domenica 10 novembre 2024

Gli arbëreshë di Sicilia tra storia e attualità di Domenico Cuccia

 Gli arbëreshë di Sicilia 

tra storia e attualità


di 


Domenico Cuccia

 

Nella seconda metà del 1400 e sino alla prima metà del 1500, la Sicilia ha accolto numerosi profughi albanesi che provenivano dalle regioni del sud dell’Albania e dal Peloponneso per sfuggire all’avanzata dei turchi ottomani.


I PRIMI SBARCHI

Gli albanesi vennero a ripopolare una regione che, a causa della lunga guerra tra aragonesi e angioini e alle epidemie che si erano verificate, aveva avuto un notevole decremento demografico. 

Della venuta degli albanesi in Sicilia parlano vari storici siciliani e, in particolare, limitandoci a quelli che hanno scritto in un periodo temporale vicino a quello dell’avvenuta emigrazione, ricordiamo: il Fazello, nella sua opera “De Rebus Siculis”, e successivamente, il Rocco Pirri nella “Sicilia Sacra”, il Vito Amico nel “Lexicon topographicum siculum” e tanti altri. Ne hanno parlato pure diversi esponenti delle comunità arbëreshë. Si ricordano in particolare: il sacerdote Nicolò Chetta, nel “Tesoro di notizie su de’ Macedoni”, i sacerdoti Pompilio Rodotà e Paolo Maria Parrino, il vescovo Giuseppe Crispi, i sacerdoti Nicolò Buscemi, Nicolò Spata, Spiridione Lo Iacono, il barone Raffaele Starabba. In tempi più recenti, si ricordano il canonico Atanasio Schirò e i professori Alessandro Schirò e Giuseppe Schirò. 

Secondo la tradizione degli storici arbëreshë  Chetta e Parrino, ripresi dagli storici siciliani, i primi abitatori albanesi della Sicilia furono quei militari che, dopo avere stazionato per circa due anni nel castello di Bisiri, a Mazara del Vallo, per difendere le coste siciliane dalle incursioni angioine, si trasferirono intorno al 1450 a Contessa, nei territori dei conti Cardona-Peralta, i Mezzoiusari in Busambra, i Palazzioti nell’Adriano e poi, dopo la morte dello Skanderbeg, i Pianioti e le altre colonie. Secondo questa tradizione le emigrazioni sono state tre. La prima nel 1448, l’altra dopo la morte dello Skanderbeg e l’ultima nel XVI secolo, dopo la presa di Corone e Modone da parte dei Turchi. 


GLI INSEDIAMENTI 

In questa vicenda, comunque, ci sono dei documenti certi e incontrovertibili: i capitoli delle colonie Greco-Albanesi di Sicilia, stipulati dai greco-albanesi coi signori feudali, laici o ecclesiastici, in cui si insediarono le comunità. Anche se la stipula dei capitoli non coincide con l’insediamento degli albanesi, essendo a volte successiva, tuttavia tale stipula fornisce degli importanti riferimenti sull’insediamento dei coloni nell’Isola [1]

I primi capitoli stipulati sono quelli di Palazzo Adriano (Palaci) nel 1482. Seguono: nel gennaio 1488 quelli di Biancavilla (che prima si chiamava Callicari); nell’agosto 1488 quelli di Piana dei Greci [2]; nel 1501 quelli di Mezzojuso (Munxifsi); nel dicembre 1520 quelli di Contessa (Kundisa) [3]; nel 1534 quelli di San Michele di Ganzeria. Nel maggio 1691 è stato stipulato l’Atto di enfiteusi per i feudi di Santa Cristina [4]. Non sono stati rinvenuti, invece, capitoli stipulati per altri due centri con presenza albanese: Sant’Angelo Muxaro e Bronte. Sant’Angelo Muxaro è stato abitato da alcuni coloni albanesi provenienti da Palazzo Adriano intorno al 1511 [5], mentre Bronte, secondo il prof. Giuseppe Schirò [6], è stata fondata nello stesso periodo di Biancavilla.


