mercoledì 6 aprile 2016

Hanno detto ... ...

ROMANO PRODI, già Presidente del Consiglio. (Intervista su La Stampa)

Professor Prodi, almeno con Pechino l’Europa riesce a parlare con una sola voce?  
«No, i Paesi europei si muovono come singoli. Il flusso commerciale sulla rotta Europa e Cina è il più grande del mondo, eppure se lo dividiamo a fette abbiamo comportamenti diversi. I tedeschi hanno un equilibrio commerciale con Pechino. La cancelliera Merkel ha mostrato leadership e compiuto almeno sette missioni in Cina con importanti delegazioni imprenditoriali. Gli altri no». 

Che conclusioni ne trae?  
«Preoccupazione per il futuro dell’Europa». 

Perché?  
«Perché questo squilibrio mette la Germania in una condizione psicologica di “felicità” per non usare un termine aggressivo. Uno squilibrio che si riflette su tutta l’Europa». 

I tedeschi e Angela Merkel saranno anche, prendiamo a prestito la sua espressione, «felici», eppure c’è qualche dossier in cui i problemi sono evidenti. Come sui migranti. Merkel era partita con un «ce la facciamo» e ora siamo quasi al «non ce la facciamo più»...  
«Vero, la Germania ora si trova ad avere problemi europei. Mi sono sempre chiesto come mai in Germania non ci fosse un partito populista, e la spiegazione era abbastanza banale: la leadership tedesca soddisfaceva il suo elettore con la sua identità germano-europea. Ma una volta che questa è andata in crisi con i migranti ecco è arrivata la paura e, con essa, la crescita dei populisti. Oggi la Germania da questo punto di vista è entrata in una fase politica nuova. Anche se il governo Merkel non è andato in crisi c’è la possibilità che con l’ascesa populista la Grande Alleanza non basti». 

Populisti o partiti anti-sistema?  
«Forse è più giusto definirli anti-sistema Per contrastarli non basta più l’appello dei partiti tradizionali, questo è il fatto nuovo per l’Europa. Le grandi coalizioni restano una grande riserva della tradizione europea, ma adesso sono messe a rischio».  

Perché? Qual è la debolezza di partiti tradizionali?  
«È una domanda da cento milioni. La verità è che la risposta varia da Paese a Paese. In genere, e questo vale per tutti, i partiti non riescono più a dare soluzioni ai problemi e alle domande dei giovani e questo ha accelerato la crisi». 

I giovani inglesi sono filo-europei in maggioranza, ma i sondaggi ci dicono che uno su due non voterà lasciando campo libero alla Brexit, eppure sono loro che hanno portato Jeremy Corbyn alla guida del Labour: non vede contraddizioni?  
«No, e proprio perché Corbyn è una forma di rottura con il partito tradizionale. I giovani, quel tipo di marxismo di cui Corbyn parla, non l’hanno mai vissuto, quindi Corbyn per loro è una rottura, è un anti-sistema. Come Ciudadanos in Spagna».  

Professore, la lista dei guai dell’Europa è piuttosto lunga: i migranti, la Brexit che si profila, crisi di politica estera. Non crede che l’attuale forma di governance sia parte del problema?  
«Assolutamente sì. Non c’è un problema di politica estera sul quale ci siamo trovati d’accordo. Pensavo che la crisi economica degli ultimi anni avrebbe generato uno spirito di solidarietà. E invece non ha creato nulla». 

Cameron ha chiesto riforme per evitare che Londra uscisse dalla Ue. Oggi il referendum è appeso a un filo e i pro-Brexit sono in testa nei sondaggi. Non poteva essere l’occasione per l’Europa di riformarsi indipendente dalla sfida interna dei britannici?  
«Gli inglesi, e me lo ricordo da quando ero io a guidare la Commissione, sono sempre stati qualcosa a sé». 

L’Europa non ha una politica estera comune sui dossier internazionali, ma la Cina che partita sta giocando? Clinton nel 1997 disse che avrebbe voluto portare Pechino nella stanza dei bottoni del mondo coinvolgendola di più. Missione compiuta?  
«Come ha detto poco fa l’ambasciatore cinese, la Cina continua a riferirsi a sé come un Paese in via di sviluppo. E continua ad astenersi dai grandi conflitti internazionali. Siano la Libia oggi, o come in passato l’Afghanistan e l’Iraq. Credo che continuerà ancora per il prevedibile futuro ad astenersi dal recitare un ruolo di rilievo». 

