Siate Seri. tutti
La sentenza della Cassazione chiude un lungo ciclo di storia italiana, iniziato quasi diciannove anni fa con un mandato di comparizione della Procura di Milano. Ieri la Corte suprema, le cui decisioni sono definitive, ha sancito la prima condanna senza appello di Silvio Berlusconi: egli deve dunque essere da oggi considerato colpevole del reato di frode fiscale, oltre ogni ragionevole dubbio. È per lui un colpo molto duro, come dimostra il turbamento del suo messaggio di ieri sera; ma lo è anche per l'Italia e per la sua immagine internazionale, perché l'imputato è stato per tre volte capo del governo, e per il tempo restante capo dell'opposizione. Il conflitto di interessi dell'imprenditore che si è fatto politico ha pagato così il suo prezzo più alto: è infatti il suo agire di imprenditore che è stato sanzionato dai giudici, nella convinzione che sia proseguito anche mentre sedeva a Palazzo Chigi. Se è certamente possibile sostenere che nei confronti di Berlusconi ci sia stato in questi diciannove anni un accanimento da parte degli inquirenti, da lui ieri nuovamente lamentato, questa sentenza ci dice che stavolta le accuse sono state provate, e che dunque non erano infondate.
La Suprema corte ha però rinviato a Milano, per una nuova deliberazione in Appello, il calcolo degli anni di interdizione dai pubblici uffici. E questa decisione, seppure presa in punto di diritto, apre un dibattito in Parlamento chiamato a decidere della decadenza dal Senato del leader di uno dei partiti che sostengono il governo Letta. Per Berlusconi non cambia molto, perché l'interdizione comunque arriverà. Ma per l'Italia qualcosa cambia.
La Suprema corte ha però rinviato a Milano, per una nuova deliberazione in Appello, il calcolo degli anni di interdizione dai pubblici uffici. E questa decisione, seppure presa in punto di diritto, apre un dibattito in Parlamento chiamato a decidere della decadenza dal Senato del leader di uno dei partiti che sostengono il governo Letta. Per Berlusconi non cambia molto, perché l'interdizione comunque arriverà. Ma per l'Italia qualcosa cambia.
Se si escludono infatti le due troppo forti minoranze che si sono aspramente fronteggiate in questo ventennio (rendendo il Paese «aspramente diviso e impotente a riformarsi», come ha detto ieri Napolitano), la grande maggioranza degli italiani (e i mercati, e il resto d'Europa) guardano a queste vicende giudiziarie con un solo metro di giudizio: quanta instabilità porteranno, quanta influenza avranno sul governo, quali conseguenze produrranno sullo sforzo collettivo che stiamo facendo per tornare con la testa fuori dall'acqua, dopo anni di crisi durissima.
La condanna di Berlusconi non può essere certo considerata un fatto «privato». È anzi un fatto pubblico e politico al massimo livello. Produrrà dunque certamente conseguenze politiche. Per esempio metterà il Pdl di fronte alla realtà di una leadership menomata, impedita o agli arresti domiciliari, aizzando quelli che non aspettavano altro per rinchiudersi nel bunker e dare l'ultima battaglia e forse allontanando, invece di avvicinare, il tema della successione.
Per esempio obbligherà il Pd a fronteggiare un nuovo attacco del partito giustizialista, il quale pretende che sia Epifani a rendere esecutiva la sentenza aprendo una crisi di governo. Ma proprio chi ha strillato, da un lato e dall'altro, che la giustizia deve essere indipendente dalla politica e viceversa, dovrebbe oggi dimostrare coerenza accettando il principio della separazione dei poteri, l'invenzione su cui si basa lo Stato di diritto. Non sarà affatto facile. La sorte del governo resta precaria. L'unico modo di ammortizzare il colpo micidiale subìto ieri dal sistema politico italiano sarebbe quello di seguire l'invito rivoltogli dal capo dello Stato ad accettare la realtà, a tracciare una linea nella sabbia, a mettere un punto a capo e ripartire, anche affrontando finalmente il grande problema dell'amministrazione della giustizia. D'altra parte chi propone soluzioni diverse avrebbe il dovere di spiegare anche che cosa ci si guadagnerebbe a ricominciare oggi da dove partimmo 19 anni fa. Avrebbe il dovere di spiegare a chi e a che cosa servirebbe una crisi di governo.
La condanna di Berlusconi non può essere certo considerata un fatto «privato». È anzi un fatto pubblico e politico al massimo livello. Produrrà dunque certamente conseguenze politiche. Per esempio metterà il Pdl di fronte alla realtà di una leadership menomata, impedita o agli arresti domiciliari, aizzando quelli che non aspettavano altro per rinchiudersi nel bunker e dare l'ultima battaglia e forse allontanando, invece di avvicinare, il tema della successione.
Per esempio obbligherà il Pd a fronteggiare un nuovo attacco del partito giustizialista, il quale pretende che sia Epifani a rendere esecutiva la sentenza aprendo una crisi di governo. Ma proprio chi ha strillato, da un lato e dall'altro, che la giustizia deve essere indipendente dalla politica e viceversa, dovrebbe oggi dimostrare coerenza accettando il principio della separazione dei poteri, l'invenzione su cui si basa lo Stato di diritto. Non sarà affatto facile. La sorte del governo resta precaria. L'unico modo di ammortizzare il colpo micidiale subìto ieri dal sistema politico italiano sarebbe quello di seguire l'invito rivoltogli dal capo dello Stato ad accettare la realtà, a tracciare una linea nella sabbia, a mettere un punto a capo e ripartire, anche affrontando finalmente il grande problema dell'amministrazione della giustizia. D'altra parte chi propone soluzioni diverse avrebbe il dovere di spiegare anche che cosa ci si guadagnerebbe a ricominciare oggi da dove partimmo 19 anni fa. Avrebbe il dovere di spiegare a chi e a che cosa servirebbe una crisi di governo.
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