domenica 27 novembre 2016

Storie di Sicilia. Dai malèfici alla scienza del terzo millennio

La giustizia nella Sicilia dei baroni.

Nella Sicilia della seconda metà del quattrocento (quando gli arbëreshe di Contessa furono accolti nei feudi dei Peralta-Cardona) il sistema giudiziario sapeva più di barbarico che di giuridicismo romano.

Una prammatica del 1474, preso atto che la gente non si rivolgeva alla giustizia ufficiale, rivolta  ai capitani di giustizia dispose  "di costringere le persone le quali hanno odio a far tregua per alcun tempo a loro ben visto, dummodo non sia meno di un anno". 

Da questo provvedimento vennero fuori i cosiddetti "contratti di tregua" o di pace che venivano giurati davanti ad un notaio tra le famiglie eminenti e le famiglie che da essa trovavano sostentamento. 
Contenuto centrale di questi "contratti"  era di "non offendersi e non testimoniare in giudizio ad invicem, anche se obbligati dal capitano di giustizia". 

I sudditi dei feudi cadevano facilmente in rovina da quel barbaro sistema che irretiva la povera gente con procedure e confische arbitrarie, per motivi futili. La povera gente sapendo del carcere preventivo -che durava fino a cinque anni- e della ferocia della tortura, anche se di condotta incensurata, preferiva rimanere contumace  e consentire che si producesse automaticamente la sentenza di bando e di forgiudica (da cui scaturiva la parziale o totale confisca dei beni).
Lo stato di contumacia inevitabilmente alimentava sul piano sociale infamia e vergogna sulla persona e sulla famiglia di questi.

I processi contro gli assenti si svolgevano con asprezza e con convinzione di colpevolezza. Tutto veniva rivolto verso la condanna a morte e la confisca definitiva dei beni. 

Il bando rendeva il forgiudicato infame; gli era interdetto l'uso del fuoco e dell'acqua e veniva dichiarato "nemico de paese". Chiunque era abilitato ad ucciderlo.
  

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