mercoledì 17 maggio 2023

Flash sulla nostra Storia

Qual'era in Sicilia il regime di libertà di cui potevano godere gli arbrësce che arrivarono nel XV secolo dai Balcani? Si era allora in pieno regime feudale e non è quindi da immaginare -come certa pubblicistica lascia intendere- che quegli esuli venissero accolti con molti complimenti.


All'interno dei loro feudi i baroni erano paragonabili alla stregua di monarchi assoluti in quanto: esercitavano la giurisdizione, imponevano gabelle, dazi e angarìe. Per contrastare la potenza baronale due erano gli istituti in prima linea nella lotta: il viceré e il consultore del governo e poi, finalmente, ad inizio del '700 il governo vice-regio dell'illuminista Caracciolo.


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La giustizia feudale

In Sicilia  dal XV secolo gli uomini sul piano giuridico erano liberi di vivere e di lavorare come e dove preferivano.  Il lavoro servile a fine Quattrocento era ormai piuttosto residuale. I canoni dovuti dai contadini ai Baroni per le concessioni di terreni in termini di enfiteusi e più raramente di affitto venivano pagati preferibilmente in natura, e non più come nei secoli trascorsi in lavoro gratuito. Niente impediva ovviamente che il colono che fosse arbrësce o siciliano potesse pagare parte del suo debito in giornate lavorative. 

Erano quelli tempi in cui assolvere con regolarità ai canoni d’affitto o di enfiteusi era piuttosto difficile e frequentemente scattava il sequestro degli aratri, delle zappe e degli attrezzi e persino degli animali che eventualmente la famiglia del contadino possedeva. Circostanze che stando agli archivi pubblici palermitani erano incombenti e per nulla improbabili. 

 Il problema veniva ancora colto nella sua gravità ancora nel corso del Seicento ed un paragrafo della prammatica De seminerio, del 1646, specificatamente dedicato alla «vessatione che alcuni titolati e baroni inferiscono alli loro vassalli, constringendoli a seminare per forza terre di loro stati e feghi, assignandocile doppo della qualità e modo che a loro pare», e impedendo loro direttamente o indirettamente di seminare al di fuori delle terre del feudatario. 

 La prammatica ribadiva il divieto di coercizione, affermando il principio che seminare o coltivare dovesse dipendere dalla mera e libera volontà dei vassalli, che comunque -sotto quest'aspetto- venivano assolti da ogni obbligo di ubbidienza.

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