martedì 1 giugno 2021

Mondo contadino. Per non dimenticare una realtà umana che fu -3-

  E' stato il pedagogista Giuseppe Lombardo Radice a proporre nel 1923 a Francesco Lanza di realizzare l’Almanacco per il popolo siciliano, egli accetta con calore, “perché mi alletta e mi porta di botto in un campo a me caro: la fantasia popolaresca”. E precisa: “Bada che in esso v’è di popolaresco conservato soltanto il senso del meraviglioso senza intoppi.   Lo stile nell'Almanacco si fa eroico come usano i nostri contadini quando si parla di santi e di paladini”.

 L’Almanacco, inizia le pubblicazioni nel 1924 come libro di lettura nelle scuole organizzate dall’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, fu interamente opera di Lanza e riuscì coerente con la sua fantasia popolaresca e con la sua visione epica della vita: “Nell’Almanacco è vivo il senso della terra, il senso della storia, la saggezza del tempo, il segno di un artista, la cui ispirazione, densa di lirismo ingenuo e arcaico, trascende i limiti delle letteratura documentaria regionalistica” (N. Basile, op. cit., p. 17).

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FRANCESCO LANZA 

ALMANACCO PER IL POPOLO SICILIANO, 1924

 Con stampe di ARDENGO SOFFICI e illustrazioni di CARMELO ALOISI 

ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER IL MEZZOGIORNO EDITRICE 

– ROMA – 

1924 

GIUGNO 

   Giugno, falce in pugno! 

   Il sole diede il suo oro alla campagna, e nelle spighe è già pronto il frumento. 

   Calano da ogni parte a brigate i mietitori, e nelle sere odorose di gigli s'odono canzoni di tutti i paesi, perché ognuno ha sempre con sé amori e tristezze. 

   Brillano le falci, e la fronte dell'uomo si bagna di sudore. Restano fra le stoppie i covoni, che bisogna subito assicurare contro gli incendi; e il villano con la falce al fianco, ché quella è la sua spada, ne tira in mente la somma. 

   La schiena gli duole dal lungo stare curvato, ma non ha neppure il tempo di pensarci, che c'è da preparare l’aia: raschiarla delle erbe, bagnarla e batterla con mazze e ramaglie perché diventi più dura; e finita la mietitura vi si portano i fasci di fave, che sotto i ferri delle mule crepiteranno come sarmenti. 

   Intanto le viti fioriscono, d'un sottile aroma odorando, e i grappoli man mano si formano e s'allungano. Si fanno gli ultimi innesti a pezza, di mandorli, peschi e albicocchi. Non c’è albero ormai che non abbia i suoi frutti, dove maturi, dove appena incominciati, e i dolci succhi servono nel gran caldo a ingannare la sete. 

   Il sole spacca la terra e abbrustolisce la nuca al villano. Nelle ore di afa, che tutte le cose s’assonnano e l'aria è come un mare di fuoco, le cicale stridono e le stoppie saltando in aria scoppiettano. Gli alveari, poiché le api succhiarono instancabili tutta la primavera, colano di miele, e nelle celluzze i nuovi nati s’impinzano, molli come cera. 

   Suvvia, o villano: attacca le mule e buttale sull'aia! Il tempo del pane nuovo è venuto. 

DAL VANGELO 

Morte di Giuda 

     Allora Giuda, che l'aveva tradito, vedendo che Gesù era stato condannato, ebbe rimorso di quel che aveva fatto, riportò i trenta danari ai capi sacerdoti, e agli anziani, e disse: - Ho peccato perché ho tradito il sangue innocente. - Ma essi risposero: - Che c'importa? Pensaci tu. - Ed egli gettati i denari nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi. Ma i capi sacerdoti, presero quei denari e dissero: ~ Non è lecito metterli nel tesoro del Tempio, perché sono prezzo di sangue. - E dopo aver tenuto consiglio, comprarono con quel denaro il campo del Vasaio, per darvi sepoltura ai forestieri. Perciò quel campo, fino al dì d’oggi è stato chiamato: Campo di sangue. Allora si adempì quel che fu detto dal profeta Geremia: «E presero i trenta denari, prezzo di colui che era stato messo a prezzo; messo a prezzo dai figliuoli d’Israele; e li dettero per comprare il campo del Vasaio, come il Signore me l'avea ordinato». 

