lunedì 6 maggio 2024

Il mondo del lavoro che cambia (1)

 Lavoro

(Dal latino labor, parola che ha anche il significato di sofferenza e affanno). In termini molto generali, il “lavoro” si può intendere come applicazione di energie umane, fisiche e intellettuali, rivolte alla trasformazione  delle risorse naturali al fine di soddisfare bisogni.

 Nel corso della storia la nozione del lavoro ha subito trasformazioni in conseguenza dell’evoluzione e dei rapporti sociali e delle innovazioni tecnologiche.

 Ai nostri giorni per lavoro intendiamo l’attività retribuita per mettere in campo la produzione di beni o di servizi. Le scienze sociali negli ultimi decenni, dal secondo dopoguerra, hanno dedicato molta attenzione al lavoro dipendente, rispetto a quello autonomo, e a quello manufattoriere in particolare.

 L’introduzione ormai diffusa dell’informatica in ogni ciclo produttivo e professionale ha sostituito -in ogni ciclo lavorativo- il lavoro in quanto fatica fisica, che caratterizzava al massimo grado  quello dei nostri nonni. Ai nostri giorni i profili di chi lavora o cerca lavoro sono divenuti fluidi. L’idea di svolgere lavori connessi a ruoli e funzioni fisse, con mansioni permanenti  non è immaginabile dal momento che alla standardizzazione dei decenni andati e’ ora subentrata l’invenzione di percorsi lavorativi molteplici e differenziati.

 Per mettersi in sintonia con i nostri giorni, o come dicono i più anziani, con la nostra epoca, e’ comunque buona disposizione quella di percepire che il riscatto morale e sociale e’ possibile solamente attraverso il lavoro

 Sulle pagine che dedicheremo alla tematica del “lavoro”, suggeritaci dalla recente ricorrenza del Primo Maggio, intendiamo affermare sul blog pienamente lo spirito dei nostri giorni e per farlo prenderemo le mosse dalla storia più recente dei nostri nonni, dei nostri padri che sotto la pulsione e gli impulsi della ricerca di un lavoro e con esso di un futuro migliore sono andati a cercarlo in America, in Francia ed in Germania e persino in Australia.

    Nel dopo terremoto ‘68, nell’area del Belice, le migrazioni dalle campagne, assunsero carattere di massa. Si partiva con le valigie di cartone e il “vestito buono”, quello del giorno del matrimonio, e non erano - come tanta stampa sosteneva- viaggi della disperazione, ma semmai della speranza. C’era in chi partiva la certezza di potere ottenere, attraverso il lavoro, un futuro migliore, se non per sé, almeno per i propri figli.

(Segue)

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