LINGUA E IDENTITA’ ARBERESHE

Gli albanesi stanziati in Sicilia mantennero vivo il ricordo della terra d’origine e il giorno di Pentecoste, anniversario della presa di Costantinopoli da parte dei Turchi, salendo sui monti, sopra i centri abitati, con lo sguardo rivolto all’Oriente intonavano il lamentoso canto: “O e Bukura Moree si të llee më nuk të pee”. Tra i cognomi degli albanesi di Sicilia troviamo molti cognomi presenti in Albania e nelle zone della Morea, abitate dagli albanesi, anche se tali cognomi sono stati sottoposti a un processo di sicilianizzazione. 

Sono diffusi, o lo sono stati, i cognomi: Lala, Cuccia, Musacchia, Sciambra, Manali, Chisesi, Chetta, Clesi, Crispi, Schirò, Mandalà, Dragotta, Glaviano, Carnesi, Petta, Alessi, Guzzetta, Parrino, Stassi e altri. L’elenco non è in alcun modo esaustivo.

Gli albanesi si insediarono in varie zone della Sicilia, sottoposti all’autorità di vescovi diversi e diversi signori feudali. Spesso entrarono in contrasto con questi ultimi, come avvenne tra gli abitanti di Palazzo Adriano e gli Oppezzinghi, altre volte entrarono in contrasto coi vescovi diocesani che cercavano di indurli ad abbandonare il rito greco. In particolare il vescovo di Agrigento (allora Girgenti), Vincenzo Bonincontri, riuscì a trasportare al rito latino gli abitanti di Sant’Angelo Muxaro, ma non quelli di Contessa, che fecero ricorso alla Santa Sede contro le pretese del Vescovo. In altri casi ancora, parteciparono alle lotte fra i vari signori feudali, come nel famoso “Caso Sciacca” del 1529, in cui la presenza di mercenari albanesi provenienti da Palazzo Adriano, fu determinante per la vittoria del conte Luna sul barone Perollo [7]

Gli albanesi vivevano all’interno delle loro colonie, sposandosi tra di loro o con persone provenienti da altre comunità arbëreshe. Le persone estranee alla comunità venivano chiamate “lëti” (cioè latini) [8]. Con questo termine venivano indicati sia i siciliani e gli altri italiani, non arbëreshë, sia coloro i quali erano cattolici di rito romano.


IL RITO RELIGIOSO 

Un aspetto identitario delle comunità arbëreshe è stata la professione del rito greco-bizantino. Spesso la perdita del rito ha coinciso con la perdita dell’identità. Ciò è avvenuto con le comunità lontane da quelle presenti nella provincia di Palermo (ora Città metropolitana di Palermo). La lingua, le tradizioni e l’identità arbëreshe si sono perse in Bronte, Biancavilla e San Michele di Ganzeria in provincia di Catania e in Sant’Angelo Muxaro in Provincia di Agrigento, già nel XVII secolo. In questi centri la testimonianza dell’origine arbëreshe si può notare nella toponomastica o nella presenza di qualche cognome [9].

In alcuni casi passavano al rito latino anche soggetti arbëreshë che cambiavano rito per potere accedere ai seminari in cui si diventava sacerdoti di rito romano. Il nuovo sacerdote esercitava una “vis” (forza) attrattiva nei confronti dei propri parenti, che passavano tutti al rito romano. Così sono diventati parroci di rito latino persone che si chiamavano Lala, Musacchia, Clesi, Schirò et cetera [10]. Il rito latino era, inoltre, incrementato dai soggetti, appartenenti al rito romano, che si trasferivano nei centri albanofoni dai paesi siciliani vicini. La copresenza dei due riti (Greco-Bizantino e Romano) talvolta ha provocato tensioni tra le due comunità e contenziosi vari davanti alle Corti di giustizia sia ecclesiastiche che civili [11].

Fondamentale per la conservazione dell’identità arbëreshe è stata l’istituzione del Seminario Greco-albanese di Sicilia, avvenuto nella città di Palermo nel 1757, a opera del Pontefice Benedetto XIV. Per tale istituzione è stata importantissima l’opera di padre Giorgio Guzzetta, di Piana degli albanesi (a quel tempo Piana dei greci) [12]. La presenza di un clero che conosce le tradizioni della propria comunità e che promuove l’uso dell’albanese in alcune fasi della liturgia (lettura del vangelo, preghiere, canti tradizionali) ha contribuito in maniera determinante alla salvaguardia dell’identità albanese e alla tutela dell’arbëreshe. Tale opera è stata rafforzata dall’istituzione, avvenuta nel 1937, dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, comprendente i comuni di Contessa Entellina, Mezzojuso, Palazzo Adriano, Piana degli Albanesi e Santa Cristina Gela [13]. L’Eparchia ha giurisdizione pure sui fedeli di rito greco-bizantino residenti a Palermo. È in uso, inoltre, per i fedeli dell’Eparchia la chiesa bizantina di Santa Maria dell’Ammiraglio, detta della Martorana, una delle più belle chiese di Palermo, facente parte dell’itinerario arabo-normanno promosso dall’Unesco [14].  La presenza di tale istituzione eparchiale ha indotto gli arbëreshë dei vari centri albanesi a ritenersi parte di un’unica comunità. 