IL POI E IL MAI 

   Se devi fare una cosa, falla subito e non aspettare il poi, che se fiorisce mal fiorisce. Non c’è meglio del giorno in cui l’hai da fare. 

   Ricordati che il mese del mai nell'anno non c'è, e d’ogni giornata perduta Iddio ti domanda ragione. 

I MOTTI 

Più vale un amico in piazza, che cent'onze in tasca. 

Tre giorni di riposo: al nascere, al crescere, al morire. 

Chi dorme solo, si corica largo. 

Troppa gente fa bonaccia. 

La spina a chi punge duole. 

Meglio senno che denari. 

Chi paga il debito ha credito. 

Chi ha virtù ha ogni bene. 

Chi cammina arriva. 

Chi lavora non sbadiglia.  

CIANE 

   Al grido di Proserpina, Ciane smarrita corse dietro il carro, e l'amore le metteva ali ai piedi. Raggiunti i cavalli, li tenne forte per la briglia e così si volse a Plutone, Dio dei morti:    - Dammi la mia compagna, o crudele! Perché me la rapisci? Ella è vergine, e tu la farai intristire.

    Plutone rise: 

   - No, che io invece la fo fiorire come un papavero e ingrossare come una spiga. Suvvia, lasciami che ho fretta - e così dicendo stringeva la fanciulla svenuta. Ma Ciane teneva più forte le briglie: 

   - Voglio piuttosto morire, che lasciarti portar via la mia dolce compagna. 

   Allora Plutone irato la colpi alla testa con lo scettro, ed ella fu subito mutata in fontana, e i suoi occhi piansero lacrime eterne. 

LA DONNA SICILIANA 

   La donna siciliana è forte e buona. 

   Essa è la gioia della casa, alla cui ricchezza concorre, portando la sua briciola come la formica, e mantenendo ciò che l’uomo fa. Non è sfruttata in lavori pesanti, e perciò splende di salute. 

   Da lei vengono figli forti come querciuoli, e l’uomo se ne allieta. Così la razza siciliana è sempre fra le prime, sebbene le fatiche e le miserie siano tante. 

   I figli sono abbondanza: e ricca per questo è la nostra Sicilia. 

 L’ETNA

    L'Etna è la più alta montagna della Sicilia. 

   Anticamente si credeva che essa fosse una delle colonne del cielo, e che nel suo interno avesse la fucina Vulcano, fabbro degli Dei, per fabbricarvi i fulmini a Giove e le armi agli eroi. 

   Tu la vedi all’orizzonte come la mammella d'una gigantessa, al cui capezzolo le nubi succhiano. La maggior parte dell'anno è ammantata di nevi, e impennacchiata di fumo. 

I CICLOPI 

   I Ciclopi abitavano la costa della Sicilia, tra Catania e Messina. 

   Erano giganti superbi e feroci, figli del Cielo e della Terra. Avevano un solo occhio in mezzo alla fronte, simile al sole per grandezza e splendore. 

   Erano così alti che sopravanzavano l’Etna, e quando camminavano nel mare tutta la loro testa e le spalle ne restavano fuori. 

   Non seminavano e non mietevano, ma pascolavano gli armenti e coglievano i frutti che produceva spontaneamente la terra. 

   Per saziarsi non ci volevano per ognuno meno di dieci pecore o di un bue alla volta, e ad ogni bevuta una tina di vino. Divoravano gli uomini come uccelletti, con tutte le ossa; e per pulirsi i denti usavano delle pertiche. Giocavano alle bocce coi faraglioni della costa, e rompevano come biscotti le cime alle montagne e le buttavano per gioco al sole e alle stelle.     Allungando una mano prendevano le navi che passavano al largo e le spezzavano come giocattoli, non usando mai pietà per quelli che vi erano dentro. 

   Vivevano in antri paurosi, ove passavano la maggior parte del tempo, e delle loro risa di ubriachi tremava ogni volta tutta la Sicilia. 

