lunedì 13 settembre 2021

14 Settembre. La Croce e i dibattiti storico-culturali dei nostri giorni (2)

 PREFAZIONE 

al libro di Chaim Cohn: Processo e morte di Gesù,

di Gustavo Zagrebelsky

1- I capisaldi della communis opinio, o almeno dell'opinione dominante presso gli storici del diritto antico nel nostro paese circa gli eventi che portarono alla morte in croce di Gesù di Nazareth si possono esprimere così. Si è trattato di una condanna di un uomo che si era dichiarato innocente, ma non di un errore giudiziario o di un processo ingiusto. Il procedimento davanti al sinedrio e quello davanti al governatore romano sono distinti, riguardando materie diverse. Nel primo l'accusa è di blasfemia ed esaurisce i suoi effetti nell'ambito religioso, potendo condurre solo a una dichiarazione di colpevolezza ("è reo di morte"), perchè la condanna e l'esecuzione capitale sono riservate all'autorità romana. Davanti a Pilato, l'unica accusa rilevante è quella di sedizione, secondo la legge romana, ma il governatore non la considera fondata su prove sufficienti. Il processo che conduce presenta aspetti non consueti, ma non sfavorevoli all'imputato: prima della condanna, Gesù è rinviato alla giurisdizione di Erode; il popolo è messo di fronte alla scelta tra Gesù e Barabba, nella speranza che la scelta cada sul primo e, infine, con la flagellazione si cerca di commuoverlo, per indurlo a recedere dalla richiesta della crocifissione. Ma il ricorso demagogico al popolo, cioè alla politica, si ritorce contro Pilato il quale, minacciato e rimproverato di non agire da amico di Cesare, se non condannerà un sedizioso che ha attentato all'ordine romano in Giudea, alla fine deve cedere alle pressioni, essendo costretto a pronunciare la sentenza di morte e a disporne l'esecuzione tramite la crocifissione, una pena romana e non ebraica. La politica, alla fine, scaccia il diritto e il giudice, che pure era convinto dell'innocenza dell'accusato, si tacita la coscienza con il gesto del lavarsi le mani.

  Queste preposizioni hanno alle spalle una lunghissima e consolidata tradizione di studi sul processo di Gesù che ha oggi in J. Blinzler e in R. E. Brown i suoi esponenti più in vista. Essa è metodologicamente orientata, secondo la definizione di C. Wiesse, nello scritto conclusivo di questo volume, all'armonizzazione dei testi evangelici, considerati nel loro insieme, nelle loro grandi linee, coerenti e degni di fede sul piano storico. Ci possono essere valutazioni divergenti su punti particolari, anche di grande importanza -talora alimentate da divergenze negli stessi testi evangelici- non considerate tali, però, da infinciarne la validità come documenti storici. Per esempio, l'interpretazione del processo di fronte al sinedrio come "processo giusto" è contestata, alla luce sia della narrazione evangelica di un precedente complotto ordito per far morire Gesù, sia delle conoscenze che possediamo circa la legge processuale farisaica del tempo, legge che presume -ma non da tutti- essere quella applicabile. Taluno, poi, nega che si sia trattato di un processo, ritenendo piuttosto che il sinedrio abbia condotto un'indagine preliminare al fine di raccogliere prove per alimentare il processo davanti a Pilato. Da altri, si dubita dell'esistenza del cosiddetto privilregium paschale e quindi della veridicità dell'intero episodio di Barabba e del coinvolgimento del popolo di Gerusalemme nel momernto cruciale del processo. Ma, a parte il dissenso su questi ed altri aspetti della vicenda, che non ne incrinano comunque  la visione fondamentale, nell'essenziale può dirsi esistere, tra gli studiosi che assumono le narrazioni evangeliche come documenti storicamente  attendibili, un largo consenso sui punti seguenti. Ci furono due processi: l'uno, ebraico e l'altro, romano, aventi due oggetti distinti: la blasfemia e la ribellione.. Entrambi si conclusero con una sentenza di morte. Il processo romano, però, non fu indipendente, derivando da quello ebraico: gli ebrei, essendo a quell'epoca privi del potere di eseguire la condanna che avevano pronunciato, dovettero, per questo rivolgersi all'autorità romana di occupazione per ottenere una pronuncia. Il procedimento romano fu perciò messo in moto dagli ebrei che avevano deciso che Gesù dovesse morire e quindi, senza l'iniziativa ebraica, non ci sarebbe stato. Pilato agì a favore di Gesù. essendo convinto della sua innocenza, e, per salvarlo o per evitare la responsabilità di condannarlo, tentò vari espedienti, tutti falliti, come la flagellazione per muovere a pietà gli ebrei, il trasferimento del processo presso il re Erode, la scelta tra Gesù e Barabba. Questi tentativi si possono comprendere soltando ritenendo che Pilato agisse sotto la pressione o la minaccia degli ebrei, mobilitati per ottenere la messa a morte di Gesù, e non fosse in condizione di agire secondo il suo convincimento, assolvendo Gesù e lasciandolo libero. Il processo si svolse perciò davanti a un giudice che non godeva della libertà di giudicare. La condanna, alla fine, fu strappata a Pilato con un argomento che non era una prova giudiziaria ma un ricatto politico: se liberi costui, non sei amico di Cesare. Ci fu così anche la condanna romana e romano fu il mezzo usato per far morire Gesù, la croce,. La necessaria conclusione è che Pilato, se di qualche cosa può essere rimproverato, è soltanto di essere stato un giudice debole,  che non ha resistito alle pressioni cui fu sottoposto. Ma, per quanto le conclusioni del processo e l'esecuzione della condanna siano stati romani, i veri responsabili, la causa efficiente della morte di Gesù, furono gli ebrei (salvo stabilire se tutti gli ebrei o solo alcuni e quali). L'epilogo della vicenda -Pilato che se ne lava le mani  e la fatale esclamazione degli ebrei: "il suo sangue ricada ...".- risulta a questo punto (anche se si preferisce oggi spesso sorvolare) del tutto appropriato e coerente col ruolo svolto dagli ebrei nella vicenda.

  Tutte queste proposizioni, rappresentative delle convinzioni oggi più diffuse, sono contraddette dai risultati dell'indagine di Chain Cohn: non ci fu alcun processo ebraico, ma solo un processo promosso e celebrato dai romani per il crimen laesae maiestatis, un processo che si concluse con la condanna a morte di Gesù, eseguita dai romani stessi; gli ebrei -capi dei sacerdoti, anziani, farisei dottori della legge, gente comune di Gerusalemme- non svolsero, , perchè non avrebbero potuto svolgere, alcuna parte nel processo romano, nè per accusare Gesù nè per costringere Pilato a condannarlo. Di conseguenza, il processo si svolse regolarmente, come tutti i processi romani di allora nei quali era in gioco la vita di un uomo sospetto di sedizione nei confronti dell'autorità costituita. Il sinedrio, riunito la notte precedente nella casa del sommo sacerdote, convocato in modo del tutto inusuale per uno scopo altrettanto straordinario e non di natura giudiziaria, svolse in extremis il tentativo di convincere Gesù -contro il quale non aveva motivi, e meno che mai, motivi morali di inimicizia- ad abbandonare le sue rivendicazioni messianiche per rendere difendibile la sua posizione, altrimenti irrimediabilmente compromessa, nel processo che si sarebbe celebrato la mattina seguente davanti al governatore romano.".

Segue

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