(27.02.1968) LaStampa
Viaggio nella Sicilia ferma a mille anni fa Nell'Isola domina ancora il feudo
Il contadino delle zone interne lavora la terra con l'aratro a chiodo; non si vedono macchine agricole, impianti o cooperative - La politica agraria, in queste province, è stata un fallimento: l'ente che doveva trasformare il volto delle campagne, appesantito dalla burocrazia e dalle « clientele », ha finito per lasciare mano libera al latifondo (Dal nostro inviato speciale) Palermo, 26 febbraio.
Uno degli aspetti della vita siciliana che colpisce maggiormente, nell'interno dell'isola, sono i contadini a dorso di mulo che all'alba e al tramonto vanno dal paese al campo e viceversa. Partono che è ancor buio, percorrono cinque, dieci, talora quindici chilometri, il mulo sempre al passo, prima sull'asfaltata, poi sulle «trazzere», superando un'altura dopo l'altra finché non arrivano a destinazione. Il campo, di solito, è un appezzamento di terreno a mezza costa completamente deserto, coltivato a magro grano, senz'alberi e senza segni di vita. In qualche caso c'è una casupola di quattro sassi che serve da ripostiglio per l'aratro a chiodo e gli altri poveri attrezzi; talvolta neppur quella. Il contadino scende dal mulo, se è autunno attacca l'animale all'aratro e comincia ad arare tutto solo scavando un solco di pochi centimetri che non gli potrà mai permettere di avere un raccolto appena decente, se è primavera o estate lavora con la zappa, con la roncola, con la falce. Quando il sole s'abbassa all'orizzonte, rimonta sul mulo e, sempre solo, sempre in silenzio, riprende la strada verso il paese. In queste settimane tutte le persone con cui ho parlato, a Palermo ed altrove, mi hanno ripetuto che le condizioni generali dell'agricoltura, negli anni più recenti, sono leggermente migliorate. Ed è senza dubbio vero per quel che riguarda la Sicilia orientale, la piana di Catania, la zona di Vittoria, certi tratti della fascia costiera. Ma la Sicilia dell'interno è ferma a mille, duemila anni fa. Com'è possibile che si sia ancora a questo punto? Non per inerzia o fatalismo dei contadini. Questa è la gente che dal 1945 al 1950 dette vita all'impetuoso movimento di occupazione delle terre, che si batté con estrema energia per la spartizione del latifondo e la riforma agraria; queste sono le zone che oggi danno migliaia e migliaia di lavoratori alle fabbriche di Milano e di Torino, di Zurigo e di Stoccarda. E allora? Perché dopo tanto parlare di riforma si incontrano ancora latifondi e feudi? Perché non vi è traccia, o quasi, di razionale irrigazione? Perché non si vede una macchina agricola? Perché non si sente parlare di cooperative? Anche il fatto che i contadini continuino ad abitare in decrepite cittadine arroccate in cima alle alture desta meraviglia e sconforto: in passato era naturale che questa gente se ne stesse asserragliata in vetta alle colline per difendersi dalle invasioni nemiche e per sfuggire alla malaria che infestava i bassipiani; ma oggi? Le risposte a queste domande potrebbero essere molte e complesse, ma «grosso modo» si possono riassumere in una sola: perché la politica agraria perseguita in Sicilia nei quindici anni che vanno dal 1950 al 1965 è stata condotta nel peggiore dei modi e si è risolta in un fallimento quasi completo. Il 1950 fu l'anno delle grandi speranze per le campagne siciliane, l'Assemblea regionale votò la famosa legge di riforma agraria che avrebbe dovuto dare le terre ai contadini, creare nuove strutture, trasformare il volto delle campagne. Dal punto di vista teorico la nuova legge prevedeva una serie di provvedimenti ineccepibili; ma quando dalla teoria si dovette passare alla pratica, cominciarono le difficoltà e i guai. L'organismo che avrebbe dovuto guidare e organizzare la riforma, l'« Eras » (Ente riforma agraria siciliana), si trasformò rapidamente in un « carrozzone » che aveva come scopo principale quello di offrire nuovi posti ai raccomandati di questo o quel notabile, di questa o quella parte politica; in breve « L'Eras ebbe più di duemila impiegati, la maggior parte dei quali se ne stava abbarbicata