martedì 22 settembre 2020

Comunisti eretici. Quel partito che non tollerava chi la pensava diversamente ed espulse ...



Pubblichiamo un articolo del giornalista Corradino Mineo pubblicato su Il Manifesto scritto in occasione della morte di Rosanna Rossanda.

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"Per essere liberi bisogna saper rischiare.

La liberta' è un rischio".


Rossanda, Antigone, Luxemburg

di Corradino Mineo.

Per qualche tempo ho avuto il privilegio di incontrarla tutti i giorni, in redazione, in via Tomacelli. Non di parlarle. La vedevo che mi passava davanti con intorno un nugolo di giovani donne che ostentatamente la chiamavano per nome, e che io trovavo importune. Un saluto, niente di più. E poi come parlarle? In che lingua, intendo. Ricordo i “pezzi” che scriveva per il manifesto. Era come se la prima parola prevedesse l’ultima. E, la prima e l’ultima, venivano trascinate da una sintassi elegante, molto complessa, eppure gradevole alla lettura. Io in quegli anni imparavo a scrivere -o almeno, tentavo- dalla prosa del mio direttore, Luigi Pintor. Uno che metteva al centro la parola, il suo significato, il suono del sostantivo, la misura dell’aggettivo. Avevo l’impressione che la tormentasse, quella parola, fino a renderla quasi perfetta. Se guardate le bozze – le troverete in rete- de l’infinito di Leopardi, scoprirete la medesima ricerca. Lo stile di Rossanda, invece, sembrava sgorgare senza fatica. Era naturalmente fluido. Scorreva: non cominciava e non finiva. Capite allora? Come parlarle, come entrare nel cerchio perfetto del suo periodo, senza adularla scioccamente? O fingere che l’uso del primo nome ci rendesse simili,  comunque “compagni”.

Ricordo gli sguardi allarmati in tipografia perché le 90 righe previste dal menabò  per il suo commento, ahimè, alla fine erano diventate 120. Io, laggiù a sera tarda, per far rientrare in pagina i caratteri linotype che nella pagina non rientravano. Ho tagliato Fortini, non Rossanda. Poi alla fine Pintor, o chi per lui, le chiedeva di scendere, di fare in tipografia quello che altri non sapeva o non poteva fare. La vedo ancora, leggere e rileggere. Mentre gli autisti, di fuori, già contavano le città del profondo nord e del sud lontano che non avrebbero raggiunto in tempo utile. Dove il giornale, la mattina dopo, non sarebbe stato distribuito e i nostri lettori non lo avrebbero trovato in edicola. Era una fortuna – ne eravamo coscienti- poter avere Rossanda fra noi. E le fortune talvolta si pagano.

Chi era Rossana Rossanda? Cooptato da Palermo a Roma, precipitato da una famiglia di scienziati schivi nel gran salotto della cultura di sinistra, me lo sono chiesto più volte. Era la donna che Palmiro Togliatti aveva scelto per dirigere la politica culturale del suo partito. Così come Luigi Pintor era stato il giornalista preferito di Pietro Ingrao e ammirato da Enrico Berlinguer. E Luciana Castellina,  l’inviata per eccellenza, con amici e contatti nel mondo intero, a suo agio nella Grecia della guerra civile, nella Praga delle giornate della gioventù comunista o a Roma, accanto a Jane Fonda, di ritorno dal suo più scandaloso viaggio, nel VietNam comunista. E Valentino Parlato, che mi ricordava quel San Tommaso: toccava le stimmate per poter credere. Lui che non si dava arie, il più alla mano della redazione, frequentava grandi economisti, banchieri centrali, imprenditori. A cui spesso strappava un contributo (e qualche buon consiglio) per il manifesto.

Erano gli eletti, il meglio di quel che era stato il più grande partito comunista dell’occidente. La forza politica che, dall’opposizione negli anni 50 e 60, aveva egemonizzato cinema, teatro, letteratura. Ma della cucina del partito, delle ansie e delle miserie dell’apparato, della fede cieca di troppi militanti, i compagni de il manifesto sapevano assai poco. C’erano – è vero- due eccezioni: Aldo Natoli. Un tempo capo del popolo romano, di quel popolo che riempiva piazza San Giovanni, con gli autisti dei tram che nel ’60 si fermavano e aprivano le porte per mettere in salvo donne e ragazzi inseguiti dagli squadroni a cavallo dei fratelli d’Inzeo. Credo che Togliatti considerasse Natoli un “populista”. Ma Natoli seppe dire a Togliatti quel che meritava, quando lo pescò a proteggere il suo medico personale e con lui un pezzo del generone romano. L’altra eccezione era Lucio Magri, intellettuale cattolico, maturato nella Democrazia Cristiana. Uno che, dopo la radiazione dal PCI,  credeva che si potesse far politica con la stoffa a disposizione, i giovani nel 68, i gruppi, Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia Operaia. Natoli tirò presto i remi in barca, senza darne spiegazioni a nessuno, neppure a chi gli era stato più vicino, come il mio grande amico. Francesco De Vito. E Magri restò Magri. Nel 1984, caduta l’illusione del ’68 e di quel tardo colpo di coda che fu il movimento del ‘77, tornò nel Pci. Poté farlo perché in fondo era restato diverso, non veniva da quella storia.

