mercoledì 23 novembre 2016

Referendum del 4 Dicembre. Intervento

Tomaso Montanari (1971), professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’università di Napoli Federico II.
È editorialista per la Repubblica e vicepresidente di Libertà e Giustizia.

Ha pubblicato un e-book con Micro-Mega per spiegare su n. 8 interventi le ragioni del NO al Referendum del 4 Dicembre.

I° - La Questione Omerica
II° - Il Capo e la Pistola
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III 
DECIDERE O COMANDARE ?

«Vogliamo una democrazia che decide», sostiene il fronte del Sì. «Anche noi! Ma decidere non vuol dire comandare, o dominare: avete costruito una dittatura della maggioranza, un sistema in cui chi vince prende tutto. Un sistema in cui non esistono più garanti terzi», ribattiamo dal fronte del No. 
È stato questo il leitmotiv del mio confronto televisivo con Luciano Violante, arbitrato da Enrico Mentana. Un punto cruciale del dibattito ha riguardato l’elezione del presidente della Repubblica. Come il vecchio, il nuovo articolo 83 stabilisce che: «Il presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri». Solo che – se vincesse il Sì – il Parlamento sarebbe così composto: 630 membri della Camera (come ora: si sono ben guardati dal limitarne il numero, alla faccia della retorica del risparmio!), 95 senatori nominati dai consigli regionali (iddio sa come), fino a 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica (durano sette anni, e dunque il loro numero al momento del voto è imprevedibile: dipende quando saranno stati nominati) e i senatori di diritto e a vita in quanto ex presidenti della Repubblica. 
Immaginiamo dunque l’elezione del successore di Mattarella, e consideriamo il corpo elettorale più ampio possibile (augurando lunghissima vita a Giorgio Napolitano): 630+95+5+2, cioè 732 elettori. Dobbiamo subito dire che, a legislazione attuale (dunque ad Italicum vigente), il partito di maggioranza avrà (per legge) 340 seggi alla Camera, e, diciamo, una maggioranza di 60 senatori (qua il dato è, per forza di cose, empirico: ma è una ragionevole proiezione del peso attuale del Pd): dunque un pacchetto di 400 voti. 
Ebbene, nei primi tre scrutini (come ora) per eleggere il Capo dello Stato ci vorranno i due terzi: 488. Il partito di maggioranza dovrebbe trovarne 88: il che implica un’alleanza politica di una certa ampiezza. Già, però, dal quarto al sesto scrutinio il quorum per l’elezione presidenziale scende ai tre quinti dei componenti: 440. E qua cominciano i problemi, perché basta una piccola «aggiunta» (esempio non troppo astratto: un drappello di volenterosi verdiniani) per fare schiavo colui che dovrebbe essere il massimo garante di tutti. 
Ma la vera e propria crisi democratica si manifesta con ciò che viene previsto dal settimo scrutinio: quando basteranno i tre quinti dei votanti. Si tratta di un inedito quorum mobile: ma fino a che punto potrà abbassarsi? 
L’unico limite è quello imposto dall’articolo 64 della Costituzione (non toccato dalla riforma), che impone il numero legale: perché il presidente possa venire eletto è necessario che siano presenti la metà più uno dei componenti, cioè 367 elettori. Ora, i tre quinti di 367 è pari a 221: e dunque la nuova Costituzione prevede che dalla settima votazione il Capo dello Stato si elegga con una maggioranza minima di 221 voti, cioè con una maggioranza che è tutta nella disponibilità del singolo partito che avrà vinto le elezioni (340 deputati), anche se al Senato non dovesse avere nemmeno un seggio! Di fronte all’evidenza dei numeri, Violante mi ha risposto che si tratta di un’eventualità remotissima, perché alle elezioni presidenziali tutti sono presenti. 
Alla Leopolda del novembre 2016 è stato proiettato un frammento del video di quel dibattito, e la ministra Boschi ha chiesto ai costituzionalisti presenti di rispondere a quelle immagini (e lasciamo perdere la vigliaccheria di chi si confronta con un filmato e non con un interlocutore in carne ed ossa): Stefano Ceccanti ha usato l’argomento della statistica, dicendo che è del tutto improbabile che succeda ciò che io pavento. Ma a me paiono risposte debolissime: se io ti faccio notare che la nuova Costituzione contiene una trappola per la democrazia, tu che l’hai scritta non puoi rispondermi che non scatterà. Devi dirmi perché ce l’hai messa! 
La verità è che qua si aprono scenari bizantini, fatti di giochi incrociati di assenze e presenze e di contrattazione delle astensioni: una geometria dalle mille varianti che consegna un margine enorme alla peggiore politica, quella da corridoio parlamentare. 
Violante ha, infine, ammesso che la ratio di questa bizzarra norma è evitare uno stallo nell’elezione presidenziale, perché questo potrebbe creare un danno all’immagine del Paese. Che conta evidentemente assai più della sostanza. E così – dopo mille infingimenti, mille tentativi di negare l’evidenza – è finalmente emersa la verità. Che è questa: gli autori della riforma preferiscono consegnare la massima magistratura dello Stato all’arbitrio di un singolo partito, piuttosto che permettere che la sua elezione duri qualche giorno (perché di questo si tratta). E basterà ricordare che Sandro Pertini fu eletto al sedicesimo scrutinio per far capire come possa invece valer la pena di aspettare un po’. 
Se vince il Sì, il presidente della Repubblica potrà dunque essere eletto solo dalla maggioranza creata a tavolino dall’Italicum. Sarà improbabile, ma è possibile: anzi, è esplicitamente previsto. Ora, questo particolare cruciale rivela moltissimo dello spirito della riforma su cui siamo chiamati a votare. 
Una riforma «del capo», che baratta decisionismo con democrazia, e che aumenta il potere della maggioranza senza aumentare le garanzie delle minoranze. È qui il suo carattere totalitario: letteralmente totalitario, nel senso che chi vince si prende tutto, e a chi perde non rimane alcuna tutela. Accanto all’arroganza maggioritaria, la cialtroneria della scrittura: non si è fin qui notato che – a rigore – per il regolamento della Camera (quello che vige nelle sedute comuni dei due rami del Parlamento) il numero legale è distinto dal quorum richiesto per le 16 votazioni di natura elettiva. 
Tra i presenti che rendono valida la seduta potrebbero essercene alcuni (o anche moltissimi) che non rispondono alla chiamata, e non partecipano alla votazione: in pura teoria per eleggere il presidente della Repubblica basterebbero 3 voti su 5 votanti, purché ci siano 367 presenti a garantire il numero legale. 
Non accadrà mai? È molto probabile. Ma diventa davvero colossale l’arbitrio dei signori del voto parlamentare, che potranno agitare la minaccia di colpi di mano, fare uscire ed entrare dall’aula interi gruppi, pescare nel torbido: con i famosi 101 franchi tiratori che impallinarono la presidenza di Romano Prodi abbiamo imparato quanto l’elezione dell’inquilino del Quirinale possa essere velenosa e opaca. 
Appare dunque plasticamente evidente come la riforma costituzionale che stiamo per votare sia stata scritta con sciatteria, ignoranza, inettitudine. Oltre che con colossale arroganza. 

