Nei giorni scorsi, trattando del libro di Anton Blok “La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960”,
abbiamo colto (capitolo III) che la sicurezza pubblica sul nostro territorio
era problema serio e che pure i contadini erano tenuti a pagare individui,
persone private, per evitare di dover subire danni personali e/o ai propri
beni. Perché mai la situazione era così degradata ?
Riferimenti
storici.
Fino alla fine del settecento nei comuni dell’interno
dell’isola la gente non conosceva, non gli importava conoscere, chi fosse
l’autorità del Regno di Sicilia, chi fosse il Re e/o il Vicerè. Il mondo
cominciava, nel caso di Contessa Entellina, nella propria casa e finiva in
chiesa (dove si seppellivano i morti). Poche erano le persone, in una economia
autarchica quale era quella di allora, che si recavano nei paesi limitrofi e
ancora meno quelli che si recavano a Palermo. I legami fra la popolazione e
l’unica autorità riconosciuta, i baroni di casa Cardona e di casa Colonna,
erano tenuti da pochi elementi, da poche persone che avevano la leadership della
comunità. Queste persone rappresentavano in sede locale l’Autorità (assente) e
gestivano la baronia nelle sue molteplici espressioni:
-l’Università (ossia il
Municipio), e quindi l’Amministrazione locale;
-la Giustizia in nome e per conto dei baroni (assenti);
-la Sicurezza pubblica
mediante incaricati;
-il feudo, ossia l’intero territorio di esclusiva
proprietà dei baroni (tranne Serradamo, Contesse e Bagnitelle, affidati in
enfiteusi al ceto civile e a quello burgisi di origine arbëreshe);
-le altre realtà
produttive non rurali, dal mulino ai forno al frantoio al fondaco e così via.
A parte gli obblighi -pesanti-
di ordine impositivo-tributarie nei riguardi delle casse regie ed in quelle baronali (disposte dagli uomini di fiducia dei baroni),
Contessa e la sua comunità si è retta per secoli in discreta autonomia, nel
contesto istituzionale e con la leadership allora esistente localmente.
Il sistema funzionò – immutato- dai primi del
Cinquecento alla fine del Settecento, fino al Viceregno di Caracciolo, quando
sotto più aspetti, fu messo in discussione dalla cultura illuministica che
permeava il rappresentate dei Borboni a Palermo, che intese mettere in profonda
discussione il ruolo di potere dei baroni nel governo della Sicilia.
Nell’anno 1812, nel dopo
rivoluzione francese e in presenza di truppe inglesi sull’isola, il feudalesimo
venne dichiarato defunto e l’antico Parlamento (di Palazzo dei Normanni) si
trovò ad affrontare questioni nuove ed urgenti come possono essere quelli di
transizione da un modo di pensare (feudale) ed un altro (capitalistico).
Il Parlamento siciliano
si arenò allora in litigi, puntigli e dispute e nessuno si ricordò che
occorreva rendere presente lo Stato (la Pubblica Sicurezza) nei paesi, nella
campagna, dal momento che era venuta meno la funzione della baronia nei settori
della Giustizia e dell’ordine pubblico. Giustizia ed ordine pubblico rimasero
per un certo periodo lontani dai pensieri di Palazzo dei Normanni; lì erano
privilegiate le lotte di attribuzioni di potere fra monarchia e gli antichi
baroni, preoccupati questi ultimi di conservare quanto più in immunità e
prerogative. La sicurezza pubblica nei centri ex-feudali e nelle campagne era
in quel contesto argomento “astratto” perché rivolto alla generalità e non ai
singoli baroni, ex-feudatari. In pratica era quello un clima da leggi
ad-personam e non da leggi per la generalità e le comunità.
Si arrivò finalmente comunque ad affrontare
l’allarmante situazione e fu istituita la “Compagnia d’Arme” a cui furono attribuite
-le responsabilità della sicurezza nelle campagne
-la collaborazione dell’esazione dei tributi
-la scorta del trasporto
dei soldi a Palermo.
Ogni Compagnia era
composta da un Capitano e diciotto militi. In provincia di Palermo erano sedi
di Compagnia Cefalù, Termini e Corleone. I militi erano retribuiti abbastanza
bene, però dovevano badare da sé a vestiario, armi, e bardatura del cavallo.
La Compagnia era stata quindi delineata con
caratteristiche privatistiche al punto che il Capitano era tenuto a rispondere
in prima persona dei furti e dei danneggiamenti che capitavano sul territorio a
lui assegnato ed era tenuto a presentare una cauzione per l’eventuale
risarcimento dei danni che non era riuscito ad evitare. Il sistema quindi
doveva reggersi sul prestigio del Capitano. Capitano che non veniva tuttavia
ritenuto responsabile dei reati di abigeato, ossia il più frequente e
ricorrente.
La Compagnia era responsabile di un distretto
abbastanza vasto e di cui non si conoscevano in dettaglio i confini. Confini
che non rispecchiavano i territori comunali bensì quelli degli ex-feudi.
Contessa era infatti attraversata da più distretti indefiniti e questa
circostanza fu sempre alibi e/o scaricabarile di responsabilità. La Compagnia
avrebbe dovuto occuparsi infatti di un territorio vastissimo, riportato in un
lunghissimo elenco di feudi con annotazioni del tipo “nei pressi di Contessa”,
“fra Contessa e Roccamena” oppure “ubicazione non identificata”; infatti la
Prefettura di molti feudi locali (Contessa) non conosceva l'ubicazione.
Con queste premesse e con
l’ordine pubblico affidato in “appalto”, ovviamente a persone il cui prestigio
discendeva dal “rispetto” che sapevano o intendevano incutere, diventa chiaro
il quadro che fu dato all’ordine pubblico in Sicilia.
Ricapitolando:
Appalto a privati,
confini dei distretti volutamente indefiniti, abigeato non pertinente,
prestigio (o timore) personale e vari altri aspetti caratterizzanti il sistema,
porranno -come su un piatto d'argento- l’ordine pubblico nelle campagne
siciliane in mano a persone di malaffare e prive del moderno concetto di
'Stato'.
Chi avrebbe dovuto curare l’ordine pubblico diventerà
inevitabilmente responsabile del disordine, fino al punto che è dato leggere
nella corrispondenza fra funzionari pubblici periferici (Palermo) e centrali
(Roma) “la mafia va combattuta con la mafia”.