giovedì 29 marzo 2018

Hanno detto ... ...

MATTIA FELTRI, giornalista
SE QUESTA E' DEMOCRAZIA
Tema: la democrazia diretta. Svolgimento: il capo politico del Movimento, Luigi Di Maio, che ha scelto i capilista dell’uninominale, ha vagliato le intere liste, designato i candidati ministri, può segnalare dissidenti e oppositori ai probiviri. I probiviri li ha nominati lui e li può revocare lui. Secondo il regolamento dei gruppi parlamentari approvato nella notte fra martedì e mercoledì, il capo politico ha anche indicato i presidenti dei gruppi di Camera e Senato, Giulia Grillo e Danilo Toninelli, poi votati all’unanimità. Se il capo politico ritiene, può rimuovere i presidenti. Il presidente, che può essere rimosso dal capo politico, nomina il comitato direttivo (vicepresidenti, tesoriere ecc.) su proposta del capo politico. I parlamentari del Movimento si eleggono il capogruppo in commissione, che però può essere rimosso dal presidente, che può essere rimosso dal capo politico.  

Il presidente nomina direttore amministrativo, organo di controllo, capo dell’ufficio legislativo, capo del personale, nomine che può revocare in qualsiasi momento, così come il capo politico può revocare la sua. Il capo politico, insieme col presidente, decide l’azione politica e la comunicazione. I parlamentari che non condividono le decisioni del capo politico, o pregiudicano l’immagine e l’azione politica decisa dal capo politico, sono espulsi e pagano una penale di 100 mila euro. Invece i parlamentari che vogliono entrare nel Movimento, se accettati dal capo politico, lo fanno gratis. Il capo politico, forse, sarà anche capo del governo.  

VITTORIO PELLIGRA, giornalista

Il voto, la maledizione del vincitore (e quella degli elettori)

E' possibile immaginare una campagna elettorale come se fosse un’asta. In particolare un’asta ascendente all’inglese, come quelle che si utilizzano abitualmente per vendere opere d’arte importanti nelle grandi auction houses come Sotheby’s o Christie’s. Il meccanismo è noto: il banditore annuncia un prezzo base e i potenziali acquirenti si alternano in una sequenza di rilanci, di offerte crescenti, fino a quando nessuno sarà più disposto a rilanciare e l’ultimo ad averlo fatto si sarà aggiudicato il bene in vendita pagandolo il prezzo più alto tra quelli offerti.
Ecco, le campagne elettorali, soprattutto da un po’ di anni a questa parte, sono diventate molto simili a delle aste: una sequenza di annunci, contro-annunci, rilanci, fino all’ultimo, fino a quando rilanciare non è più possibile. Per questo per esempio sempre più spesso le elezioni si giocano nell’ultima settimana, quando a un rilancio dell’ultimo momento è difficile farne seguire un altro altrettanto allettante e almeno minimamente credibile. Il caso più famoso è forse il sorpasso di Berlusconi ai danni di Prodi nel 2006 dovuto proprio ad un “rilancio” di questo tipo che prometteva all’ultimissimo minuto, durante l’ultimo confronto televisivo, l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. 
Le offerte vincenti in queste ultime elezioni del 4 marzo sembrano essere stati il reddito di cittadinanza, per il M5S e la flat-tax per la coalizione di destra, che secondo varie analisi hanno spostato rispettivamente 600 mila e 2 milioni di indecisi verso le rispettive posizioni. Ecco, queste promesse non sono, chiaramente, cheap talk, parole in libertà, no, queste promesso sono l’equivalente del “prezzo” da pagare, in un’asta all’inglese, promessa da mantenere, impegni costosi da onorare. 
E così come nel caso delle aste, anche nel caso delle elezioni politiche il rischio in agguato è sempre lo stesso, la cosiddetta “maledizione del vincitore”. Facciamo l’esempio del quadro in vendita. Tanti potenziali acquirenti offrono il loro prezzo, il prezzo sale, ma fino ad un certo punto; ecco quello è il momento in cui il prezzo offerto tenderà a convergere verso il valore “vero”, anche se sconosciuto, del quadro. Chi è disposto a superare quel valore per poter vincere l’asta, dovrà essere disposto a pagare quel bene un prezzo superiore al suo valore vero. Immaginate che all’asta ci siano i diritti di sfruttamento di un giacimento petrolifero o quelli per l’utilizzo delle frequenze radiotelevisive, oppure i tanto discussi diritti per la trasmissione delle partite del campionato di serie A; la “maledizione del vincitore” vi farà andare in perdita, molto o poco, ma sempre sotto. 
Fuor di metafora, ecco il rischio che si presenta oggi ai due vincitori delle ultime elezioni politiche: se la destra dovesse riuscire a formare un governo verrebbe immediatamente messa davanti all’attuazione della flat-tax e all’abolizione della legge Fornero, due provvedimenti che costano complessivamente tra i 163 e i 208 miliardi di euro. Ci sarebbe anche l’aumento delle pensioni minime promesso da Berlusconi, ma per ora tralasciamo.
Da parte loro i 5S hanno giocato il tutto e per tutto sul reddito di cittadinanza che dovrebbe costare circa 17 miliardi; se aggiungiamo poi gli altri cavalli di battaglia, anche qui, il superamento della legge Fornero, investimenti in sanità, famiglia e smart nation, arriviamo a quota 108 miliardi. La lotta all’evasione e l’incremento del Pil, altre due promesse comuni, possono certo agevolare il sostenimento dei costi, ma sono variabili così incerte che iscriverle a bilancio non sarebbe serio. 
Ecco dunque la “maledizione” che si profila all’orizzonte. E se per vincere queste elezioni, la prima volta per la Lega e per il M5S, si fosse promesso troppo, un prezzo eccessivamente sopra media, alla fine un progetto irrealizzabile? Ma soprattutto, e questo è lo scenario inedito, se questi progetti irrealizzabili, a causa della necessità di un’alleanza di governo proprio tra Lega e M5S non dovessero essere alternativi ma sommarsi tra loro? Chi pagherebbe il conto?

