domenica 12 marzo 2017

Eugenio Scalfari. La demagogia renziana



BISOGNA chiedersi soprattutto due cose dopo aver letto ciò che Matteo Renzi ha detto venerdì al Lingotto di Torino: la validità della linea politica da lui esposta e la sua capacità, e la sua volontà di attuarla. La mia terza domanda è la seguente: se sarà Renzi a vincere le primarie o uno dei suoi avversari: Emiliano e Orlando. 
La risposta a questa terza domanda dà la vittoria di Renzi a dir poco al 60 per cento. Quanto alle altre precedenti sono da affrontare con molta attenzione avendo ben chiara la personalità del protagonista, i suoi precedenti, la compattezza del gruppo dirigente del Pd. Accingiamoci dunque a questo lavoro.

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L'esordio riguarda il luogo storico dove il Partito democratico è nato: dieci anni fa con la guida di Walter Veltroni che a distanza di pochi mesi affrontò le elezioni e ottenne quasi il 35 per cento dei voti, una cifra leggermente maggiore di quella avuta a suo tempo da Enrico Berlinguer dopo il suo distacco definitivo dal potere sovietico. Veltroni aveva fondato un partito che con il comunismo non aveva più niente a che vedere e lo definì un partito riformatore che è diverso dal termine riformista perché non riforma l'esistente ma fonda una realtà politica diversa e nuova, aggiungendo a quella definizione l'aggettivo di maggioritario come vocazione. Renzi ha ben presente la globalizzazione che ormai è in pieno sviluppo e condiziona quindi il mondo intero. 

Non solo quello occidentale che ci riguarda più da vicino. Il vero problema di questo mondo è il recente arrivo al potere negli Stati Uniti d'America di Donald Trump, un personaggio tutto anomalo nella politica Usa, conseguenza del crescente mutamento della società del maggior impero attualmente esistente che con Trump democraticamente eletto ha messo in luce l'odio di massa contro l'establishment, contro le crescenti diseguaglianze sociali ed economiche e perfino contro l'immigrazione che è stata da cinque secoli il fenomeno che ha creato le Americhe, sia quella del Nord sia quella del Sud. Un fenomeno del tutto diverso ma di analoga importanza è avvenuto in Europa, che è stata la culla della civiltà: l'Europa - che ha creato ed esportato la civiltà occidentale - ha vissuto in continue lotte e guerre da millecinquecento anni: interessi diversi e contrapposti tra le nazioni, diversi linguaggi, diverse etnie, diverse culture; un continente diviso al suo interno e tuttavia madre degli imperi occidentali: quello inglese, quello francese, quello germanico, quello spagnolo. Imperi militari, economici, culturali. Per quanto riguarda l'Italia, non è più stata, dopo la caduta di quello romano, un impero militare e coloniale, ma culturale sì, lo è stato sempre, e perfino nel costume. Questa è la nostra storia e quella del continente di cui facciamo parte ma che è l'unico che non abbia ancora realizzato la sua unità. La sua attuale imperfezione consente ad una sorta di contropotere di guadagnare terreno a vantaggio del populismo che anche da noi odia l'establishment (che peraltro se lo merita) ma che è un populismo retrogrado, antiliberale e antidemocratico, derivante tuttavia dal malanno reale dell'aumento delle diseguaglianze sociali ed economiche.

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Ovviamente Renzi su questo antefatto storico non poteva diffondersi, sicché non è certo che ne sia consapevole, ma della realtà che esso ci ha lasciato sì, è consapevole ed è la materia prima che ha delineato. Sull'Europa si è intrattenuto fin dall'inizio, sostenendo che occorre assolutamente rafforzarla soprattutto nella politica economica che deve molto più puntare sulla crescita ed anche sulla struttura economica affinché sia contemporaneamente unitaria e flessibile, contando soprattutto sull'eurozona con l'introduzione di un ministro delle Finanze unico (auspicato ancor prima di lui da Mario Draghi) che peraltro non ha mai nominato nel suo discorso. Poi si è soffermato sull'immigrazione, chiedendo anche qui una politica europea unitaria sia per le quote di accoglienza sia per il contenimento dei flussi migratori nelle terre d'origine dove occorre riportarli o evitare che fuggano, trattando con i governi africani le condizioni sociali ed economiche dei fuggitivi che affrontano la morte pur di sottrarsi ad una vita impossibile da sostenere. Ha esposto il ruolo italiano di Paese fondatore che come tale va considerato principalmente nella sua situazione di Paese mediterraneo che fronteggia la costa africana e mediorientale, sconvolta dalle guerre in Siria e da una Turchia sempre meno europea e sempre più dittatoriale. Infine ha rimpianto Obama con grande affetto per la sua politica. Della politica di Trump non ha parlato ma il rimpianto per Obama è significativo in proposito. Fin qui la politica internazionale ma il nucleo del discorso è stato la situazione interna del nostro Paese. "Bisogna dare una linea al nostro partito" ha detto, "una linea e una strategia". 