Rossanda, al contrario, era quella storia. Trovai pieno di auto ironia il titolo della sua autobiografia, “La ragazza del secolo scorso”. Mi parve come se si guardasse già da lontano, se apprezasse la distanza da quel mondo che pure era stato il suo mondo. Uno straniamento che le ha sempre permesso di dire quello che altri non osavano pensare. Fu così per “l’album di famiglia” quando, durante il sequestro Moro, disse che chiunque avesse conosciuto il partito comunista negli anni 50 non poteva non sentire assonanze con il linguaggio usato dalle Brigate Rosse. Dalle pagine de l’Unità gli rispose con durezza Emanuele Macaluso. Un altro vecchio, che Dio ce lo guardi! Ma credo Emanuele, del PCI degli anni 50 abbia conosciuto in Sicilia solo Girolamo Li Causi, o forse Paolo Robotti. Ma non credo proprio che, nell’uno nell’altro, si sia mai confidato con lui. Né con nessun altro. Certo Macaluso e stimò Giorgio Amendola. Ma Amendola dopo tutto era un liberal - stalinista. Altra storia da quella dei Longo, dei Secchia, dei Terracini e del “giurista del Cominform”, come Trockij ebbe a chiamare Togliatti. Rossanda fu settaria, appassionatamente settaria. Ma il suo rispetto per la verità era supremo. E veniva fuori, a tempo debito. Le sono sempre grato per il ricordo, il più bello che sia stato scritto, di Mario Mineo.

Valentino Parlato era nato a Tripoli in Libia. Luigi Pintor sardo e fratello di Giaime, Luciana Castellina figlia di una straordinaria ebrea triestina, che anche Rossana amava e ammirava. Hanno forse avuto un ruolo le storie familiari, e le provenienze regionali, nella formazione (e nei limiti) di quel gruppo dirigente? Rossana Rossanda era ⁰nata in Istria a Pola, un tempo Italia, oggi Croazia. Molti anni dopo, parlandone con Piero Scaramucci, mi capitò di riflettere sul debito che la cultura italiana ha contratto con quella fascia di terra mitteleuropea. Ma essere istriano, come credo l’esser siciliano, ti condannava anche a una relativa marginalità. Il racconto nazionale prevalente, quello della Padania, attraversata da anarchici e fascisti, da socialisti e commercianti che si ostinavano a votare PCI -penso a Novecento di Bertolucci- in fondo ti era estraneo. Come il tentativo sabaudo di ottenere dalle cancellerie europee uno statuto nazionale per il Regno ma, poi una volta fatta l’Italia, quella assurda guerra civile portata contro il banditismo e le plebi meridionali. Penso a Bronte di Florestano Vancini. Tutto ciò, in fondo, ti passava accanto, se eri fino al midollo istriano, siciliano, sardo. Potevi esserne il testimone. Magari capivi e provavi a farci i conti, ma non era mai completamente la tua storia, se ti chiamavi Rossanda, Pintor, Visconti, Sraffa, Gramsci. Si può spiegare anche così una sconfitta? La si può cercare nella diversità strutturale tra costruttori della casa col tufo, e architetti illuminati ma senza contratto?

L’architetto conosce bene i limiti del tufo. Ricordo un convegno a Torino, con Rossana Rossanda. Allora gli ex pretori d’assalto avevano cominciato a fare i conti con il “terrorismo” rosso, non ancora con la mafia. Si discuteva, in quel convegno, se due o tre chiamate in correità tra loro connesse potessero assumere il valore della prova. Rossana non era convinta. Certi giudici arrivarono da lì a poco a considerare prova la semplice accusa mossa da un pentito, rafforzata dalla “credibilità” del teorema accusatorio. Rossanda me ne ricordo- parlò di Antigone la prima volta dopo lo strano “suicidio” di Ulrihe Meinhof nel carcere di Stammheim. A differenza di Hegel, Rossanda non considerava Antigone solo l’eroina di una legge più antica, ancora divina o, se volete, naturale e femminile. No, per Rossana Rossanda, Antigone denuncia la contraddizione della legge. Inaugura la critica moderna del diritto. Femminista? Forse nel senso in cui poteva esserlo Ruth Bader Ginsburg.

Pensando a Rossanda, alle sue belle mani, al suo pensiero limpido, mi sono sempre venute in mente, oltre a Rosa Luxemburg, due donne. Agnes Heller e Hannah Arendt. Sapete? Oggi leggerò tutte le belle cose scritte dai colleghi in morte della Rossanda. Comunista ed eretica. La ragazza del Secolo scorso. Ed avrò un rimpianto. Di averla guardata, anche studiata, ma senza il coraggio di affrontarla. Essenzialmente perché non mi sentivo all’altezza. La consapevolezza dei limiti mi ha salvato più volte, ma mi ha fatto perdere occasioni uniche.

Corradino Mineo

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