EMANUELE MACALUSO, già politico
DUE FINTI "PREMIER" E UN PD INCONCLUDENTE
Le elezioni del 4 marzo hanno prodotto due “premier”, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Entrambi, senza i voti necessari a presiedere una maggioranza, gridano di essere stati investiti dal popolo.
Innanzitutto vorrei osservare che la Costituzione non parla e non prevede “premier” ma di un presidente del Consiglio scelto dal presidente della Repubblica e votato da una maggioranza parlamentare. Il popolo ha votato le liste presentate da partiti o movimenti e nessuno tra questi ha avuto la maggioranza assoluta. Per fare un governo è necessario formare una coalizione con un programma comune e una comune visione politica e questa coalizione può segnalare al capo dello Stato un possibile presidente del Consiglio, ma a decidere sarà sempre il presidente della Repubblica il quale deve verificare se il prescelto dispone di una maggioranza. Tutto qui. Dopo l’euforia dell’elezione dei presidenti delle Camere, la realtà politica è emersa e con essa occorre fare i conti. Vedremo quindi come andranno le consultazioni di Mattarella per capire meglio ciò che può verificarsi.

Intanto, il Pd è sempre assente dal dibattito politico: il partito non esiste e i suoi parlamentari sono stati impegnati ad eleggere i capigruppo. C’è stato un compromesso tra correnti e notabili mediato dall’attuale segretario reggente, Maurizio Martina. Renzi al Senato ha piazzato il suo uomo, alla Camera invece non è riuscito ad imporre il suo candidato ed è stata eletta una personalità che appare neutrale rispetto al renzismo e all’antirenzismo. Tuttavia, c’è da chiedersi se una forza politica, nei giorni in cui si decide la guida del Paese, possa vivere una vita separata condizionata dalla vicenda politica del suo ex segretario, che non si considera ex insieme ad una parte di parlamentari. È chiaro che una forza politica in queste condizioni è destinata all’inconcludenza e all’inevitabile declino. Stupisce il fatto che all’interno di questo partito non si svolga una battaglia politica per superare questo stato di cose e rimettere il partito nelle condizioni di fare politica.

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