venerdì 15 maggio 2015

Uomini, fatti, eventi. Come li ricordiamo oggi

15 maggio

Era il 15 maggio 1891 quando venne pubblicata da Papa Leone XIII l’enciclica Rerum Novarum, che è considerata come l’elemento fondativo della dottrina sociale della Chiesa.


Sul finire del XIX secolo, erano avvenuti radicali mutamenti in campo politico, economico e sociale, ma anche in ambito scientifico e tecnico. 

Conseguenza di questi mutamenti era stata “la divisione della società in due classi separate da un abisso profondo”: tale situazione si intrecciava con l’accentuato mutamento di ordine politico. 
Così la teoria politica allora dominante cercava di promuovere, con leggi appropriate o, al contrario, con voluta assenza di qualsiasi intervento, la totale libertà economica. 

Nello stesso tempo, cominciava a sorgere in forma organizzata, e non poche volte violenta, un’altra concezione della proprietà e della vita economica, che implicava una nuova organizzazione politica e sociale.

Nel momento culminante di questa contrapposizione, quando ormai apparivano in piena luce la gravissima ingiustizia della realtà sociale, quale esisteva in molte parti, ed il pericolo di una rivoluzione favorita dalle concezioni allora chiamate “socialiste”, Leone XIII intervenne con l’enciclica, affrontando in modo organico la “questione operaia”.


Innanzitutto il Papa denuncia gli eccessi del capitalismo e condanna il liberismo economico perché privo di preoccupazioni morali in ambito economico.
Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, essere di estrema necessità venir senza indugio con opportuni provvedimenti in aiuto dei proletari che per la maggior parte si trovano indegnamente ridotti ad assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in lor vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che a poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice, che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile.

Nello stesso tempo però respinge tutte quelle teorie socialiste e collettivistiche che miravano all’abolizione della proprietà privata.
A rimedio di questi disordini, i Socialisti, attizzando nei poveri l’odio dei ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mano del Municipio o dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’uguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono radicalmente riparato il male. Ma questa via, non che risolvere la contesa, non fa che danneggiare gli stessi operai: ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale. Ed infatti non è difficile a capire, che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze, la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procacciarsi il necessario alla vita: e però col suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto non solo di esigere, ma di investire come vuole la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma e conseguentemente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come sa ognuno, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accomunare pertanto ogni proprietà particolare i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di rinvestire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una patente ingiustizia, giacché la proprietà privata è diritto di natura.

Per quanto riguarda il salario, il Papa prende duramente posizione contro la tradizione liberista che avrebbe voluto la sua determinazione lasciata al gioco della domanda e dell’offerta.
Tocchiamo ora un punto di grande importanza e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la parte sua, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia soltanto quando o il padrone non paga l’intero salario o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. [... ] Sia pur dunque che l’operaio e il padrone formino di comune consenso il patto, e soprattutto la quantità del salario; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non sia inferiore al sostentamento dell’operaio frugale, s’intende, e ben costumato. Se questi costretto dalla necessità, o per timore di peggio, accetta patti più duri, i quali perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volere o non volere, debbono essere accettati, questo è subire una violenza contro la quale la giustizia protesta.

Infine, Leone XIII condanna la lotta di classe ed esorta lavoratori e padroni alla collaborazione proponendo il modello corporativo come una possibile soluzione, nel contempo però riconosce la legittimità delle organizzazioni sindacali di soli operai e difende, contro l’individualismo liberale, il diritto di associazione come un diritto naturale che lo Stato non può conculcare perché «i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli». A questo proposito però, l’unica preoccupazione del papa è che i lavoratori cristiani non confluiscano in organizzazioni politiche e sindacali che uniscono in maniera arbitraria la tutela delle giuste rivendicazioni dei lavoratori a posizioni metafisiche atee.

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