Nel seminario greco-albanese di Palermo (trasferito a Piana dopo i bombardamenti della seconda Guerra mondiale che hanno distrutto l’edificio che lo ospitava), si sono formati non solo i sacerdoti bizantini ma anche un’intera classe dirigente della comunità arbëreshe, composta da professionisti che non hanno ultimato gli studi religiosi per abbracciare le professioni liberali. Tra di essi Francesco Crispi, nato a Ribera da genitori di Palazzo Adriano, che è stato uno degli artefici dell’Unità d’Italia e più volte Presidente del Consiglio del Regno d’Italia. Ma diversi sono stati i personaggi illustri espressione delle comunità albanofone siciliane. Si citano il vescovo Giuseppe Crispi, zio dello statista, filologo, grecista e albanologo, il deputato e giurista Simone Cuccia, il banchiere Enrico Cuccia, che è stato ai vertici del sistema bancario italiano nel secondo dopoguerra, il professore Giuseppe Schirò, autore di molte opere letterarie e diversi saggi sull’Albania e gli arbëreshë, il medico Nicolò Barbato, animatore dei Fasci siciliani, il già citato Chetta, e per il filone bizantinologico il Gassisi e il Tardo.


GLI ARBERESHE OGGI

Gli arbëreshë sono riusciti per oltre 500 anni a mantenere la lingua e la propria identità. Ora, però, i processi di disgregazione economica che hanno interessato la Sicilia, la conseguente emigrazione, e fenomeni riguardanti i rapporti sociali, come quello dei matrimoni che avvengono al di fuori delle comunità albanofone, hanno messo a repentaglio la salvaguardia della lingua. Sono stati effettuati dei tentativi di tutela della minoranza linguistica arbëreshe. La prima è avvenuta nell’Assemblea regionale siciliana con l’approvazione della legge n. 26 del 1998, grazie all’opera di due deputati arbëreshë, Francesco Di Martino di Contessa Entellina e Gianni Petrotta, di Piana degli Albanesi. Ma la legge, impugnata in gran parte dal Commissario dello Stato, non ha potuto espletare, se non in minima parte, i propri effetti. Più incisiva è stata l’approvazione della legge statale n. 482 del 1999. Tale legge riconosce l’arbëreshe tra le lingue sottoposte a tutela e individua nella Provincia l’organo che deve delimitare le zone territoriali in cui la legge deve espletare i propri effetti. In attuazione di tale legge il Consiglio provinciale di Palermo si è riunito a Mezzojuso e ha individuato nei comuni di Contessa Entellina, Mezzojuso, Palazzo Adriano, Piana degli Albanesi e Santa Cristina Gela l’ambito territoriale di applicazione della legge n. 482. In attuazione della citata norma di tutela, nelle scuole dell’obbligo dei comuni albanofoni sono stati istituiti corsi di insegnamento della lingua minoritaria.

Un ruolo molto importante, inoltre, per l’accrescimento culturale della comunità, è stato esercitato, e continua a esserlo, dalle cattedre di albanese dell’Università di Palermo. I titolari di tali cattedre hanno provveduto ad approfondire diverse tematiche che riguardano la storia e la letteratura sia albanese che arbëresh e, soprattutto, nell’ultimo periodo, attraverso la pubblicazione delle opere dei più importanti esponenti del mondo culturale arbëresh del passato (Nicolò Chetta, Giuseppe Schirò, Nicolò Figlia e altri) [15] hanno rimesso in circolo un ricco filone di cultura e conoscenza. Un importante ruolo di diffusione culturale è stato svolto e continua ad esserlo, anche, da quegli autori arbëreshë che pubblicano le loro opere in albanese [16].