DAMONE E PIZIA 

   Ai tempi che a Siracusa governava il tiranno Dionisio, quattro secoli prima di Cristo, vissero due amici chiamati Damone e Pizia. Più che amici essi erano fratelli, e lo stesso sonno era loro comune. Le gioie e i piaceri dell’uno erano anche dell'altro, e così i dolori e gli affanni. 

   Ora avvenne che Damone, resosi colpevole agli occhi del feroce tiranno, fu condannato a morire. Egli aveva lontano nella campagna il padre e la madre e i cari fratelli, e prima di avere la morte chiese al tiranno la grazia di andarli a vedere per l’ultima volta. 

   Ma Dionisio non volle concedergli una sola ora, per sospetto che egli non cercasse di sfuggire alla morte. 

   Allora Pizia, mosso dall’amore e dalla pietà, si offrì garante dell'amico: 

   - Prendi me - disse a Dionisio - s'egli non torna entro oggi, io sono qua per lui. La mia vita sta per la sua. 

   A tale condizione il tiranno acconsentì, e lasciò libero Damone; ma sicuro che egli non sarebbe più tornato, si rideva di Pizia che così leggermente metteva a rischio la propria vita.

    E il pietoso giovane, sorridendo, rispondeva: 

   - Che importa s'egli non torna? Mi sarà dolce morire per lui. La nostra amicizia non potrebbe avere fine migliore. 

   E nell’accomiatarsi, pregava l’amico di restarsene fra i suoi, sano e salvo: 

   - Non ti curare di me - diceva. - Se veramente mi hai amato, non tornare più. La tua vita vale più della mia morte.

   Ma Damone, giunto alla sua casa, abbraccio in fretta i cari parenti, e sordo alle preghiere e ai pianti che intorno gli facevano invano per rattenerlo, senza porre alcun tempo in mezzo, si rimise subito in cammino per il ritorno, e prima che il termine spirasse fu alla presenza del tiranno. 

   - Eccomi - disse. - Ora fammi morire, ch'io ne sono lieto. Non rimpiango più nulla, e non desidero altro che liberare il mio amico – e con amorose parole abbracciava e baciava Pizia, che piangendo lo rimproverava d'essere tornato: 

   - Perché, o Damone, hai mantenuto la tua parola? Non sai che mi sarà più doloroso vederti morire, che non io stesso avere la morte? 

   Sommamente ammirato della grandezza d’animo dei due amici, il tiranno non poté resistere alla pietà, e annullata la sentenza contro Damone, li mandò entrambi liberi con ricchi doni, pregandoli di considerarlo come terzo nella loro singolare amicizia. 

 LA PUDDARA 

   La Puddara è l’amica del contadino. 

   Ella pare nel cielo una chioccia che ha sotto le ali i suoi pulcini. Sono sette stelle in un grappolo; ma una più piccola, che a vederla ci vuol buona vista. 

   Quando spunta prima dell'alba, l’estate, i cani abbaiano allegramente, le mule scalpicciano nella stalla: allora il villano, che dorme con un occhio sì e uno no, salta dal letto, e via! che lungo è il cammino. Per non farsi vincere dal sonno si accompagna cantando; e quando si sveglia, l’alba è spuntata e un'altra giornata comincia. 

PROPAGAZIONE DELLE PIANTE 

   Vari sono i modi di propagare le piante, delizia della campagna. 

   Alcune, senza sforzo umano, genera spontaneamente la natura, o per la caduta del frutto e del seme, o per mezzo di polloni che fuori pullulano dalle radici, come avviene per gli olmi, i cerasi, i pomi. 

   Altre si propagano per le cure attente e continue dell’uomo che guarda agli alberi come a figli, per averne frutti e lietezza di vista. 

   Il modo più usato è la propagazione per seme, come avviene per i cereali di cui suberba va la Sicilia. Per le piante da frutto si fanno, prima delle stagioni piovose, vivai, avendo cura di scegliere semi sani e di alberi forti; e a tempo debito le nuove pianticelle si trapiantano in fosse adatte, e quindi s’innestano. 

