Tra le vittime dell’attuale crisi economica c’è il “mito del progresso”. Prima della crisi era tutto più semplice: un paese si giudicava in base a quanto aumentava il suo Pil in un anno. Adesso in gran parte del mondo, in quello definito più avanzato, il Prodotto Interno Lordo non cresce più e i governi si interrogano su cosa fare per migliorare la qualità della vita, pur in presenza di un arretramento (o di una mancata crescita della ricchezza complessiva di ciascun paese).
In passato la fiducia nel Progresso era divenuta una divinità certa. Il Progresso era il mito del socialismo democratico, che seppure nato a fine ottocento su presupposti marxiani era stato quasi subito attratto nell’orbita del positivismo, secondo cui tutto è destinato a crescere, accrescere, migliorare in ogni campo, dalla Scienza, all’Economia, alla situazione sociale e relazionale dell’uomo e della società. Lo Stato ha il dovere di ordinare, programmare e assecondare le forze naturali della società che, così guidate, creano condizioni sempre più soddisfacenti per tutte le categorie della società. Proprio la fiducia nel Progresso della società, il cui governo si conquista con i voti elettorali, ha distinto, storicamente, il Socialismo democratico dal Comunismo che il progresso lo vedeva solo come destino glorioso di una classe a discapito di tutte le altre, a cui il governo poteva essere sottratto con la rivoluzione.
La recente crisi, nata nel mondo della finanza, ha assestato un colpo pesante nella fiducia sul “Sol dell’Avvenire”; il Progresso in tutte le sue sfaccettature economiche-sociali-culturali, nei paesi avanzati pare sia scomparso di scena. Le conseguenze si colgono sullo stato di benessere decrescente dei ceti medi, di diseguaglianze sempre più accentuate fra le categorie della società, ma anche nelle difficoltà che in tutta Europa hanno i partiti di ispirazione socialista e di sinistra. Il presupposto della crescita graduale socio-economica della società si è bloccato e la politica del socialismo democratico di programmare, intervenire al fine di redistribuire la spesa pubblica ed i redditi, si è inceppata, con l’ovvia sostituzione nella guida dei governi di quasi tutti i paesi europei con forze politiche ‘conservatrici’, meno sensibili a migliorare il benessere generale e più propense a gestire il presente.
Una cosa è certa, lo si legge in un recente libro “La misura dell’anima” ed. Feltrinelli scritto da due inglesi, Richard Wilkinson e Kate Pickett, il tendenziale accrescimento delle diseguaglianze (chi è ricco diventa sempre più ricco e chi è povero sempre più povero) che caratterizza l’attuale momento storico, crea infelicità perché chi sta in fondo alla scala sociale vorrebbe salire se non in cima almeno nella fascia centrale, e se non ci riesce si irrita e si consegna ai succedanei, dagli psicofarmaci alla violenza.
La Felicità, oltre che uno stato interiore conseguibile per vie culturali, religiose, filosofiche, è anche un insieme di parametri oggettivi del contesto in cui viviamo e su cui lo Stato, il Governo, le Autorità di ogni livello, hanno il potere, e quindi il dovere, di intervenire. Noi, individualmente presi, con i nostri amministratori, con i nostri governanti, siamo responsabili della strada che la società persegue: puntare a potenziare quella che prima veniva chiamata la “classe media” o fare arricchire chi già ricco lo è ?
Sbaglia chi pensa che disinteressandosi della vita pubblica non influisca sul proprio avvenire. Saranno gli altri a determinare l’avvenire di tutti.
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