Attualmente l’arbëreshe viene parlato nei comuni di Piana degli Albanesi, Santa Cristina Gela e, con qualche sofferenza per quanto riguarda le giovani generazioni, a Contessa Entellina. Non viene più parlato, ma resistono in pieno l’identità e le tradizioni, nei comuni di Mezzojuso e Palazzo Adriano. I comuni di Contessa Entellina, Mezzojuso, Palazzo Adriano e Santa Cristina Gela, hanno costituito tra di loro un’unione dei comuni, denominata “Besa”, per affrontare in maniera unitaria le problematiche legate alla conservazione della lingua e delle tradizioni arbëreshe.

Moltissimi arbëreshë siciliani sono però presenti anche in altre località della Sicilia, e soprattutto, compreso chi scrive, nella città di Palermo. Ma numerosissimi arbëreshë di origine siciliana sono diffusi, anche, in altri paesi d’Europa, negli Stati Uniti e in altri stati dell’America.

Negli ultimi 25 anni le comunità arbëreshe siciliane hanno ricevuto il riconoscimento del loro ruolo dai massimi vertici della Repubblica albanese. Esse, infatti, nel dicembre del 2000, hanno ricevuto la visita del Presidente della Repubblica albanese Rexhep Meidani; nel novembre del 2021 del Presidente Ilir Meta e, nello scorso ottobre di questo 2024, del Presidente Bajram Begaj. Il rinato interesse degli arbëreshë a visitare l’Albania, il Kossovo, la Macedonia del Nord e alcune zone della Grecia dimostra il rapporto sempre vivo che permane tra gli arbëreshë d’Italia e l’antica patria balcanica[17].

 


[1] I Capitoli delle Colonie Greco-Albanesi di Sicilia sono stati pubblicati da Giuseppe La Mantia nel 1904 e ripubblicati, in riproduzione anastatica, nel 2000, a cura del Comune e della Pro loco di Palazzo Adriano.

 

[2] Il Comune di Piana degli Albanesi (Hora e Arbëreshëvet), della Città metropolitana di Palermo, sino al 1941 si chiamava Piana dei Greci.


[3] Al Comune di Contessa (Kundisa), dopo l’unificazione del Regno d’Italia, venne aggiunto il nome Entellina, in ricordo dell’antica città elima di Entella le cui rovine sono presenti nel territorio comunale, per distinguerla dagli altri centri del Regno d’Italia aventi lo stesso nome. In atto Contessa Entellina fa parte della città Metropolitana di Palermo.

 

[4] Il comune di Santa Cristina Gela (Bashkia e Sëndahstines) è stato fondato da alcuni coloni, provenienti da Piana dei Greci, che nel 1691 si sono trasferiti nel feudo di Santa Cristina, ottenendo in enfiteusi i terreni del suddetto feudo. Santa Cristina Gela fa parte della Città metropolitana di Palermo.

 

[5] La notizia della presenza di coloni albanesi che hanno popolato Sant'Angelo Muxaro viene data dal Chetta, nell’opera Il Tesoro di Notizie su de’ Macedoni, Paragrafo 230, pag. 465, e viene ripresa da Giuseppe La Mantia, opera citata, paragrafo XLII nonché da Giuseppe Schirò “Opere” VIII Saggi, a pag. 245.

 

[6] Nota 6 Giuseppe Schirò, opera citata, vol. VIII pag.275.

 

[7] Vedasi Francesco Savasta, “Il Famoso Caso di Sciacca”, Sigma edizioni, Palermo 2000, ristampa anastatica dell’edizione di Palermo del 1843; Domenico Cuccia, “Il ruolo degli albanesi di Palazzo Adriano  nel famoso caso di Sciacca”, su Scopri Albania il 6 ottobre 2021 e su https://www.dimarcomezzojuso.it/pubblicazioni.php...

 

[8] Il Chetta, nel paragrafo 214, a pag. 438, dell’opera citata, riferisce che a Contessa, sino al 1700, se un forestiero soggiornava per più di tre giorni, al terzo giorno trovava davanti l’uscio dell’alloggiamento un paio di corna di becco, in tal modo gli si manifestava che la sua presenza era indesiderata. L’uso di chiamare “lëti” gli estranei alla comunità è continuato sino ai tempi recenti. Ricordo che la gente comune per indicare un venditore ambulante che veniva da fuori Contessa diceva “një lëti” cioè un latino.

