giovedì 1 agosto 2019

10 giugno (1940). L'Italia va in guerra

Abbiamo finora descritto come nel breve volgere di meno di un mese, dall'1 settembre 1939, la Polonia cadde nella morsa infernale dell'esercito hitleriano ed il suo governo legittimo è stato costretto a trasferirsi all'estero. 
Vedremo in altre, successive pagine, come dal caso polacco si incendierà nel giro di pochissimo tempo l'intera Europa e non solamente essa.
Ricordiamo pure come, un altro dittatore, omologo di Hitler, in quel settembre 1939, Stalin, diede mano libera alla Germania sulla Polonia in cambio dell'occupazione sovietica dei paesi baltici: Littuania, Lettonia, Estonia.

Per alcune puntate ci soffermeremo su riflessioni e considerazioni sulle quattro aree immediatamente cadute sotto le dittature (nazista in Polonia e comunista nei paesi baltici) per ragioni forse un poco sentimentali, ma anche per non dimenticare. 
Fra Polonia, Russia (Kalingrad), Lituania, Lettonia, trascorsero nei campi di concentramento un paio di anni dopo quel settembre 1939 di inizio della guerra, migliaia e migliaia di soldati italiani, fra cui almeno due contessioti ben conosciuti da chi sta provando a ricstruire alcune loro vicende in mezzo a grandi vuoti e con tanta incapacità a riportare e riposiizionare nel tempo e nello spazio le loro narrazioni. 
Note e pagine con grandi vuoti di memoria e di particolari, ma che vanno comunque riportate perchè pure noi contessioti di oggi possiamo riflettettere su ciò che significò la seconda guerra mondiale.

Per intanto -per oggi- riportiamo un testo (ma ricorreremo frequentemente a testi storici)  di uno dei più grandi giornalisti e narratori italiani, Enzo Biagi, su ciò che i nazisti compirono in Polonia, e in più parti d'Europa, ai danni immediati della popolazione giudaica, e non solo ai suoi danni. 
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"Sono stato, una sera a vedere la casa di Anna Frank. Nel giardinetto c'era una'ortensia sfiorita. Diedi una occhiata ai campanelli: un solo nome, Eugen Bachle stava leggendo il giornale, forse ascoltava la radio. Non volli disturbarlo. La strada era quasi buia, deserta. Su questo marciapiede, pensavo, la bambina Anna Frank correva con le amiche. Da questo cancello uscì per fuggire in Olanda. Portava come tutti gli scolari tedeschi, la borsa legata alle spalle, e non capiva il perchè di quel viaggio improvviso. Chissà quante volte sua sorella Margot si è affacciata all'ultima finestra: era una ragazzina curiosa. Chissà quanti giochi ha fatto Anna sullo spiazzo occupato dai muratori. Allora c'era un prato, era bello saltare sull'erba sottile. Spesso, nella soffitta di Amsterdam, Anna Frank ha sognato questa casa avvolta dalla notte, questa anonima casa del quartiere di Eschersheim.

  Sono stato un pomeriggio a Dachau. C'era una grande pace nella campagna. Il tiepido sole dell'autunno batteva sulle torrette delle sentinelle, sui capannoni grigi, sulla stella di David che ricorda gli ebrei, sulla croce che ricorda i cristiani. Vidi un nastro di carta colorata, un nastro di corona, sbiadito, attaccato alla barra di un forno. Lo avevano appeso i parenti di Giovanni Ferrario, erano venuti fin qui da Milano. C'è gente che non sa dove portare un fiore. Due bimbetti americani, biondi e allegri, si inseguivano urlando nella camera a gas, le loro grida si diffondevan nell'aria tesa e silenziosa del campo. Arrivarono le madri e li portarono via. La vit continua; si faceva fatica a pensare al dolore racchiuso in quel pezzo di terra segnato dai reticolati.

