Contessa e la Cultura del passato basata sulla "memorizzazione"
Oggi .....
Negli anni cinquanta/sessanta le persone in possesso di un
titolo di studio, a Contessa, erano meno di dieci (medico, pochi tecnici,
segretario comunale, pochi insegnanti, pochi sacerdoti).
Eppure Contessa era piena di persone istruite, acculturate, poeti
anzitutto, e poi artigiani sapienti che
erano padroni assoluti dell’uso appropriato
della lingua arbëreshë e, talora, dell’italiano.
Cultura non di
importazione (la tv era agli albori). Era una Cultura (usiamo a buona ragione
la “C” maiuscola) locale. Non era nemmeno la Cultura morta della tradizione, ma quella che sapeva dare senso e significato al vivere.
Si trattava di una Cultura popolare sempre in evoluzione.
Si trattava di una Cultura popolare sempre in evoluzione.
Come mai, se abbiamo premesso che mancavano i “titolati” e
pochissime persone avevano completato per intero il ciclo scolastico elementare
?
Il mondo “contadino” non necessitava né di libri, né di
lauree universitarie per essere fonte e realtà produttrice di “Cultura”. Questa infatti veniva nutrita
di “oralità mimetico-poetica” ed aveva come punti di riferimento essenziali
antichi poemi e carmi di poeti (in italiano, ma prevalentemente in arbëreshë).
Questi carmi erano considerati espressione di tutta la gamma del sapere
posseduto dalla comunità.
La Comunità locale fino alla seconda metà dell’Ottocento
non possedeva alcuna strada di collegamento carrozzabile né con i paesi
limitrofi, quale era Bisacquino, Sambuca etc. né -a maggior ragione- con Palermo la cui trazzera “impercorribile” risaliva al tracciato lasciato dai Greci (V –IV secolo a.C.).
I Carmi che gli anziani recitavano -e così facendo trasmettevano alle generazioni successive- costituivano “l’Enciclopedia comunitaria dei
contessioti”.
Si comprende alla luce di quanto abbiamo riportato la grande
autorità ed il rispetto di cui godevano allora gli anziani.
Il ricordo dei grandi uomini della cultura contadina è andata in gran parte ormai smarrito. Resta però ancora vivo il ricordo di Strolaku (Antonino Cuccia), contadino che conosceva a fondo i poemi antichi, sia quelli liturgici arbëreshë che quelli eroici.
Ancora oggi il
clero locale nelle processioni del periodo pasquale canta alcune strofe elaborate da lui sul significato della resurrezione.
Come facevano contadini, artigiani e persone che non
sapevano leggere a recitare dalla mattina alla sera nelle botteghe artigiane, lungo le
trazzere che conducevano nei campi, o nelle serate durante il riposo dalle
fatiche quando stavano seduti davanti le abitazioni ?
Quella era una cultura per “immagini”, annodata attorno a discorsi narrativi che avevano
come protagonisti personaggi, fatti ed eventi, presentati entro dimensioni
temporali, con riferimenti al passato, al presente e all’attesa del futuro.
La tecnica della comunicazione si basava sulla
memorizzazione dei versi poetici e sulla loro continua ripetizione a differenti
livelli.
Questo contesto implicava una partecipazione e addirittura
una identificazione emotiva del soggetto con i contenuti comunicati, quindi una loro imitazione e assimilazione e una sorta di identificazione del soggetto con l’oggetto, e viceversa.
Nei brani di Antonino Cuccia, strolaku, che ancora ci restano, c’è
tutta la sintassi della cultura dell’oralità mimetico-poetica, memorizzante e
ripetitiva, basata sulle immagini.
Questa cultura, che esisteva ancora, seppure al tramonto,
negli anni cinquanta/sessanta del Novecento, è stata soppiantata dalla “nuova
società” della scrittura diffusa e poi, almeno nella nostra zona, dal nuovo
modello di vita del post-terremoto che ha definitivamente eliminato ogni segno
della “civiltà contadina”.
Avrebbe dovuto seguire -con la “rivoluzione culturale della modernità”- una
nuova visione del mondo.
Ed invece no.
E’ sparita la Cultura che si basava
sulla memorizzazione e ad essa, nonostante l’istruzione universitaria diffusa e la scrittura
padroneggiata da tutti, non è subentrata alcuna nuova Cultura, alcuna nuova visione sulle cose del mondo e della vita.
Nei paesi all'interno dell'isola, nonostante la vicinanza alle strade a
scorrimento veloce (ossia l'apertura al mondo), nonostante la diffusione dei media regna l’assenza assoluta della Cultura, scambiata
(quando va bene) per le sagre o le notti bianche.
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