mercoledì 19 marzo 2014

Hanno detto ... ...

ALESSANDRA MUSSOLINI, deputata F.I.
"Non caccio da casa il padre dei miei figli"

MICAELA BIANCOFIORE, deputata F.I.
Parte della magistratura non è un arbitro, è un giocatore

FRANCESCO PIZZETTI, giurista
La situazione ad oggi: Renzi ed il governo accellerano; l'alta burocrazia si schiera in difesa; l'intero sistema si presenta in tensione; la classe dirigente complessiva è in allarme. Tutto come previsto: si va avanti.

L’avete notato? Ogni governo ha la sua parola chiave. Quando c’era Monti, la parola chiave era «salvare» (l’Italia). Con Letta era diventata «stabilità». Con Renzi e i suoi siamo passati a «rivoluzione». Poiché in passato si è fatto ben poco, e nessuno ha memoria di una vera rivoluzione, il mero fare qualcosa appare rivoluzionario. 

Non ho nulla contro l’uso della figura retorica dell’iperbole, e quindi non cercherò di sostituire alla parola rivoluzione parole meno eccitanti, tipo cambiamento, riforma, provvedimento. Parliamo pure di scelte rivoluzionarie, se questo può tirarci su il morale. Però almeno proviamo a fare qualche distinzione, perché dentro la rivoluzione in corso ci sono atti di portata molto diversa. Ci sono atti che hanno un valore simbolico altissimo e nessun effetto pratico, o addirittura effetti pratici negativi. E ci sono atti che lasciano indifferente il grande pubblico ma hanno una portata enorme, nel senso che possono cambiare radicalmente le condizioni di vita della gente. La mia impressione è che fra l’importanza di un atto e l’attenzione dell’opinione pubblica vi sia, tendenzialmente, una sorta di relazione inversa, per cui quel che colpisce l’immaginazione conta poco e quel che conta molto non colpisce l’immaginazione.  

Vediamo due esempi estremi. 

Mettere all’asta 100 auto blu è pura propaganda anti-casta. E lo resterebbe anche se ne venissero vendute 1.000 o 10.000. Non tanto perché il ricavato sarebbe comunque modestissimo, ma perché il vero costo delle auto di servizio sono gli autisti, e anche licenziandoli in blocco resterebbero da pagare taxi e corse di auto Ncc (Noleggio con conducente). Assumendo che le auto blu vendute siano 1.500 e non solo 100, e che da ciascuna si ricavino 5.000 euro (come suggerisce l’esperienza passata), il ricavato sarebbe di 7,5 milioni, una cifra assolutamente irrisoria (più o meno 1 millesimo dei risparmi di spesa ipotizzati da esponenti del governo per il 2014, pari a 7 miliardi). 

Passiamo al secondo esempio. Pagare alle imprese 68 miliardi di debiti della Pubblica Amministrazione, e farlo «entro luglio» (o anche entro il 21 settembre, come ora si sente dire) sarebbe effettivamente una misura di impatto enorme, una misura che cambierebbe le vite di molti. Perché se questi pagamenti avvenissero effettivamente e rapidamente molte meno fabbriche chiuderebbero, ci sarebbero più assunzioni, e le imprese superstiti sarebbero più competitive. Però ne parlano solo gli specialisti e i creditori, l’opinione pubblica si appassiona di più per le auto blu o per i 1000 euro in più in busta paga. A sentire i dibattiti di questi giorni, sembra che questi benedetti 10 miliardi in più per i lavoratori dipendenti siano una misura rivoluzionaria e senza precedenti, la mossa decisiva che può rilanciare i consumi e far ripartire la crescita.  

