lunedì 16 novembre 2015

Arbëresh. L'ultimo libro di Carmine Abate

LA REPUBBLICA












no quelli angolari — il suo mondo romanzesco arberesh, cioè degli albanesi di Calabria. Da un volume all'altro e con nomi diversi (Hora, Spillace, l'altura del Rossarco) ha edificato paesi, dipinto paesaggi e popolato case e strade fino a renderle abitabili da lettori di provenienze diverse, almeno da quando, nel 2012, ha conquistato la giuria popolare del Supercampiello, il test più attendibile dei gusti generali tra i premi italiani di prestigio. 
Tre anni dopo, non ha cambiato gli ingredienti: generazioni che si susseguono scandite dall'emigrazione e dai ritorni, storie di famiglia con padri innocentemente libertini e madri formidabili, tragedie in miniera, profumi di cucina e odori di miseria a tratti spazzati via dalla fragranza delle speranze che ogni emigrante respira. La novità è che il colorato Macondo calabro ( ma Abate ha sempre precisato sorridendo di aver letto Márquez solo dopo che qualche critico aveva azzardato il paragone) qui si apre a un mappamondo di luoghi, epoche e immaginari più ampi. In La felicità dell'attesa campeggia una giovanissima Marilyn Monroe, ancora Norma Jean, innamorata a Los Angeles del protagonista di mezzo (Jon, figlio di Carmine, e padre del Carmine io narrante che gioca a nascondino con l'autobiografia dello scrittore). 
Il Carmine dei giorni nostri va alla ricerca della verità sull'amore segreto del padre, incrociando per via la storia del nonno emigrato a New York a inizio secolo e il mistero di come è stato ucciso (non prima di essere tornato a Hora con una magnifica moglie quasi nera che diventerà una madre regina del paese ) per mano di due "micidianti", che a sua volta l'innamorato di Marilyn, ha inseguito per anni oltre oceano. La generazione successiva partirà per studiare e fotografare New York con gli smartphone. Il risultato di tanta trama e tanti viaggi ( aggiungiamo l'Australia meta di una sorella, e Berlino dove l'io narrante incontra la moglie) è un "prequel" della globalizzazione che la nostra epoca, come le altre prima di lei, si illude di vivere per prima nella Storia. Il mondo era già piccolo ben prima dei viaggi veloci, ci voleva solo più tempo e più fatica a percorrerlo, e in quel movimento rallentato cresceva la nostalgia. È messa efficacemente al servizio di questo sviluppo, inLa felicità dell'attesa, la cifra stilistica di Abate, il miscuglio di italiano medio, espressività dialettale ed espressioni . E ora.coerentemente, anche di americano, angloitaliano da migranti e qualche sprazzo di tedesco. Il gioco linguistico è nel dna di Abate: ha pubblicato in tedesco il primo libro di racconti e usa l'arberesh e il calabrese come spezie piccanti da Il ballo tondo (1991). Di Camilleri, che intanto ha insegnato a tutti il siciliano di Vigata, Abate potrebbe forse dire lo stesso che di Márquez. Ma sono entrambi esempi del paradosso che in molti romanzi abbiamo sotto gli occhi: il dialetto, lasciata la vita quotidiana, diventa ingrediente di una lingua letteraria letta da chi non lo ha mai parlato. 
Così la sua scomparsa è tra le poche profezie pasoliniane sbagliate. 

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