Ho consciuto a Dussendorf la signora Israel. Piccola, bruna, energica, dirige un grande magazzino di confezioni. Ha occhi scuri, acuti, e come velati dalla tristezza. "Io non sento alcun rancore" mi ha detto "e neppure mio figlio dovrà conoscere l'odio". Quando la incontro, la signora Israel  ha da poco compiuto quarant'anni. E' nata ad Auschwitz, in Polonia. E' nata ebrea. Solo per questo ha una storia. Era una fanciulla allegra, una fanciulla felice, quando andò sposa ad un giovane professore di filologia: "Un ragazzo straordinario" dice con fierezza, "una mente". Si volevano bene, stavano bene insieme. Nel 1939 nacque Leszek, e comiinciò la guerra. Le colonne della Wehrmacht avanzarono rapidamente: col bimbo in fasce, la signora Israel  si rifuggiò da una sorella. Il marito scappò al suo paese, nella Galizia occupata dai russi. Si rividero per un solo giorno, si abbracciarono fiduciosi. "Arrivederci," dissero "arrivederci presto".

  Domani è il secondo compleanno di Leszek. La signora Israel è molto occupata in cucina. Vuole preparare un dolce. Un dolce con la frutta candita e sopra due candeline". E' una mattina di ottobre, un poco malinconica. Il vento porta folate di nebbia. Leszek trotterella attorno alla mamma. La nonna gli ha dato un cucchiaio che sa di zucchero e Leszek è contento.
Bussano alla porta: è un graduato SS "Desidera ?" chiede la signora. Lo sa, è una domanda ingenua. "Deve venire con me". Niente altro. Si toglie il grembiule, infila il cappotto. Fa freddo. Bacia il bambino. bacia sua madre, non vuole prendere nemmeno una valigia, altrimenti Leszek si impressiona.
"Mamma" dice il bimbo "torna subito".
"Certo" dice la signora Israel, e lo bacia, lo bacia ancora.
"Certo, subito subito".
"Promesso ?" dice Loszek. La mamma tace.
"Accendi le candeline" raccomanda, andandosene, alla nonna "fate festa a Leszek".
Quando Leszek ha due anni e mezzo gli fanno una bella fotografia. Leszek indossa un cappottino foderato di pelo, col collo di agnellino bianco. Ha in testa un cobalco di martora, dal quale escono due piccole orecchie a sventola, e un ciuffo di capelli chiari chiari spunta sulla fronte. "Aveva i capelli bianchi, colore dell'oro" dice la signora Israel. Leszek ha un visetto rotondo, e gli occhi furbi, e un poco stupiti. Dietro la fotografia il nonno scrive la dedica. "Alla mia amatissima mamma, Leszek" e una data, 1 febbraio 1942.
La mamma di Leszek riceve quella fotografia in un campo di concentramento. E' con tante altre donne, e molte hanno lasciato a casa un bambino. Qualche volta arriva una lettera, e porta quasi sempre cattive notizie. Le donne del campo lavorano. C'è una ragazza che tiene il diario, e nei pomeriggi di domenica,  quando la sorveglianza si fa meno attenta, ci si può raccogliere nella baracca (è giorno di festa, ci si pulisce, si rammendano gli abiti, basta un fiocchetto per legare le trecce, e sembra che la vita ritorni, e così la speranza) e si ascolta il racconto di quelle interminabili giornate, sembra quasi impossibile che si possa sopportare tanta disperazione. Anche la signora Israel scrive: poesie. Una ventina di poesie. Le ha conservate, è riuscita a salvarle. Le leggeranno solo quando lei non ci sarà più.
Nell'estate del 1943 la signora Israel viene condotta a Sasnowitz. A Sasnowitz si è stabilita anche la sua famiglia: il piccolo Leszek e i suoi nonni. Solo venti chilometri dividono la signora Israel dal piccolo Leszek, da suo padre e sua madre. Ogni giorno una staffetta militare va a  Sasnowitz. Ogni giorno la signora si inginocchia, piangendo, davanti al soldato che va a Sasnowitz, e lo prega di una grazia: "Porti una lettera ai mie genitori. Dica che sono qui, che venti chilometri ci separano".
  Tutte le donne si uniscono, cercano soldi, li offrono a quel soldato, e quel soldato finalmente accetta. Quando ritorna porta un foglio con poche rghe. E' la madre che le scrive: "Mia cara non so se ci vedremo ancora una volta in questo mondo. Sono costretta a farti sapere che sei vedova. Tuo marito è stato fucilato insieme a suo fratello e dieci altri amici".
Ora la Germania combatteva anche contro la Russia e gli intellettuali ebrei dovevano scomparire. Il giovane professore di filologia e i suoi compagni dovettero scavarsi la fossa, e finì cosi la loro breve esistenza. Quel giorno, anche la giovane felice di Auschwitz è scomparsa per sempre.
Poi, fra quelle donne coi vestiti di panno a righe, si diffonde una voce: il ghetto di Sasnowitz è stato annientato. Li hanno presi tutti, li hanno portati ad Auschwitz. Forse, pensava la signora Israel, "si sono salvati, non è possibile che anche Leszek, che anche lui così piccolo ...". Guardava la fotografia che portava sempre con sè, e rileggeva quelle parole: "Alla mia amatissima mamma".

