mercoledì 9 marzo 2016

Hanno detto ... ...

IL FATTO BESTIALE
"Volevamo uccidere qualcuno»
"Volevamo vedere l'effetto che fa". 
Così Manuel Foffo, il 30enne responsabile, insieme a Marco Prato, 29 anni, dell'omicidio di Luca Varani ha confessato quanto accaduto venerdì in un appartamento del quartiere Collatino di Roma. 
I due cercavano una vittima da immolare. Prato ha pensato di chiamare Luca Varani, che sapeva si prostituiva. Così lo hanno adescato con la promessa di 120 euro. 
"Ci siamo trasformati in animali".

ANTONIO SCURATI (Stampa 8.3.16), giornalsta
«Volevamo uccidere qualcuno…Volevamo vedere l’effetto che fa». Una voce chiama dal profondo, ma non è una voce umana. Qualcosa gratta alla porta di casa ma non è una mano. Forse un uncino, forse un artiglio. Nel terribile assassinio di Luca Varani, da qualunque lato si prenda, sembra non esserci nulla di umano. Più si svela, anzi, e più ci appare un abisso di disumanità. Due giovani uomini, belli, palestrati e narcisi, eterni studenti figli del privilegio, modaioli, festaioli, idiotizzati da quegli amplificatori del Sé che sono i social network, nel corso di un party a base di cocaina ed alcol protrattosi per 48 ore, giunti al punto più basso dell’ottenebramento più cieco, si mettono in auto e battono le strade del quartiere alla ricerca di qualcuno da uccidere. Così, tanto per vedere l’effetto che fa. In strada non lo trovano. Allora uno dei due brandisce lo smartphone come un’arma da taglio, chatta un po’ e pesca la vittima dall’agenda elettronica. L’agnello sacrificale si consegna da solo a domicilio bussando il campanello di un condominio borghese. Se ne ritroverà il cadavere nudo, disteso su di un letto, il corpo straziato, il cranio sfondato, la gola garrotata. 
Niente, non sembra esserci niente di umano.

MASSIMO RECALCATI (Repubblica 8.3.16), giornalista
Il crimine, anche quello più efferato, non è mai, come si potrebbe erroneamente credere, una regressione dell’umano alla ferocia primitiva dell’animale.
Nessuna bestia tende, come è appena accaduto a Roma, un agguato premeditato al fine di segregare, torturare, seviziare e, infine, ammazzare la sua vittima.
Nessuna bestia uccide per sapere cosa si prova ad uccidere. Nulla è, infatti, più tragicamente “umano” del crimine; non solo perché è solo l’esistenza della Legge (“Non uccidere!”) che definisce il carattere violentemente trasgressivo del crimine (non ci sarebbe crimine se non ci fosse Legge), ma, soprattutto, perché il crimine umano può rivelare il suo carattere assolutamente gratuito. Mentre la violenza animale si scatena sempre per una motivazione (foss’anche quella della pura rivalità, della contesa), la violenza umana può essere totalmente priva di motivazione. Certo, nella maggior parte dei casi i crimini sono compiuti per mero interesse: in una rapina per impossessarsi del bottino, in un atto terroristico per realizzare la vittoria della propria Causa ideale; in un delitto passionale per eliminare il proprio rivale o il proprio partner “infedele”. Esistono anche crimini che la criminologia rubrica come “immotivati” nei quali spesso si cela una malattia mentale grave: un paranoico può dichiarare di aver ucciso per “legittima difesa” una vittima innocente che ha solo il torto di essere casualmente sulla sua strada; un depresso può uccidere i suoi cari per trascinare tutto il mondo nella sua rovina.
Anche in questi casi, il crimine, per quanto abominevole sia, appare ispirato da una logica, dotato di senso. Diversamente,
nei crimini di natura perversa come quello compiuto dai due giovani romani ai danni di un ragazzo di 23 anni, non si uccide per un obbiettivo perché l’obbiettivo è in se stesso quello di uccidere. Nessuna Causa sostiene il passaggio all’atto criminale: Il loro solo obbiettivo è quello dell’esercizio del Male. È un tratto del nostro tempo: il crimine appare sempre più erratico, vacuo e dissociato dal senso.
Esso può avvenire senza il sostengo di alcuna Causa, proprio perché l’evaporazione di ogni Causa ha lasciato il soggetto di fronte ad un vuoto privo di senso che esige solamente di essere in qualunque modo riempito. Nessuna ragione, nessuna motivazione, nessuna passione, nessuna Causa, nessun delirio sostiene questo passaggio all’atto criminale. In primo piano c’è solamente uno sconfinamento dello “sballo” effimero (droga, alcool, party) verso la violenza sadica più spietata. La vita della vittima resta sospesa nelle mani dei suoi due aguzzini come un oggetto inerte piegato alla loro assoluta volontà di godimento. Si tratta di fare sprofondare il corpo martirizzato al rango di un oggetto spogliato di ogni libertà e ridotto, come direbbe Agamben, a “nuda vita”. Si tratta di scatenare l’angoscia più insopportabile nella vittima, di sopprimere ogni suo margine di autonomia, di esercitare sulla sua vita un possesso totale. È questo un modo di farsi padroni della Legge. È il cuore nero di ogni crimine perverso: negare i limiti imposti dalla Legge degli uomini nel nome della propria arbitraria volontà di godimento che diventa la sola forma possibile della Legge. Non c’è, infatti, per un perverso, nessuna ragione nel godimento che non sia il godimento stesso. Ogni trascendenza viene abolita e con essa ogni senso di compassione umana. Nella perversione il sentimento della pietas non può trovare alcun posto. Il godimento della pulsione di morte sommerge la scena del crimine senza lasciare resti. La caduta del senso dell’umano è caduta del senso della parola. Il ragionamento del perverso è lucidamente cinico: se il corpo è solo un corpo, ogni diritto a goderne sino alla sua morte è giustificato. Esso spinge così la gratuità dell’atto al suo colmo: «Lo abbiamo fatto solo per sapere cosa si prova ad uccidere», commenta uno dei due assassini il proprio crimine mostruoso.”"

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