venerdì 2 dicembre 2016

Storie di Sicilia. Dai malèfici alla scienza del terzo millennio

Come si determinava la meta del vino
Flash sulla nostra Storia

Nell'uso linguistico della nostra Sicilia troviamo espressioni di cui -forse- non conosciamo l'origine e a volte non ne cogliamo a pieno il significato. 
Una di queste espressioni potrebbe essere "dove vai a quest'ora della mattinata ? Vai a fissare la meta al pesce ?".


Nei paesi baronali, e Contessa lo era,  le consuetudini hanno avuto grande rilevanza nelle attività commerciali, nello svolgimento degli affari.
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Nel giorno dedicato a San Giorgio si pubblicava la meta per commerciare sui prodotti del latte (formaggi etc.), in quello dedicato a San Francesco il prezzo del mosto e per San Martino il prezzo del vino.

La meta (il prezzo) della quasi totalità dei beni, nel medioevo e all'inizio dell'evo moderno, non era conseguenza del libero mercato ma determinazione di un comitato composto da quattro o cinque persone virtuose e giudiziose scelte dai giurati di ciascuna Universita' (= Comune).

In una realta' feudale -come era Contessa- la determinazione della "meta" del frumento era un compito davvero delicato ed esso merita una analisi a parte, anche perchè influivano le iniziative delle Autorità regie che miravano a regolare i flussi creditizi dei grandi operatori.
  
Il comitato preposto alla fissazione della meta era generalmente composto da persone appartenenti alle varie classi sociali (i civili, i burgisi, i mastri) che avevano come luogo di riunione -fino a meta' del settecento- la Chiesa Madre e successivamente la Chiesa delle Anime Sante, in piazza. Era presieduto dal Parroco della Chiesa greca e i "deputati" venivano convocati "ad sonum campanae longe pulsantis" e ad ogni seduta erano invitati a giurare.

Le mete da fissare obbligatoriamente su basi annuali erano quelle del grano, del mosto e del cacio ma il comitato non lasciava genere alimentare che non cadesse sotto le proprie determinazioni. Solamente il prezzo delle carni era competenza dei "giurati", ossia degli amministratori dell'Universita'.

I vari prodotti, ovviamente venivano trattati nelle botteghe o nei magazzini dei "burgisi".
Le botteghe erano situate in strade del centro abitato e loro caratteristica era che l'apertura di accesso era metà finestra e metà porta e su questo davanzale il potenziale acquirente si appoggiava per chiedere le informazioni e quindi il bene da acquistare.
In quella fase storica (dagli Aragonesi ai Borboni) il commercio era in più modi ostacolato con disposizioni pubbliche e con comportamenti generalizzati degli stessi operatori, forse retaggio di avversione e pregiudizio verso gli ebrei, che ne erano stati operatori.

Ad ostacolare il commercio si sovrapponeva pure il sistema di misura dei prodotti. I tessuti, per dire, a Contessa avevano un sistema di misurazione che differiva completamente da quello in uso a Bisacquino o a Chiusa Sclafani.
Lo stesso grano per essere venduto doveva essere misurato col "tummino locale" che differiva in volume dal tummino in uso a Bisacquino o a Chiusa Sclafani.
Ad ulteriore dimostrazione che il commercio era una attivita' avversata e che chi si occupava di esso era ritenuto un imbroglione per natura o comunque una persona di scarsa onorabilità, a prescindere da prova contraria, constatiamo che non era possibile agli apicultori di lavorare la cera e/o venderla nelle forme abituali o di farne candele.
La cera doveva essere conferita nei magazzini del barone che avrebbe ceduto, in gabella, la lavorazione e la successiva commercializzazione a Palermo.

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