 

[9] A San Michele di Ganzeria, in cui mi sono appositamente fermato durante un viaggio, ho potuto constatare personalmente che la toponomastica è simile a quella dei comuni in cui l’arbëresh ancora si parla.

 

[10] Atanasio Schirò, zio del mio nonno materno Giuseppe Tardo, pur essendo greco di nome e di cognome, è diventato parroco della Chiesa latina e principale sostenitore, nella sua opera “Memorie Storiche Intorno Alle Origini e Vicende Di Contessa Entellina”, edita a Palermo, postuma, nel 1902, della negazione di ogni preminenza della Chiesa Matrice greca di Contessa su quella latina.  Lo stesso autore, dotato di non comune ingegno, ha scritto anche un libro su “L’antico Castello di Calatamauro”, pubblicato nel 1887 a Palermo, e un altro libro su “Il Monastero di Santa Maria del Bosco”, pubblicato a Palermo nel 1894. Il suo testo sulla storia di Contessa, che era stato pubblicato in varie puntate nella Sicilia Sacra del Boglino, è stato contestato in Consiglio comunale, in alcune sedute svoltesi, nel 1875 e 1876, dal consigliere Notar Calogero Genovese, pur essendo lo stesso di origine latina.

 

[11] Di particolare rilievo furono le controversie sorte a Contessa e a Palazzo Adriano. A Contessa sulla titolarità della proprietà della Chiesa di Maria SS delle Grazie, comunemente denominata della Favara, fondata come Chiesa Greca e poi, su disposizione del Vescovo di Girgenti (ora Agrigento) Francesco Ramirez, assegnata nel 1698, come parrocchia, ai latini per la semplice somministrazione dei Sacramenti. La controversia tra i cleri dei due riti si concluse con la Transazione del 21 agosto 1754. La suddetta transazione, che riconosceva la titolarità del diritto di proprietà sulla chiesa al clero greco, sottoscritta tra i cleri dei due riti, ebbe sia l’approvazione del Vescovo di Girgenti che la risoluzione del Re, il 5 agosto 1845. Anche a Palazzo Adriano sorsero controversie sul ruolo della Chiesa greca dell’Assunta quale Chiesa Madre. Tale ruolo fu confermato da un concordato scritto, approvato dall’autorità cclesiastica e riconosciuto dall’autorità civile, anche se successivamente non sono mancate contestazioni.


[12] La notizia è stata appresa dal Chetta, che è stato anche rettore del Seminario, opera citata, paragrafo 271, pag. 528. Secondo Giuseppe Schirò, opera citata, vol. VIII pag. 302 il Seminario, invece, è stato fondato il 1734. La contraddizione è solo apparente in quanto il seminario aveva già iniziato a operare in attesa dell’approvazione formale.

 

[13] Nel 1960 Papa S. Giovanni XXIII con la Bolla Orientalis Ecclesiae ha affidato alla Eparchia di Piana i fedeli, il clero e le parrocchie di rito romano presenti nei territori dei cinque comuni arbëreshë. E nel 1967 Roma ha nominato vescovo residenziale Mons. Giuseppe Perniciaro.

 

[14] La Chiesa, fatta costruire in perfetto stile bizantino nel 1143 da Giorgio di Antiochia, grande Ammiraglio del re normanno Ruggero II, è concattedrale dell’Eparchia di Piana degli Albanesi e punto di culto e di ritrovo degli arbëreshë residenti a Palermo. Essa, per la sua bellezza artistica, viene considerata come uno dei principali monumenti del percorso Arabo-Normanno, dichiarato dall'UNESCO “Patrimonio mondiale dell'umanità”. Una lapide, posta all’inizio della Chiesa, ricorda la figura dell’eroe albanese Giorgio Castriota Skanderbeg.

 

[15] In quest’opera si è particolarmente impegnato il professor Matteo Mandalà, titolare della cattedra di Lingua e Letteratura albanese presso l’Università degli studi di Palermo.


[16] In quest’opera si è distinto il professor Giuseppe Schirò Di Maggio di Piana degli albanesi.


[17] Il presente articolo, che si proponeva di dare un’informazione generale sulle comunità arbëreshe siciliane, era stato pubblicato su “Albania News” e su “Albania Letteraria” il 4 febbraio 2022. L’attuale testo integra, soprattutto nelle note, il testo in precedenza pubblicato. 

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