Facciamo un altro esempio. L’articolo 72 della Costituzione regola l’eventualità più drammatica che possa riguardare uno Stato: la deliberazione dello stato di guerra. Il testo attuale (quello del 1948) prevede che «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari», mentre la riscrittura su cui siamo chiamati a votare è la seguente: «La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari». 
Apparentemente c’è un rafforzamento della garanzia democratica, ed è infatti così che questa modifica viene raccontata dalla propaganda del governo. 
Ma riflettiamo un momento: tradotta in numeri la soglia passa, è vero, da 158 a 316 voti, ma da una parte il Senato non ha più voce in capitolo (e la caratterizzazione regionale non lo impedirebbe di certo: la costituzione tedesca, per esempio, prevede che per fare la guerra sia necessario l’assenso del Bundesrat, cioè appunto la camera delle regioni), e dall’altra i 316 voti ora necessari sono addirittura meno (!) della maggioranza dei seggi che l’Italicum (ricordo ancora una volta: legge dello Stato vigente oggi) assegna al singolo partito che prende più voti alla Camera. 
Il che significa che la guerra la potrà, in teoria, dichiarare, da solo, il Partito Democratico, o la Lega o il Movimento 5 Stelle. Volendo, dunque, mettere le mani sull’articolo 72, non sarebbe forse stato più giusto, e prudente, prevedere una maggioranza qualificata dei due terzi, o dei tre quinti, dei componenti? 
Il diavolo si nasconde nel dettaglio, ammesso che l’elezione del Capo dello Stato o la dichiarazione di guerra siano un dettaglio. 
E il 4 dicembre possiamo dire di no: anche al diavolo.

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