinguendosi per santità e dottrina. Sotto la sua guida come direttore spirituale, le due sorelle Agnese ed Elena Raparelli maturarono la loro vocazione religiosa, che determinò la fondazione della Congregazione delle Suore Basiliane "Figlie di S. Macrina", Istituzione di suore di rito bizantino col compito di operare nelle comunità italo-albanesi e nel vicino Oriente.
- Prof. Giuseppe Schirò (1905-1984), nato a Contessa Entellina, studioso di cultura bizantina e arbëreshe, docente e direttore dell’Istituto di studi bizantini dell’Università La Sapienza di Roma.
- Mons. Enrico Galbiati, (1914 - 2004), sacerdote della Chiesa ambrosiana ("sacerdote più umile e più colto della diocesi"), Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, libero docente di filologia biblica all'Università Cattolica di Milano, docente nei seminari dell'archidiocesi di Milano, assistente ecclesiastico degli Italo-Albanesi residenti in Lombardia (nel 1967 dal vescovo mons. Giuseppe Perniciaro nominato canonico dell'Eparchia di Piana degli Albanesi col titolo di Archimandrita).
- Mons. Eleuterio Fortino (1938 - 2010), arbëresh nato a S. Benedetto Ullano (CS), sottosegretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, uno dei più attivi protagonisti dell’ecumenismo (numerose le sue pubblicazioni di catechesi orientale e liturgia), assistente ecclesiastico e riferimento degli Italo-Albanesi residenti a Roma.

venerdì 26 febbraio 2016

Hanno detto ... ...

GAD LERNER, giornalista

L’Europa austro-ungarica si stacca dalla Grecia colpevole di accogliere i migranti. Poi toccherà all’Italia


È un simulacro postumo d’impero austro-ungarico quello che si è riunito da Vienna a Budapest, passando per Praga e Bratislava, decidendo unilateralment
e che la nuova frontiera europea si restringerebbe alla Macedonia, tagliando fuori la Grecia. 
Il governo di Atene per protesta ha richiamato il suo ambasciatore in Austria, la tensione cresce al confine da cui la Macedonia lascia passare ora solo ottanta profughi al giorno. 
E gli altri, che sono migliaia? 
La Grecia si arrangi, si trasformi pure in un Libano d’Europa (ricordo che il mio paese natale ospita un numero di migranti ormai pari al 25% della sua popolazione); cioè in un immenso accampamento di disperati.
È uno scandalo questa amputazione di fatto della Grecia decisa per egoismo dai paesi mitteleuropei. 
L’opinione pubblica italiana dovrebbe ricevere maggiori informazioni su quanto avviene lungo la cosiddetta “rotta balcanica”. Non solo perché il flusso dei profughi probabilmente verrà dirottato di nuovo verso le nostre coste. Ma perché dobbiamo essere consapevoli che questo pseudo-impero austro-ungarico, dopo essersi tagliata la gamba greca, è pronto a tagliarsi anche la gamba italiana.

giovedì 25 febbraio 2016

Essere cittadini della Repubblica. Come difendersi dalla malapolitica ... .... --8-

IL TERRITORIO
La sovranità implica che lo stato eserciti il supremo potere di comando in un determinato ambito spaziale, in modo indipendente da qualsiasi altro stato.

La precisa delimitazione del territorio è condizione essenziale per garantire allo Stato l'esercizi della sovranità e per assicurare agli Stati l'indipendenza reciproca.

Oggi tutta  la terraferma, ad eccezione dell'Antartide, è divisa tra Stati. Perciò il diritto internazionale  ha elaborato un corpo  di regole che servono a delimitare  l'esatto ambito  territoriale di ciascuno Stato. Secondo queste regole il territorio è costituito da:
--Terraferma: porzione di territorio delimitato dai confini, che possono essere naturali o artificiali. Di regola i confini sono delimitati da Trattati internazionali.
--Acque interne comprese entro i confini.
--Mare territoriale: fascia di mare costiero interamente sottoposta alla sovranità dello Stato. Prima era di 3 miglia, cioè la gittata massima del cannone, ora è di 12 miglia marine. Questo è il limite del mare territoriale riconosciuto dall'Italia, come prescrive l'art. 2 del Codice della Navigazione. Si tratta però di una regola non accettata da tutti gli Stati, alcuni dei quali rivendicano  una maggiore estensione del lor mare territoriale.
--Piattaforma continentale; è costituito dal cosiddetto zoccolo continentale, cioè da quella parte di fondo  marino di profondità costante che, più o meno esteso, circonda le terre emerse  prima che la costa sprofondi negli abissi marini. Gli Stati possono riservare a sè   l'utilizzazione esclusiva delle risorse naturali estraibili dalla piattaforma continentale, purchè sia assicurata la libertà delle acque. Specialmente lungo la riva del continente, lungo circa 200 km da dove il mare è poco profondo circa 100 m (dove ad esempi si possono mettere le piattaforme petrolifere).
--Spazio atmosferico sovrastante.
--Navi e aeromobili battenti bandiera dello Stato, quando si trovano in spazi non soggetti alla sovranità di alcuno Stato.
--Sedi delle rappresentanze diplomatiche all'estero.

