giovedì 30 dicembre 2010

1948. La miseria attanaglia le zone interne della Sicilia


La Stampa 03-12-1948
L'arsa terra dei feudi che non dà fiore nè frutto
 L'arsa terra dei feudi che non dà fiore nè frutto. Qui ci si fa un'idea di quello che poteva essere l'Italia nel secolo quinto o settimo (Dal nostro inviato speciale) CATANIA, dicembre.
Le nove ore di treno fra Palermo e Catania bastano, senza bisogno di altre informazioni, a dare un'immagine concreta della Sicilia più remota, quella che fa parlare di sé nei drammi della vita sociale. Lungo la fascia costiera, l'impressione è d'una fatica cui sorride il cielo. E' sempre presente in Sicilia una doppia immagine della vita: la fatica degli uomini diligenti, accanita, primitiva; e poi il cielo, l'aria, il mare, fantastici, prodighi, felici. Ma anche in questo c'è un'immobilità, qualcosa di irreale, come se si vivesse in un'altra realtà, in un'antichità assurdamente presente. Anche le industrie che sono assai frequenti lungo la costa, e là dove sorsero le città greche, nei porti sempre favorevoli, acquistano un senso che non è di oggi ma di una antica industriosità e diligenza.
Fumaioli, capannoni, banchine, tutto questo è moderno; ma la merce è sempre quella,materiali da costruitone, olio, vino, sale.
Paesi sulla costa
La più recente riforma sostanziale dell'assetto delle terre in Sicilia è quella del 1860, cioè dell'avvento unitario. Le enfiteusi e i duecentotrentamila ettari di beni ecclesiastici censuati e passati alla proprietà contadina (un decimo dell'intera area agricola) formarono quella zona costiera di piccoli proprietari, fra le più rigogliose del mondo. I tarchiati paesi sui porti, come Termini Imerese, si stesero sui poggi con quell'abitato siciliano in cui non si trova il capriccio di architettura e di fantasia della Puglia, ma grave e largo, mercantile, e che da un senso pratico e necessario al paese siciliano, lasciando tutto l'estro alla natura. Internandosi a dieci chilometri dalla costa, è come se si capitasse in un altro paese. E' un altopiano compatto, per gran parte dell'anno colore della terra nuda tra fulva e rossiccia, senza un albero, con rare abitazioni sparse che poi si scoprono per rifugi; con macchie di verde intenso attorno, che poi si scoprono per folti, siepi, violi di fichidindia, simulanti veri viali, frutteti, giardini. E non un albero. Tutto è colore della terra, colore del pane, colore della pietra. Qua e là in una crepa, un torrente rompe la compattezza detta terra. E silenzio ininterrotto. Lontano, sui poggi «sui monti, che appena si distinguono dalla sassaia delle cime, o su vere fortezze naturali, i paesi e le città. Scarsi gli animali, per lo più muli e asini aggiogati all'aratro primitivo. Sulla strada nazionale che segue il fondo della valle, che si attorciglia ai colli e ai monti fino all'altezza della rocca di Enna, un uomo a cavallo evoca una vecchia immagine solitaria e avventurosa, e un'auto, la sola che abbiamo visto in tante ore, pare un grosso coleottero. Questa è la zona dei feudi, che si stende fino ai margini dell'Etna, ad Agrigento, a Trapani, a Gela, a Ragusa. Dopo avere attraversato la costa prodiga di tutto, si può immaginare che qui c'è soltanto il pane e che tutta la lotta è per il pane su una terra frusta. Scarsi animali, scarsi frutti, scarse verdure, scarso latte, niente legna. Quando si sente parlare di feudo in Sicilia, il nome stesso di Sicilia evoca migliaia di ettari traboccanti ricchezza. E non è. La trasformazione in terre prospere, irrigue, con culture preziose come altrove nell'isola, o con culture necessarie oltre il pane, è un problema immane, e non dovunque darebbe i medesimi frutti. I testi antichi parlano di questa terra ignuda come di un prodigio di vegetazione. Sono passati troppi secoli.
La terra, come la civiltà, degli uomini, incustodita può rimbarbarire irreparabilmente.
II numero dei proprietari
Sono tre i proprietari dai cinquemila ai semita èttari in Sicilia; sono centoquarantasei dai mille ai duemila; trentanove dai duemila ai tremila.
