venerdì 10 giugno 2022

Giacomo Matteotti. "L'oppositore più intelligente e irriducibile del fascismo nascente" cit. Piero Gobetti

 Un anno di dominazione fascista

autore: Giacomo Matteotti

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Introduzione di Walter Veltroni

 Se si domandasse ad una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema "vita e morte di Giacomo Matteotti", quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte ad un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima.

  Si sa ormai quasi tutto, di ciò che accadde quel giorno. Le quattro e mezza del pomeriggio del 10 giugno 1924. Il giovane deputato socialista, trentanove anni appena compiuti,  esce dalla sua casa romana in via Pisanelli, diretto alla biblioteca di Montecitorio, per ultimare il discorso che avrebbe tenuto l'indomani, alla riapertura della Camera dei deputati. Percorre a piedi via degli Scialoja, e arriva all'imbocco del Lungotevere Arnaldo da Brescia, dove ad aspettarlo trova i suoi assassini capeggiati da Amerigo Dumini e Albino Volpi. In tutto sono cinque e fanno parte della famigerata  "Ceka fascista", l'organizzazione di polizia segreta voluta da Mussolini. A dirigerla sono due degli uomini a lui più vicini: Cesare Rossi, capo del suo ufficio stampa ed "eminenza grigia" del fascismo, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf, il Partito nazionale fascista.

  La squadraccia aggredisce Matteotti, lo picchia selvaggiamente e lo carica sulla macchina, una Lancia, che si dirige a tutta velocità verso la via Flaminia. L'uccisione avviene nell'abitacolo dell'auto, pochi minuti dopo il rapimento, con un colpo di pugnale al torace, mentre la vittima si dibatte e cerca di difendersi come può. Il cadavere, ormai in decomposizione, verrà trovato più di due mesi dopo, il 16 agosto, a una ventina di chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella, vicino a Riano Flaminio.

Si sa ciò che avvennee si sa chi fu il mandante politico e morale -al di là di quanto la richiesta fosse stata esplicita o giocata sulle parole- del delitto. Fu Mussolini, che d'altro canto pochi mesi più avanti , nel famoso intervento del 3 gennaio 1925 alla Camera che segnerà il vero inizio  del regime con il via alle "leggi fascistissime", chiuderà brutalmente la questione affermando:  "Se il fascismo è stato ed è un'associazione a delinquere, io sono a capo di questa associazione a delinquere. Se tutte le violenze sono state il risultato  di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità, perchè questo clima storico, politico e morale io l'ho creato".

Si sa anche perché Matteotti doveva essere eliminato, quale era stata la goccia che agli occhi di Mussolini e dei suoi  aveva decisamente fatto traboccare il vaso. Una mangiata di giorni prima, il 30 maggio, Matteotti era intervenuto alla Camera denunciando i brogli e il clima intimidatorio che avevano contraddistinto l’ultima campagna elettorale, contestando in blocco la validità delle elezioni e riaffermando il ruolo centrale e insostituibile del Parlamento. Il suo discorso, come è facile immaginare e come riportato dalle cronache, era stato continuamente fermato dal vociare e dagli insulti dei deputati fascisti. Con il neo presidente della Camera, Alfredo Rocco, impegnato a non difendere il diritto di parola di Matteotti, ma ad ammonirlo di non divagare, di essere breve, di non provocare incidenti. Chi avesse voglia di andare a rileggere i resoconti stenografici di quella drammatica seduta vedrebbe che sulle quindici colonne dedicate al suo intervento, non ci sono mai più di quattro o cinque righe filate  di Matteotti: tutto il resto è fatto di violente interruzioni e di invettive, come un terribile prologo di quel che sarebbe avvenuto di lì a poco e che lui stesso in qualche  modo intuì, dicendo ai suoi compagni che si complimentavano che il suo discorso l’aveva fatto, ma ora toccava a loro preparargli l’orazione funebre. Con lo stesso Mussolini, che ben comprendeva il pericolo rappresentato da quell’oppositore così diverso dagli altri, che lo attaccava basandosi non sull’invettiva ideologica ma su fatti precisi e circostanziati, a scrivere due giorni dopo su “Il Popolo d’Italia” che quelle parole, quel discorso definito “mostruosamente provocatorio”, avrebbe meritato “qualcosa di più tangibile”.

  Insomma, si conoscono le “ragioni” più immediate -ammesso si possono chiamare in questo modo- che stanno dietro la decisione di far tacere una voce così forte, così ingombrante, così pericolosa. Matteotti fu ucciso per la sua denuncia sistematica delle prevaricazioni e delle violenze dei fascisti, certo. Ma forse, verrebbe da dire soprattutto, fu ucciso per le rivelazioni che, secondo alcuni storici si sarebbe apprestato a fare, proprio l’indomani, l’11 giugno, sulle concessioni petrolifere del governo fascista all’impresa americana Siclair Oil in cambio di cospicue tangenti. Matteotti stava denunciando uno dei caratteri fondamentali del regime, la corruzione come pratica di governo, l’uso scellerato e privatistico del denaro pubblico.