La dottrina giuridica ha sempre ribadito come il territorio sia coessenziale allo Stato.
Lo Stato moderno ha perduto il controllo di alcuni fattori presenti sul suo territorio e la possibilità che tali fattori superino, in entrata o in uscita, i confini non dipende, in tutti i casi, dalla sua volontà. Ad esempio nel mercato unico europeo, in cui hanno trovato piena attuazione la libera circolazine delle merci, dei capitali, dei servizi e delle persone tra gli Stati della UE.

Sambuca di Sicilia. L'omelia domenicale e le interpretazioni ...

GIORNALE DI SICILA


SAMBUCA. Se con la sua durissima omelia di domenica scorsa sulle vicende della sala operatoria dell'ospedale civico di Sciacca, l'arciprete di Sambuca, Don Lillo Di Salvo, intendeva scuotere le acque stagnanti del mondo politico agrigentino e siciliano, i fatti dimostrano che c'è riuscito. Moltissimi i commenti prò e contro sul web. 
Risulta inoltre che durante le votazioni per la legge finanziaria di martedi scorso, tra i parlamentari ci siano stati molti mugugni all'Ars. Un risentito commento ufficiale viene dall'on Margherita La Rocca: "Leggo (sul quotidiano La Sicilia ndr) ciò che doveva essere l'omelia di una domenica di quaresima e ne resto colpita per i toni e i contenuti. Le parole usate da don Lillo Di Salvo, arciprete di Sambuca, non mi coinvolgono come politico ma mi feriscono fortemente come cattolica..... Ricordo a don Lillo e a me stessa, che....... bisogna, la nostra coscienza cristiana lo impone, fare nomi, denunce, atti formali. Sparare nel mucchio equivale a "diffamare" chi cerca ogni giorno di fare il proprio dovere con impegno e coerenza. Da credente, poi, mi sento offesa dalle parole pronunciate. 
Da un uomo prima, e da un pastore, poi, mi aspetto un'analisi attenta, vigile e chiara che guardi ai problemi che purtroppo ci sono e non solo in sanità e a dare un concreto contributo. Si può svolgere al meglio la propria missione senza necessariamente inveire o augurare la morte. Inoltre, utilizzare toni così accesi equivale a seminare nel cuore di chi ascolta odio e rabbia.... ".                                                             Don Lillo, nel merito, si è così espresso: "Farei volentieri a meno di rispondere alla nota dell'on. La Rocca che, personalmente, stimo ed apprezzo per l'impegno con cui esplica il suo mandato e la concreta solidarietà che, da fervente cristiana, assieme al marito, il noto cardiochirurgo Giovanni Ruvolo, dimostra nei confronti dei più deboli e dei diseredati. Tuttavia, la mia missione di modestissimo servo di Dio mi impone di far chiarezza su) senso delle mie parole. Mi esprimo con un linguaggio disadorno, semplicissimo, sforzandomi di seguire così l'insegnamento di Gesù. Se comunemente l'espressione "il Signore possa chiamare a sé" viene intesa come "augurare la morte" siamo veramente ad anni luce di distanza da quello che volevo dire.Mi preme sottolineare che un sacerdote non prega mai il Signore per augurare la morte, bensì per concedere la grazia della vita, per lenire le sofferenze. Nel contesto liturgico della seconda domenica di quaresima, intendevo semplicemente dire "il Signore chiami a sé i politici per illuminarli, per guidarl, come Gesù ha fatto con gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo sul monte Tabor, affinchè esplichino il proprio mandato per la concreta attuazione del bene comune, per riportare la Politica, con la P maiuscola, alla sua essenziale peculiarità di servizio disinteressato nei confronti del popolo sovrano che, col proprio voto, ha conferito loro il potere di rappresentanza.                                                                             Che poi l'attuale classe politica e dirigente, tranne le dovute eccezioni, sia diventata una casta ad alto tasso di criminalità è un dato incontestabile. Preghiamo quindi con tutto il cuore il Signore perché come afferma all'art. 3 la nostra Costituzione, i politici si adoperino concretamente per "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana".                                                                                                                                          Giuseppe Merlo