   Altre propagazioni avvengono per gemme e talee, magliuoli e piantoni, piantando cioè una semplice gemma o un rametto con tre o quattro occhi in terreno acconcio; oppure per margotta e propaggine, come si usa per le viti, gli agrumi, i gelsi e i castagni, mettendo cioè rami sottera a fare radici, senza essere staccati dalla pianta madre. 

   Un altro modo, e meraviglioso, è l'innesto, per cui s’addomestica il selvaggio e si muta la natura della linfa e dei frutti, sicché da un mandorlo, come per miracolo, tu puoi avere polpose albicocche o pesche succose, e da duro cotogno aromatiche pere. E necessario però che tra pianta epianta ci sia simpatia, come tra uomo e donna, per cui all'ulivo non puoi innestare il pesco, e al castagno il mandorlo. 

   L'innesto è la semina di una gemma nell'altrui umore, o l'impianto d'una talea a più occhi in un tronco diverso, o soggetto o alburno. 

   In vari modi possono farsi gli innesti, e secondo la stagione. In inverno bisogna innestare a spacco, a marzo, a becco di flauto, usando buoni strumenti e ottima pece che potrai avere mischiando: 28 parti di pece nera, 28 di pece greca, 16 di cera gialla, 14 di sego e 14 di cenere fina. 

   In primavera e al principio dell'estate farai innesti a occhio (in primavera a occhio vegetante, in estate a occhio dormente) e ad anello, e troncherai le cime all’arboscello perché l’umore non si disperda in getti superflui, ma tutto corra al punto bisognoso. L’anello ha da essere meno in succhio del soggetto, perché s'innamori e prenda. 

   Se vuoi ottenere alberi forti che lungamente ti allietino, prendi gemme da fiore. 

   Se hai due piante vicine e vuoi farne una sola, taglia ad entrambe un po’ di corteccia, e legale l'una all’altra dove hanno la piaga, come se dovessero baciarsi; e da questo bacio vedrai scoppiare floride gemme; e quindi taglia sotto il bacio l’albero che vuoi conservare. Sotto tagliato, in alto esso continua, e presto farà fiori e frutti, secondo la sua natura. 

LU SURFARARU 

Guarda chi vita fa lu surfararu 

ca notti e ghiornu va a cala a lu scuru 

metti a scippari surfu cu li manu, 

e ‘nta ddu locu amaru nudu e sulu 

li suduri cci scurrunu a funtani. 

Si fa lu cuntu e lu cuntu non veni, 

li figghi cci addumannunu lu pani, 

ed iddu è dispiratu e sempri in peni.

 ESTATE 

   Viene l'estate incoronata di spighe e di frutti, e l'uomo s’incorona di sudore e di pula. 

   La terra rende per cento ciò che le fu messo in grembo e paga ogni oscura fatica. Tutto viene da lei e tutto a lei ritorna, e la vicenda delle stagioni insegna qual è il destino dell'uomo. Nel sole che arde fervono i lavori, e uomini e bestie non hanno un istante di requie. Il giorno comincia con la Puddara, e la stessa notte gli occhi non posano e le ossa ballano, tanti sono i pensieri e gli affari. 

   In casa, le donne preparano i granai a cui viene la sera il frumento, oro delle campagne; o sull’aia aiutano l’uomo col corbello e la pala. Ora, chi ha due braccia ha da metterle all'opra.    

   Del nuovo pane odora ogni casa, e la campagna di novelli aromi. Ogni frutto matura, succhiando miele dal sole. Alla vigna, cui bisogna fare i lavaggi contro la peronospera, i chicchi s’ingrossano, e l’acido mutano in dolcissimo mosto. 

   Finiti i lavori del grano, per poco il contadino, rotto dalle fatiche, riposa. Bisogna subito bruciare le ristoppie perché diano concime ai campi, raccogliere man mano i frutti, zappare gli ulivi, pensare ai concimi, prepararsi per la vendemmia. 

   L’annata del villano comincia a gennaio e finisce a dicembre. 

   E l’epoca dei grandi calori e dei giorni più lunghi. Nell'afa di mezzogiorno le cose s'ingrandiscono e si annullano, e a guardarle sembra di non avere più la vista. Il buon villano si vede in estate.

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   Chi fosse interessato, può leggere la pagina dell'Almanacco relativa al mese di Maggio Pigiando qui.

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