  Giacomo Matteotti la battaglia per denunciare le violenze fasciste l’aveva iniziata da tempo, da subito. A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo che in quel momento è davvero “l’oppositore più intelligente e irriducibile” del nascente regime, come lo definì un’altra figura di intellettuale e antifascista, Piero Gobetti.

  Matteotti, in effetti, non ha mai un’esitazione. Vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una parentesi e che sarebbe stata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che Un anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette una determinazione feroce  e lucida nel denunziare, in modo tanto puntiglioso e circostanziato quanto coraggioso, le violenze fasciste che si stanno intensificando in ogni parte d’Italia.

  Le pagine che seguono danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva, osservando che “passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose””. Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa sulla situazione economica e finanziaria del Paese, numeri alla mano indica come i conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e sul disavanzo, sulle entrate tributarie e sulle imposte locali, sulla circolazione bancaria, sull’andamento dei prezzi, sull’evoluzione di profitti e salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione. Dimostra come dal punto di vista sociale i provvedimenti economici del fascismo da una parte siano iniqui e tesi a privilegiare i settori forti dell’economia, e dall’altra siano figli di una evidente incompetenza. Denuncia come in molte realtà le organizzazioni operaie non soggette al fascismo non abbiano possibilità di esistere: “per amore o per forza” scrive, “i lavoratori devono iscriversi alle corporazioni fasciste. Nelle zone rurali chi non è iscritto non è ammesso al lavoro. Critica l’uso e l’abuso della decretazione d’urgenza da parte del governo -517 decreti legge in dodici mesi-  e fa un elenco documentato di quanti organi rappresentativi al livello locale sono stati arbitrariamente sciolti.

  Sono pagine nel complesso talmente dure  e taglienti, talmente incontestabili e “scomode” nella loro oggettività, che quando a Chieti si svolgerà il processo farsa  contro i sicari, il loro avvocato difensore, niente di meno che il segretario del Pnf Roberto Farinacci, le porterà a testimonianza della “denigrazione”  che Matteotti aveva compiuto ai danni dell’Italia e le userà per chiedere le attenuanti per gli imputati, che in fondo avevano agito per difendere l’onore della patria.

  Resta il fatto che questo libro, questa denuncia di “un anno di dominio fascista”, va anche al di là del merito di aver messo a nudo l’armamentario propagandistico del governo Mussolini e di aver ricostruito uno per uno – nella pubblicazione originaria era la parte finale, qui si è scelto di metterla all’inizio ed è davvero impressionante – tutti gli episodi di violenza squadristiche tra il novembre 1922 e il dicembre 1923. E’ un libro che è il frutto di una tale concretezza e di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non potere appartenere che a un vero riformista del suo tempo. E da questo punto di vista, se contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo meno si conosce.

  Carlo Rosselli, che in qualche modo ne raccolse il testimone e che un giorno sarebbe andato incontro alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì “un eroe tutto prosa”. Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la descrivevano.

  Ad interessarlo erano i problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po, costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto, che sarebbe dovuto arrivare soprattutto attraverso l’istruzione e l’educazione, aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una famiglia della buona borghesia agraria molto più che benestante, ricca. Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero e di lavori pubblicati anche su diverse riviste italiane e straniere, avrebbe potuto scegliere -avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo – una tranquilla e remunerativa carriera  di avvocato o decidere di intraprendere quella accademica.

  Decise diversamente. E fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere ucciso rispose a quella inviatagli  dal professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli chiedeva di essere prudente, di accettare una cattedra universitaria, di lasciare quindi la politica e di dedicarsi agli studi. “Purtroppo non vedo prossimo” scrive Matteotti  al suo interlocutore “il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati. Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che, secondo me, sono i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna”.

  Il fatto che non fosse un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol dire, ovviamente, che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro della sua vita, non fosse solida. Di nuovo Gobbetti scrisse di lui: “Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non avere tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di cultura. Ma il suo marxismo non era ignaro di Hegel né aveva trascurato Sorel e il bergsonismo.

  Si può dire, insomma, che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le “questioni dottrinarie”, la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la possibilità del suo cambiamento.

  Era stato raccontato un episodio che, in questo senso, lo descrive molto bene. Durante il congresso socialista di Livorno del 1921, quello che segnò la scissione comunista, quando gli arrivò la notizia che la Camera del Lavoro di Ferrara era stata assaltata e distrutta dalle squadre fasciste non ebbe alcuna esitazione sul da farsi: lasciò immediatamente la disputa teorica e si precipitò sul posto, lì dove c’era bisogno di una presenza concreta.

  Un atteggiamento di fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di Villamarzana e contemporaneamente -la legge elettorale dell’epoca lo consentiva- consigliere a Fratta Polesine e in diversi comuni della provincia. Anche qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello che noi oggi chiamiamo “governo di prossimità”, veniva il suo essere un acceso sostenitore  di un rafforzamento delle autonomie locali che fosse basato su un vasto decentramento amministrativo.

Walter Veltroni

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Ci proponiamo di pubblicare periodicamente alcune pagine del libro-denuncia di Matteotti nei confronti del primo anno di governo fascista. Libro-denuncia che indusse Mussolini ed il fascismo ad eliminare fisicamente quell'acerrimo avversario.

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