Per chi ama, le cifre: in Sicilia il novanta per cento della proprietà non supera i due ettari.
I proprietari fino ai venticinque ettari sono circa sessantun mila; trecentoventisei dai venticinque ai cento ettari; centodiciotto dai cento ai duecento; ottantasette dai duecento ai cinquecento; trentaquattro dai cinquecento ai mille. Anche a duecento ettari le terre assumono aspetti di latifondo, coltivate solamente a cereali, aride e desertiche.
Il latifondo da secoli è affidato dai proprietari, a imprenditori capitalisti (gabettotti) e da questi subaffittato in lotti, a contratto annuo dietro canone di grano, ai terraggieri, i quali li cedono a compartecipazione ai metatieri. A loro volta questi subaffittano, e al contadino arriva uno spezzone di terra gravato da una piramide di tributi. S'immagini la sorte del bracciante. Ci sono mercati notturni di braccianti che aspestano l'alba e il lavoro. Si ingaggiano tastandone i muscoli. I salari sono i più bassi di tutt'Italia. La decadenza di terreni dati cosi alla maledetta, è la etessa dei terreni demaniali dati in fitto nel Mezzogiorno a questo a quei contadino che vi semina il suo sacchetto di grano e vi pianta appena un palo forcuto per appendervi la giacca e l'orcio dell'acqua.
 Sembra che la terra qui appartenga a un'altra epoca da quella della costa. La solitudine, il silenzio, i rari uomini, i viandanti a cavallo, i contadini in viaggio da due o tre oro per raggiungere una terra ottenuta a caro prezzo, le stazioni isolate senza mai una traccia di abitato, sono ancora d'un tempo senza difesa e che teme da sempre. Chi si fa potente è qui arbitro della vita altrui.
Muoversi per reclamare un diritto può costare la vita, come è costata a trentasei sindacalisti. Se volessimo farci una idea, una immagine di quello che poteva essere l'Italia nel secolo quinto o settimo, fisicamente e socialmente, l'immagine è questa. E' raro qui perfino l'albero di fico, il fico amico, povero e storto, che ricorda la sua dolcezza nei luoghi più aspri e più soli dell'Italia meridionale. Cani e immondizie
Alle stazioni solitarie, e molte senza luce elettrica, con la lampada a petrolio dell'infanzia delle ferrovie, qualche raro passeggero col suo paniere e il suo fagotto, e si capisce che cosa possano portare: frutta, legumi, verdura, e non certo da qui attorno, ma da molto lontano, forse dalla sponda felice dove le cannucce segnano il limite dell'orto fin sulla rena della spiaggia, contro l'onda del mare che è ancora buono e la lambisce appena. Ma c'è un'altra presenza, e ancora più impressionante dell'uomo pellegrino. In alcune di queste stazioni, arrivato non si sa di dove, ma puntuale con l'orarlo del passaggio del treno, c'è il cane povero. Non si immagina che un cane vada lungo tutto il treno, sul marciapiede voltandosi a tratti come se qualcuno lo avesse chiamato, ma non petulante, ma rassegnato; un povero che sa improbabile la elemosina. Si ferma in fondo dove è un mucchio di immondizie e vi fruga con disgusto. Anche un cane può essere disgustato. Poi rifarà la strada. E' una cagna, ora vedo bene.
 Come era una cagna all'altra stazione. Ha le mammelle livide. Allatta, certo. E' brutto, guardando una cagna, di pensare a un essere umano. In una di queste stazioni, un uomo è sceso a precipizio dal treno, s'è fermato presso la cagna al mucchio delle immondizie, e le ha buttato vergognoso un pezzo di pane. La bestia lo ha guardato un istante. E' un forestiero, imbarazzato e turbato come davanti a un troppo povero per essere capace di vergogna o di riconoscenza. Ma capace di guardare con occhi che quasi parlano.
L'uomo certo si vergognava di più, fino a quando la voce d'un passante lo confuse del tutto: "Diamo da mangiare ai cani. Allora va bene". Queste cagne con le mammelle smunte svoltano laggiù verso l'uscita, sentendo che il treno si avvia.
 ' Corrado Alvaro

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