domenica 6 marzo 2011

150° dell'Unità d'Italia nella Sicilia degli affamati

da La Repubblica
Il 1868 fu un anno complicato per il giovane Stato italiano. Anno di miseria e malcontento, col bisogno di trovare soldi a ogni costo, perché il deficit delle casse statali era diventato un voragine. Fu così che il pensiero degli uomini di governo s'aggrappò a un' imposta che garantiva entrate sicure, anche se bastava il nome per evocare ingiustizie: era la tassa sul macinato, promulgata l' 8 luglio ma diventata operativa il 1° gennaio del 1869.
Una tassa da pagare direttamente al mugnaio, che provocò moti nel Veronese da dove si diffusero nel resto del Veneto e poi in Lombardia, in Piemonte ed Emilia. In Sicilia, nonostante la povertà e lo scontento, non ci furono moti. E pare strano questo silenzio nel momento in cui la protesta diventa diffusa: ma è proprio questa assenza a darci in senso della storia siciliana di quel periodo. La Sicilia era insorta appena due anni prima: a Palermo una rivolta confusa e rimasta senza guida politica aveva lasciato strascichi di risentimento e lutti. C'erano continui allarmi, l' isola era uno dei centri della propaganda repubblicana e le voci di prossime insurrezioni erano continue: ai repubblicani si aggiungevano i borbonico-clericali che si definivano regionisti e i tanti comunque scontenti, tutti accomunati nell' avversione per il nuovo Regno. Innumerevoli focolai di rivolta erano pronti a divampare alla prima occasione, si ripetevano degli episodi minimi che davano una sensazione di instabilità pericolosa, sul punto di trasformarsi in aperta ribellione: come quando, il 21 ottobre del 1867, una bandiera rossa venne inalberata sul Monte Pellegrino, in modo da essere visibile da tutta la città e produrre i doverosi allarmi.
La provincia di Palermo era la più turbolenta, né le sue condizioni erano migliorate con lo stato d'assedio seguito alla rivolta del settembre '66. Sciolte le corporazioni religiose, ancora una volta la città subiva il contraccolpo di decisioni che ne colpivano la fragilissima economia e, del tutto dimenticati gli entusiasmi annessionistici, ogni colpa veniva gettata addosso al nuovo Stato. Anche il colera. Che era ricomparso con lo sbarco dell' esercito arrivato a reprimere la rivolta, e si era diffuso senza incontrare ostacoli. Le prime vittime furono nella zona del porto. Poi, a quella che uno storico moderato come Francesco Brancato definisce «la mente esaltata e sbigottita della popolazione» sembrò che il morbo avanzasse assieme alle truppe e riprese vigore una diceria antica, che già troviamo nell' epidemia colerica del 1837: il sospetto era che fossero le autorità a diffondere il contagio, allora i Borbone e adesso i Savoia. Sino all'agosto 1867 - quando i casi diminuirono - i morti furono 52.990: abbastanza da far passare in secondo piano ogni passione politica e interessarsi solo alla propria sopravvivenza. Famiglie intere emigrarono in cerca di salvezza, almeno fra quelli che se lo potevano permettere: gli altri rimasero in preda alla paura, che certo non rende ragionevoli. A Messina fu demolito il gasometro, nella convinzione che il governo volesse diffondere la morte coi tubi del gas per arricchirsi con le imposte di successione. A Catania e Girgenti ci furono degli episodi di caccia all'untore. In alcuni centri la giunta municipale stese un improvvisato cordone sanitario verso chiunque provenisse da altri paesi, imponendo una quarantena di cinque giorni a uomini e merci: fu la paralisi di ogni commercio, per i più poveri fu un disastro. In una lettera del gennaio 1867, da Siracusa, Tito De Amicis scriveva: «Il pane è carissimo. Manca assolutamente il lavoro~ non ho esagerato dicendo che il proletariato ha fame, si vuole che a Scicli taluni siano morti d'inedia». A Palermo, il governo assegnò al municipio 25 mila lire da dividere fra i «colerosi poveri», furono organizzate distribuzioni di viveri, medicinali e indumenti: ma la convinzione che gli agenti governativi fossero interessati soprattutto a spargere il contagio era difficile da estirpare, e con chiarezza mostrava come fra il popolo siciliano e le «autorità» il solco non s'era colmato. Non importava che i Savoia avessero sostituito il vecchio re di Napoli, i siciliani continuavano a sentirsi estranei.   