a Palermo rifiutandosi categoricamente di trasferirsi nelle campagne anche quando la loro presenza sul luogo sarebbe stata indispensabile. Cosi i centri periferici, scarsi e semivuoli, languivano. E' diventato proverbiale in tutta la Sicilia il caso di un ufficio di zona dove il ritratto di Segni non veniva sostituito da quello di Saragat « per le note carenze finanziarie e perché non ci sono state date disposizioni ». Crescevano invece, di giorno in giorno, i « distaccati », funzionari a stipendio pieno che vivevano in altre città, talvolta addirittura all'estero. In questo clima i grandi proprietari terrieri su cui pendeva la minaccia di espropriazione si affidarono ad abili avvocati che opposero valanghe di ricorsi, di pratiche, di cavilli giuridici. Quando gli avvocati non bastavano c'era sempre l'appoggio della mafia. Cosi molti riuscirono a sfuggire alla norma che prevedeva lo scorporo delle proprietà superiori ai duecento ettari (ancor oggi esistono numerosi fondi che superano tale limite), e quelli che non ci riuscirono tennero gelosamente per sé le terre migliori cedendo all'« Eras » le zone argillose, sabbiose o addirittura le pietraie. Ai contadini, in genere, vennero assegnati appezzamenti troppo piccoli, poco redditizi, senza l'indispensabile dotazione di concimi, strumenti, bestiame. Abbandonati a se stessi, senza neppure i modesti fondi indispensabili per affrontare i primi lavori, molti, dopo un breve esperimento, rinunciarono all'impresa e ritornarono alla loro vecchia attività. Altri, più fortunati, restarono; ma le loro nuove condizioni di vita, con l'aratro a chiodo che grattava fra terra e pietre, non erano molto diverse da quelle di prima. Anche con la formazione del primo governo regionale di centro-sinistra, nel 1961, non si ebbe quella brusca sterzata che molti si attendevano. Ci vollero ancora quattro anni di contrasti e di lotte per far piazza pulita dell'« Eras » che solo nel 1965 venne sostituito da un altro organismo, l'«Esa» (Ente per lo sviluppo dell'agricoltura). Al cambiamento di etichetta è corrisposto anche un cambiamento di sostanza? Entro certi limiti, direi di sì. I nuovi dirigenti sono giovani, volonterosi, animati di sacro zelo; l'atmosfera di omertà, di favoritismi, di cricche che ha sempre costituito il difetto peggiore della vita pubblica siciliana, si è in gran parte dissolta. Ma i nuovi uomini e i nuovi sistemi si fanno strada a gran fatica, ad ogni passo incontrano qualche ostacolo. Me lo conferma lo stesso presidente dell'«Esa», dott. Angelo Ganazzoli, un socialista giovane, biondo, occhialuto che anche dal punto di vista fisico appartiene più alla schiera dei « professorini » che a quella dei tradizionali « notabili » siciliani. Si fa presto per esempio a dire « tagliate i rami secchi, licenziate tutti gli impiegati superflui ». In una regione come la Sicilia dove i posti di lavoro sono pochi e magri e dove ognuno ha « i suoi santi in paradiso » cui ricorrere in caso di bisogno, provvedimenti tanto drastici si possono prendere soltanto nel corso di una rivoluzione. Poiché non è questo il caso, Ganazzoli ed i suoi sono dovuti ricorrere ad una più faticosa e lenta opera di persuasione e di pungolo per indurre i pigri a lavorare, per spostare un certo numero di dipendenti dal centro alla periferia, per mitigare a poco a poco la piaga delle raccomandazioni. Ancora non hanno raggiunto pienamente lo scopo, lo ammettono essi stessi, ma un certo tratto di cammino l'hanno compiuto e sono decisi ad andare avanti. Certo è una impresa ardua, la loro. Già di per sé le difficoltà tecniche — basti pensare a quella dell'acqua, delle ricerche idriche, delle dighe — sono notevoli. Ma spesso vengono addirittura ingigantite dalla opposizione dei grandi proprietari terrieri, della mafia, di tutti coloro che hanno interesse a lasciare le cose come stanno. Ci sono poi le difficoltà finanziarie, quelle burocratiche, ed ora anche quelle provocate dal terremoto. Non c'è dunque da meravigliarsi se l'«Esa» sta procedendo con una certa lentezza.
Gaetano Tumiati
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