La linea è quella di passare dall'io al noi. La strategia è quella di far crescere l'occupazione. "Non assistenza ma lavoro". Naturalmente l'assistenza dei poveri va ampiamente praticata, per i meno abbienti anche, ma per loro si entra nella politica fiscale contro le diseguaglianze. Sono necessari investimenti pubblici e privati, italiani ma anche europei, di adeguata intensità. Infine il partito. Aveva già detto di voler passare dal tu al noi. Li ha chiamati compagni, ma queste sono novità formali anche se non prive di un voluto significato. La struttura deve basarsi sull'aspetto territoriale, sui circoli, sulla base del partito e tenerne conto. Insomma un partito profondamente democratico come lo è nel nome, ma ancora poco nella realtà. Credo che su questo punto avrebbe dovuto ammettere che la responsabilità è pienamente sua, ma di questo suo errore non ha fatto alcuna ammissione.

Il nucleo del discorso è però un altro: il partito deve avere la natura di una forza politica di centrosinistra dove la parola sinistra abbia di gran lunga prevalenza. La sinistra nel suo complesso è variamente rappresentata anche da piccole formazioni, ma quella vera che ne è il cuore deve essere ed è il Partito democratico che deve rappresentare i bisogni, i diritti, le speranze del popolo. È il popolo che costruisce il partito e il Pd lo rappresenta, ma non è un partito di pochi che rappresentano i molti, al contrario è o deve essere un partito di molti che lo sostengono e lo votano perché ne sono la struttura portante. La formula dal tu al noi vale all'interno del partito ma anche, anzi soprattutto, all'esterno tra partito e popolo sovrano. Ci sono molte altre cose nel discorso di Renzi ma questi mi sembrano i punti fondamentali.

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Ad alcuni osservatori e colleghi il discorso non è piaciuto o hanno avanzato molte riserve pensando soprattutto al passato di Renzi, a cominciare dallo "Stai sereno" il giorno stesso in cui pugnalò Enrico Letta suo predecessore. E poi ai tre anni durante i quali fece molti interventi politici ed economici alcuni dei quali profondamente sbagliati. Molte di queste critiche le ho condivise e in alcuni casi sono stato il primo a formularle. La principale si è poi vista allo scorso referendum, non tanto perché puntava sul sistema monocamerale che anzi era da condividere ma per la legge elettorale che configurava una Camera "nominata" più che eletta e quindi un trasferimento del potere effettivo nelle mani dell'Esecutivo cioè nelle mani di Renzi e del suo "Giglio" di berlusconiana memoria.

Questo è il passato e la natura di solito non cambia. Del resto in molti Paesi europei (quasi tutti) il monocamerale è in atto ed anche chi comanda è il Capo dell'esecutivo. In una società ormai pienamente globale i problemi sono estremamente complessi e debbono essere rapidamente risolti. La democrazia è dunque ormai relegata ma tutelata dalla separazione dei poteri. Queste riflessioni assolverebbero Renzi, pur restando ferme le riserve su alcuni aspetti della sua politica. Ma ci sono altre riserve da formulare. Le mie riguardano soprattutto la demagogia. La natura di Renzi contiene una dose notevole di demagogia, che si accompagna spesso al carisma. Quest'ultimo d'altra parte è pressoché indispensabile per far emergere una leadership, perfino nelle attività ed opere culturali di vario genere, ma in politica è pressoché indispensabile.

Questa comunque è la mia riserva, ma complessivamente il discorso lo considero positivo. Vedremo ora come si svilupperà, fermo restando una buona notizia: il governo Gentiloni resterà in carica fino alla scadenza della legislatura l'anno prossimo. Di voto a breve termine non si parla più e questo è un risultato molto positivo per il Paese.

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