Erano diffidenti, non si ritenevano parte del nuovo Stato che pure avevano voluto con tanto apparente entusiasmo. Il 16 maggio del '67 arrivò a Palermo una Commissione d' inchiesta incaricata di indagare sulle condizioni di una città dove - per adoperare le parole del procuratore generale Giuseppe Borsani - la rivoluzione appariva «assediata, non vinta»: rimase pochi giorni, rapidamente visitò la provincia e il 1° giugno si affrettò a tornare a Firenze. Al ministro Rattazzi che giudicava «sconosciute e inesplicabili» le cause del malcontento siciliano, la Commissione consigliava di costruire opere pubbliche, scuole, strade: le critiche condizioni della sicurezza dipendevano dal mancato sentimento di fiducia nelle istituzioni, era indispensabile provare a crearlo. E con la missione di cambiare la mentalità dei siciliani venne nominato il nuovo prefetto di Palermo, Giacomo Medici. Che era anche comandante delle truppe di stanza in Sicilia, cumulando quindi un doppio incarico più da viceré che da funzionario di uno Stato liberale. Medici fa il suo trionfale ingresso a Palermo il 28 giugno 1868. Il suo incarico ha suscitato molte attese, tutti gli occhi sono su di lui. L'8 luglio, data della promulgazione della legge sul macinato, i giornali cittadini riportano il proclama di insediamento dove il neoprefetto alterna benevolenza e fiero cipiglio: intende fare di tutto per dotare l' isola di strade, scuole e ferrovie. Ma garantire la pubblica sicurezza è suo compito primario e «io sono deciso a rimuovere qualunque ostacolo che si frapponesse ai veri bisogni di questa provincia». Il prefetto è un uomo d'azione che conosce la Sicilia e ha combattuto con Garibaldi, è deciso a fare il possibile per risolvere l' emergenza. Il 9 luglio le sue pressioni sul governo ottengono un primo risultato, il progetto delle ferrovie calabro-sicule viene inserito fra i provvedimenti urgenti da votare prima della chiusura estiva del Parlamento. Il 10 vengono inaugurati i ricevimenti che Medici ha deciso di tenere ogni giovedì, con «numerosi ed eletti invitati». Il 13, altro proclama: per soddisfare la generale aspirazione a sviluppare «l' intrinseca ricchezza» a cui la Sicilia si sente predestinata, il prefetto farà diventare operativi i progetti sulla rete stradale. Quanto all'imposta sul macinato a cui la Sicilia non s'era ribellata, bisognava forse ricordare che per i siciliani il pane era sempre stato gravato da imposizioni legali e speculazioni appena camuffate, dove la fame del popolo faceva alzare i prezzi e crescere i guadagni: quindi era la benvenuta. Speculazioni grandi e piccole, dei trafficanti ma anche dei mugnai, i quali profittavano delle emergenze legate a un cattivo raccolto o alla siccità alzando «del doppio, del triplo e anche del quadruplo il prezzo della macinatura», come si legge in un indignato rapporto del 1866 al ministro Ricasoli. Il 9 marzo del 1869 il prefetto Medici poteva ufficialmente comunicare che la tassa era stata applicata in tutta la provincia senza suscitare «la menoma opposizione». Solo a Borgetto nel luglio del '68 c' erano stati dei disordini, quando i tre mulini comunali erano diventati di proprietà privata e i mugnai avevano rialzato i prezzi con stile predatorio: allora il prefetto aveva chiesto aiuto al Ministero, grano e farina per spezzare il loro piccolo monopolio. La tassa sul macinato era in fondo poca cosa, a cui si ribellavano le regioni poco abituate agli ingiusti balzelli. Ma nel 1868 una reazione così lineare era improbabile che si verificasse in Sicilia, dove ben più gravi erano i quotidiani soprusi a cui era abituato il popolo.
AMELIA CRISANTINO

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