"Sa" dice la signora, "una mamma non può mai credere  che il proprio bambino sia stato ucciso. Può sempre accadere un miracolo. Ucciso così, capisce, come fa una mamma a pensarlo ?". Poi si raccoglie: "Sessanta della mia famiglia, sessanta. Tutti. Mio fratello, con la moglie, e tre bambini, e mia sorella, col marito ed il bambino, e i miei genitori, e i fratelli di mio padre, e i fratelli di mia madre, con i loro nipoti. Sessanta".
L'8 maggio 1945 la signora Israel era in una baracca, fra gli alberi di un bosco, in Slesia. Arrivarono dei carri armati, i guardiani fuggirono. "Siete libere" disse un ufficiale. Ma era troppo debole per andare via. Stette ancora tre settimane in quella baracche che, aveva le porte spalancate, ma le importava ben poco della libertà che c'era fuori, di quel mondo che si affacciava fuori dei reticolati. Seppe che suo fratello era morto qualche giorno prima, e i carri armati stavano già per arrivare.
Andò a finiire in Olanda, le pareva che, tra quei canali dall'acqua verde, tra quei campi di tulipani, fosse possibile trovare qualcosa di se stessi, una ragione per continuare. Conobbe un signore tedesco, dolce, rassegnato. Era ebreo anche lui, aveva perduto la moglie. Decisero di provare a ricominciare assieme. Nel 1949 è nato Robert Victor, è un ragazzino vivace, e da grande vuole fare il chimico. Robert Victor non sa di avere avuto un fratello che si chiamava Leszek, non sa nulla della storia di sua madre. 
"Mamma" le ha detto una volta "perchè a scuola un compagno mi ha detto Jude ?". "Ti ha detto ebreo, come si dice cattolico. Non ha importanza". 
"Aveva una certa voce" commentò il bambino.
"Non ho mai voluto raccontare a mio figlio quello che hanno sopportato gli ebrei; egli scoprirà da solo la verità, ma deve crescere senza rancori", spiega la signora Israel.
"Mamma" le ha detto un'altra volta "a scuola mi hanno preso in giro perchè mi chiamo Israel. Israel è un paese piccolo piccolo, dicono, e la Germania è grande". -Allora io gli ho detto "Devi rispondere con calma, e dire che Israele è proprio un piccolo paese che però ha vinto due guerre: la Germania è un grande paese, ma due guerre le ha perdute".
 Per tre anni la signora Israel non è mai uscita di casa. Il marito l'aveva portata in Germania, qui era il loro lavoro, il loro avvenire. "adesso" dice "la mia migliore amica è una tedesca. Siamo trattati con rispetto, il nostro negozio va bene, gli affari prosperano. Robert Victor cresce felice. Solo una volta mi è sembrato di impazzire. Entrò nel negozio un grosso cliente, e chiese dei pantaloni corti, di pelle. La commessa gli disse: "Questa è la sua misura". Ma il cliente non era soddisfatto: "Non vanno così" diceva "non sono come si deve". "Eppure" osservava la commessa "le stanno proprio giusti".  "Ma vuole che io non sappia come si portano i pantaloni corti, di pelle, io che sono stato un comandante della Hitlerjugend ?". Stavo per corrergli contro, ma mio marito mi trattenne. Non c'è in me alcun rancore".
Guarda la gente che preme intorno ai banchi, ascolta per un momento tutte queste voci, poi mormora, come parlando a se stessa: "Una cosa è certa. Il tempo passa, ma ci si ritrova inerti. Spenti. Come un disco, il cui solco è consumato, e la puntina non può più ricevere vibrazioni".

Nel 1933 c'erano in Germania seicentomila ebrei. Oggi ne sono rimasti trentamila. Per questo ho raccontato la storia dei signori Israel, negozianti di confezioni nella città di Dussendorf, la storia dei due miti e rassegnati signori Israel, il cui cuore volle sopravvivere anche oltre la tempesta.
Enzo Biagi

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