venerdì 20 maggio 2022

Giovanni Falcone. Secondo l'ex ministro Claudio Martelli: «Fu ostacolato da magistratura, pezzi di politica e imprenditoria»

 Martelli, che a trent’anni dalla strage di Capaci ha scritto un libro, pubblicato da La nave di Teseo, dal titolo più che esplicito: «Vita e persecuzione di Giovanni Falcone». 

 L’allora ministro socialista del Ministero della Giustizia chiamò come direttore degli Affari penali Giovanni Falcone, che così divenne suo principale collaboratore.

In una intervista al Corriere della Sera, che ampiamente riportiamo di seguito, Martelli parla del rapporto che lo legava al magistrato, ed affronta più vicende della Palermo di quegli anni: 

L’omicidio Lima

 L’assassinio del referente siciliano del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, molto chiacchierato per i presunti rapporti con la mafia, segnò l’inizio della stagione del fuoco mafioso dopo la sentenza della Cassazione che aveva confermato l’impianto del maxi-processo istruito proprio da Falcone e dal pool antimafia. «Dopo l’omicidio mi disse con aria preoccupata: “Adesso può succedere di tutto”. E in precedenza, quando gli avevo chiesto se Lima fosse mafioso come si vociferava, mi rispose: “Questo non posso dirlo. Aveva dei rapporti con la mafia di Bontate, ma non era un affiliato”. Evidentemente era quanto gli aveva riferito Buscetta, e lui è sempre stato molto scrupoloso prima di trasformare le affermazioni in accuse». 

La strage di Capaci

Prima della strage di Capaci che uccise Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, Falcone dovette subire attacchi e accuse dall’interno del mondo istituzionale. Cominciando proprio dalla magistratura che all’inizio del 1988, dopo la sentenza di primo grado del «maxi», gli negò la nomina a consigliere istruttore di Palermo. «Fu una decisione gravissima — dice oggi Martelli — perché non si trattò solo di una bocciatura bensì di una retrocessione. Al suo posto fu scelto un magistrato più anziano, Antonino Meli, che non s’era mai occupato di mafia, con l’obiettivo di distruggere l’opera di Falcone, attraverso lo smembramento delle inchieste antimafia e la negazione della struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra. Additando lui come un’anomalia da rimuovere. Non a caso, dopo la bocciatura, Falcone disse a chi l’aveva sostenuto inutilmente nel Csm: “Mi avete crocifisso, mi avete consegnato alla mafia”».

L’amarezza

Dietro quell’operazione, secondo Martelli, non c’erano solo invidie e gelosie professionali per un magistrato ingiustamente accusato di arrivismo e protagonismo, ma una raffinata «strategia per distruggere il suo lavoro». Da parte di chi? «Del partito del potere siciliano, di cui la magistratura era una componente. E poi pezzi di politica e dell’imprenditoria. Del resto, tutto comincia con il procuratore generale che nel 1982 va da Rocco Chinnici, allora capo di Falcone, per chiedergli di fermare quel giudice che metteva in pericolo l’economia locale. Bisognava mantenere il quieto vivere con la mafia. Ed è una cosa che io ho rivissuto nel 1992, prima e dopo la strage, quando sentivo dire: ma che pretesa è quella di fare la guerra alla mafia? Perché?». 

Al ministero

Perché Martelli chiamò Falcone al ministero e mise al primo posto della sua missione di Guardasigilli la battaglia contro le cosche? «Perché altrimenti non avrebbe avuto senso accettare di fare il ministro della Giustizia, ero già vice-presidente del Consiglio. Falcone l’avevo conosciuto nel 1987 a Palermo, e decisi di averlo al mio fianco per far diventare la lotta alla mafia non un’emergenza bensì una regola. Attraverso leggi che codificassero l’esperienza che lui aveva maturato con le sue indagini. E Giovanni accettò». Il giudice ha pagato anche quella scelta, «nonostante la decisione della mafia di ucciderlo risalisse al periodo precedente. Ma pensavano che con il trasferimento a Roma se ne fossero liberati. Invece, come ha detto Totò Riina nei suoi dialoghi intercettati, li contrastava anche da lì. E più di prima». Ma anche a Roma, dove aveva creato la Procura nazionale antimafia e s’era candidato a guidarla, per tornare a fare indagini sulla mafia, Falcone trovò nuovi ostacoli nella sua stessa categoria. Il Consiglio superiore della magistratura si stava preparando a scegliere un altro nome per quel posto. La bomba di Capaci arrivò alla vigilia del voto, e dopo la strage — ricorda Martelli — ci fu chi immaginò una smobilitazione anche al governo: «La rimozione di Enzo Scotti da ministro dell’Interno da parte della Dc per me resta inspiegabile, e tentarono anche con me. Il neo-presidente del Consiglio Giuliano Amato mi disse che Craxi, segretario del mio partito, non mi voleva più alla Giustizia, offrendomi la Difesa. Risposi che o rimanevo lì o sarei uscito dal governo. Mi lasciarono dov’ero. Lo dovevo a Giovanni Falcone. In quel periodo al ministero l’ho visto felice, perché stava realizzando quello che pensava di dover fare. Per lo Stato».

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