E le azioni aggressive per il controllo delle isole nel Mar Meridionale Cinese come le giudica?  
«Possiamo, almeno per ora, dire che si tratta di una difesa del territorio. Anche se questi giochi sono sempre rischiosi».  

AYAAN HIRSI ALI, scrittrice di origine somala 
”Libertà o sicurezza? 
Due attacchi a Parigi nel 2015 hanno costretto la Francia a proclamare uno stato di emergenza che è ormai giunto al suo quinto mese. In pratica, questo significa che lo Stato può impedire la libertà di movimento, la libertà di associazione, la libertà di stampa e di parola, arrestare, fermare e interrogare persone sospettate senza la presenza di un avvocato e molto altro. Dovendo trovare un compromesso tra libertà e sicurezza, oggi i francesi hanno chiaramente optato per meno libertà e più sicurezza. Gli attacchi terroristici di Bruxelles possono portare i belgi e forse altri paesi europei a rivedere quel delicato equilibrio tra libertà e sicurezza. 
Qualunque sia l’esito di questa scelta, una cosa è certa: ci saranno altri attacchi di questo genere e dopo ognuno di essi i governi eroderanno ulteriormente le libertà dei cittadini europei, senza per questo farli sentire minimamente più sicuri. 
Non sono proprio queste libertà ad avere reso l’Europa e il resto dell’Occidente così unici? 
Lo stato di diritto, i controlli e gli equilibri costituzionali, un sistema giudiziario imparziale e istituzioni educative che instillavano nei cittadini il valore di tutte queste cose: non erano queste le caratteristiche dell’Occidente che ho trovato più impressionanti quando arrivai qui come immigrata? 
Gli immigrati musulmani in Europa sono diversi per età, paese di provenienza, sesso, lingua e per il reddito di cui godevano prima di intraprendere il viaggio verso l’Europa. Tuttavia, essi hanno un certo numero di cose in comune. Tutti provengono da società che non sono libere. Hanno atteggiamenti nei confronti della religione, della violenza, del sesso, del denaro e del tempo che sono radicalmente diversi da quelli degli europei. 
Sulla base dei dati degli ultimi cinque decenni o giù di lì, possiamo vedere che le nazioni europee che hanno accolto questi immigrati lottano per integrarli. Non hanno totalmente fallito. 
Molti immigrati musulmani (ero una di loro) si sono adattati: utilizzando le libertà che hanno trovato in Europa per imparare, educare se stessi e i loro figli, trovare un lavoro retribuito, avviare imprese, votare e prendere parte alla politica e prosperare in molti modi. Il problema è che queste persone adattate non sono necessariamente la norma: esse coesistono piuttosto a disagio accanto ad altri membri delle loro comunità che vedono l’”adattamento” alle norme occidentali con notevole sospetto. 
Allora, che cosa si deve fare?
Abbiamo un bisogno urgente di rivedere e correggere vari trattati, leggi e misure politiche che si stanno dimostrando tristemente incapaci di proteggere le libertà fondamentali e i valori che hanno reso uniche le società occidentali. In primo luogo, abbiamo bisogno di limitare e gestire in modo più intelligente il flusso di immigrazione. Abbiamo bisogno, poi, di creare un’infrastruttura concepita per accelerare il processo di adattamento. L’obbligo è quello di fare in modo che l’immigrato prenda familiarità con quei valori. In terzo luogo, è fondamentale che i governi europei stabiliscano un modo efficace di rimpatriare coloro che non sono in grado o non vogliono adattarsi. In quarto luogo, abbiamo bisogno di una revisione dei sistemi di giustizia penale in Europa. In quinto luogo, il sistema di residenza permanente e di cittadinanza dovrebbe essere aggiornato per riflettere la realtà sul terreno. Chi ha dimostrato nel corso degli anni di accettare i valori della società a cui cerca di unirsi merita di acquisire la cittadinanza. In sesto luogo, l’Europa deve smettere di fingere che la stabilizzazione del mondo musulmano sia un problema di qualcun altro. Infine, riconosciamo che siamo in guerra. Questa guerra è profondamente asimmetrica, senza dubbio, ma quello che abbiamo visto a Parigi e Bruxelles non può più essere semplicemente liquidato come terrorismo.”"

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