Negli ultimi anni abbiamo registrato nel nostro Paese, in Italia, un enorme incremento della popolazione straniera. La stessa popolazione carceraria, detenuta, oggi rappresenta un cambiamento radicale della situazione penitenziaria.
Se non interverranno radicali cambiamenti di politica istituzionale e sociale, nel prossimo futuro si potranno avere difficoltà nelle istituzioni penitenziarie, su cui oggi pongono attenzione, nel disinteresse generale, solamente i radicali di Marco Pannella.
La difficoltà di vivere la convivenza in contesti multiculturali è diventata oramai un processo difficile dove si scontrano culture segnate dal bisogno e dove il bisogno di "proteggersi" dall'estraneo consuma ansie di commistioni e di presenze che turbano gli equilibri faticosamente composti e mantenuti nel tempo.
La paura di perdere la propria identità sociale genera meccanismi di difesa e talora atteggiamenti di intolleranza tipici della sindrome del rigetto.
Ad Oriente e ad Occidente si vive nell'insicurezza e nell'angoscia, nella paura della diversità dell'altro. L'insicurezza e la paura per la diversità dell'altro ci porta quindi a sviluppare alcuni meccanismi di difesa che spesso sfociano nell'incapacità a comunicare.
La presenza degli stranieri nelle carceri è costituita in maggioranza da individui che hanno violato la legge penale ma che sono anelli ultimi di una lunga catena di irregolarità. Infatti non vi sono in carcere extracomunitari o irregolari per il fatto di essere clandestini, ma persone "addestrate" da scaltri connazionali o da sfruttatori di uomini di razze e paesi diversi.
Di fatto, la violazione delle norme che regolano l'immigrazione non dà luogo a reato e ad incarcerazione. Gli irregolari in base alla normativa vigente vengono espulsi se si ignora la loro identità. Il problema nasce quando all'interno del carcere non valgono le stesse regole che dovrebbero valere per tutti i cittadini.
Gli stranieri detenuti in Italia subiscono varie discriminazioni proprio a causa dell'assenza, in molti istituti, di personale specializzato nella lingua del Paese di provenienza del detenuto. Lo "straniero" detenuto ha difficoltà a svolgere colloqui di primo ingresso con gli educatori, con l'ufficio matricola, con gli psicologi, con gli operatori culturali e penitenziari addetti alla qualità della vita in istituto e alla proiezione all'esterno del soggetto. Inoltre, gli arrestati e i condannati spesso, per motivi economici non possono quasi mai assicurarsi il difensore di fiducia e quindi devono tentare di ricorrere ai difensori d'ufficio sempre che sia possibile certificare la loro identità, il livello di reddito ed il loro Paese di provenienza.
A parità di condanna con gli italiani la loro permanenza in carcere è severamente più lunga non potendo essi disporre di un domicilio certificato ove potere svolgere gli arresti domiciliari e/o la detenzione domiciliare o le misure alternative alla detenzione.
Già dal 2000 è prevista la presenza stabile in Istituto del mediatore culturale e del traduttore. Figure che dovrebbero intervenire nella lingua d'origine dello straniero detenuto presso i Consolati, le ambasciate e presso i nostri Tribunali per appurare l'identità del soggetto, per verificare il Paese di provenienza e per consentire la civile convivenza dentro e fuori dell'Istituto. Una detenuta qualche tempo fa ha scritto ad un operatore sociale: " non mi importa se non posso dire al dottore quanto sto male, ho bisogno di parlare la mia lingua".
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