Ma bastano pochi calcoli per mostrare che la gerarchia di importanza fra queste due ultime misure, meno tasse e pagamento dei debiti, è tutta un’altra. Il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione rimette dentro i bilanci delle imprese 68 miliardi di euro, ossia circa 4 punti di Pil. Il saldo netto della manovra di politica economica di Renzi, nella più favorevole delle ipotesi, è dell’ordine di 6-7 miliardi di euro (circa 0,4 punti di Pil), e questo per la semplice ragione che le minori imposte (Irpef e Irap) sono compensate da maggiori tasse sul risparmio e da tagli alla spesa pubblica (la cosiddetta spending review). Detto brutalmente, il reddito disponibile dei lavoratori dipendenti beneficiati dalle riduzioni Irpef potrà anche crescere un po’, ma a fronte di questo incremento i risparmiatori pagheranno più tasse, e la Pubblica amministrazione dovrà ridurre acquisti e stipendi. Contrariamente a quanto molti sono portati a pensare, i 10 miliardi che il governo promette di «mettere in tasca» a una parte dei lavoratori non pioveranno dal cielo ma, ove si troveranno le coperture saranno sottratti ad altri usi, e ove tali coperture non verranno trovate andranno ad aumentare il deficit pubblico (di 3 miliardi, secondo le ultime dichiarazioni).  

Ed eccoci al punto: la «rivoluzione» è fatta di tasselli di impatto del tutto diverso. La vendita della auto blu entusiasma ma non sposta nulla: è mero solletico. La manovra complessiva di riduzione bilanciata di tasse e spesa pubblica piace, ma sposta poco: è una pacca sulle spalle. Il pagamento effettivo e tempestivo dei debiti della Pubblica Amministrazione non scalda i cuori ma può spostare molto: è un vero choc. Uno choc positivo che oggi può evitare la chiusura di migliaia di attività economiche, e ieri avrebbe potuto salvare centinaia di migliaia di posti di lavoro che ora non ci sono più. 

Ma esiste qualche possibilità che, entro il 21 settembre, la Pubblica Amministrazione faccia quel che Renzi promette? 

Penso non lo sappia nessuno. Anzi, penso che nessuno lo possa sapere: né Renzi, né Padoan, né Bassanini (che ha elaborato il piano di sblocco dei pagamenti). Perché l’esito di questa partita non dipende solo da come andrà il braccio di ferro fra la politica, che ora pretende il pagamento dei debiti, e la burocrazia, che ha sempre frenato. L’esito dipenderà anche dai mercati finanziari. I quali potrebbero apprezzare l’operazione, in quanto aumenta le prospettive di crescita dell’Italia, ma potrebbero anche osteggiarla (chiedendoci tassi più alti), in quanto essa equivale a una spesa non coperta da corrispondenti entrate. E questo indipendentemente dalle procedure di contabilizzazione del debito che la Ragioneria dello Stato e il ministero dell’Economia riuscissero a negoziare con l’Europa: l’esperienza passata dimostra che i vincoli della politica economica non sono solo quelli stabiliti dalle autorità europee (il famigerato 3%), e che il loro rispetto non è né necessario né sufficiente per evitare l’aggressione dei mercati.  

Dunque, a mio parere, il governo rischia. Rischia di non sbloccare i debiti perché gli apparati ministeriali si mettono di traverso, o perché le banche non collaborano, o perché l’Europa ci mette condizioni tropo severe. Ma rischia pure di riuscire a sbloccarli, e che a quel punto siano i mercati a sentire puzza di bruciato in un’operazione così imponente. In questa situazione, l’unica carta che l’Italia può giocare per proteggersi dal rischio di un nuovo aumento dello spread è accelerare le riforme strutturali (soprattutto in materia di giustizia civile, norme fiscali e mercato del lavoro), e rendere il più possibile credibili gli annunci sulle misure future. Il che vuol dire essenzialmente una cosa: prendere congedo dagli estenuanti riti della seconda Repubblica, che hanno imbrigliato tutti i governi che si sono succeduti dal 1994. Riti fatti di interminabili negoziati e mediazioni fra partiti, nel Parlamento, con le parti sociali, con gli apparati dei ministeri. Riti fatti di lungaggini abnormi nell’iter dei provvedimenti legislativi, in una selva di annunci, disegni di legge, emendamenti, deleghe, decreti attuativi, regolamenti.  

Da questo punto di vista il governo Renzi è una realtà ancora tutta da scoprire. Il suo decisionismo fa ben sperare, mentre la pioggia di annunci, quasi sempre privi di un supporto legislativo ben definito, fa temere che, alla fine, anche lui possa finire impigliato nella palude da cui voleva tirarci fuori.

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