LAUREE E SALOTTI BUONI: l'aristocrazia che sa di Gattopardo
di Peter Gomez (ripreso da Il Fatto Quotidiano del 24-03-2010)
Adesso che è in carcere tutti gridano all'insospettabile. Giuseppe Liga, l'architetto di Cosa Nostra, diventa all'improvviso un corpo estraneo, un caso, un qualcosa che non può far parte di quella Palermo elegante e borghese da anni, a parole, schierata contro la mafia, ma in realtà da sempre tra mafia e antimafia. Si, perchè chi non vuole fermarsi alle cronache delle tv e dei giornali del nord sa benissimo che la storia di Liga -il leader del Movimento cristiano lavoratori diventato, secondo l'accusa, capo della famiglia mafiosa di Tommaso Natale- non è una eccezione. E' la regola. O quasi. A partire dal 1994 in Sicilia gli arresti di boss laureati, o comunque dotati di dichiarazioni dei redditi (ufficiali) da decine e decine di migliaia di euro, si sono moltiplicati. Uno dopo l'altro sono finiti dietro le sbarre, e in molti casio sono stati condannati, avvocati, medici, notai, politici. Prendete per esempio Raffaele Bevilacqua il capo della commissione mafiosa della provincia di Enna. Negli anni '80 e nei primi anni '90 era un giovane e brillante legale eletto in consiglio provinciale nelle file della Democrazia Cristiana. Dopo le stragi finisce in manette per la prima volta. Resta in carcere per quasi due lustri e intanto in Cosa Nostra fa carriera. Quando esce, eccolo entrare alle 13:45 del 19 dicembre 2001 in un hotel di Pergusa dove gli uomini della Squadra Mobile di Caltanissetta hanno piazzato microspie e microcamere nella speranza di immortalare una gang solita taglieggiare i commercianti. E invece Bevilacqua, accompagnato da due guardaspalle, si dirige verso un uomo dalla faccia larga e simpatica che lo accoglie a braccia aperte. E' Mirello Crisafulli, lo storico leader dei Ds di Enna, oggi promosso senatore del Pd. I due si sorridono e si baciano (se lo avesse raccontato un pentito non ci avrebbe creduto nessuno). Poi discutono a lungo di lavori e di appalti. Il mafioso chiede, il politico lo invita con forza a stare al suo posto ("fatti i cazzi tuoi" dice a un certo punto Mirello). Per la gioia dei sociologi il colloquio (ritenuto dalla magistratura esecrabile sotto il profilo morale, ma poco rilevante da quello penale) lascia aperto un interrogativo: chi comanda su chi ? Comanda la mafia o la politica ? In attesa della risposta restano i dati di cronaca. Bevilacqua, dopo poco, viene ri-arrestato, questa volta per omicidio. Crisafulli invece entra in orbita tanto da approdare su uno scranno di Palazzo Madama. No, il concetto di disapprovazione sociale trova ben poca cittadinanza nelle regioni del sud. Per le classi dirigenti, inciampare in accuse di mafia, frequentare abitualmente uomini d'onore o, persino, esserlo, è poco più che un accidente. Come, per i contadini, lo è la siccità o la grandine. Scriveva Manfredi Borsellino, il figlio di Paolo, dopo il coinvolgimento in un'indagine per riciclaggio di un sacerdote che presiedeva un centro intitolato alla memoria di suo padre "Non bisogna avere paura, soprattutto in questa città, di non intrattenere rapporti con uomini di potere, con persone importanti o denarosi, poichè è agli occhi di tutti che la c.d. Palermo bene, la Palermo dei circoli, la Palermo dei salotti buoni, è inquinata, e lo è da tempo, da quando gli stessi rappresentanti delle istituzioni frequentavano, e purtroppo frequentano tuttora, persone sospette, chiacchierate o addirittura già destinatarie d'inchieste giudiziarie". Era il 2002. Nelle ville barocche dell'aristocrazia palermitana, come nella sede di Forza Italia, si alzavano le spalle quando qualcuno osava sussurrare che forse non era il caso di avere troppo a che fare con l'elegantissimo radiologo, Giovanni Mercadante, visto che era finito più volte sotto inchiesta ed era cugino di Tommaso Cannella, il boss di Prizzi, legatissimo a Bernardo Provenzano. Mercadante, però, era un deputato regionale, Come si faceva ad ignorarlo ? Già, ignorarlo forse no. Ma almeno, quando nel 2006 finisce in manette perchè incastrato dalle intercettazioni dei suoi colloqui con boss di ogni ordine e grado (tra cui il medico di Totò Riina, Antonio Cinà), si poteva evitare di andare a trovarlo in carcere. E invece gli onorevoli di centrodestra che fanno la fila per incontrarlo si moltiplicano. Basilio Germanà, Stefania Craxi, Innocenzo Leontini, Mario Ferrara, e persino l'enfant prodige della politica siciliana, il futuro ministro della Giustizia, Angelino Alfano, vanno a processione dall'amico. Poi tutti fuori, come sempre a commemorare affranti i martiri e i caduti per mano mafiosa. C'è poco da sorprendersi, insomma, se la Confindustria italiana viene pubblicamente elogiata, ma privatamente guardata con sospetto, quando decide di espellere non solo i collusi, ma anche chi paga il pizzo (imprenditori cioè che, codice penale alla mano, non commettono un reato, ma lo subiscono). Meglio applicare il principio dell'ex presidente della regione, Totò Cuffaro, che sorpreso mentre si incontra con un medico condannato per fatti di mafia (il cui capoclan, Giuseppe Guttadauro, era un vice primario), si giustifica dicendo :"Aveva espiato la sua pena. Ho sempre avuto culturalmente l'idea che la gente può sbagliare, paga il prezzo alla giustizia e poi torna a fare il suo lavoro". Tesi encomiabile se si parla di reati comuni. Garantismo d'accatto se si discute di cosa nostra. Perchè la mafia è mafia se ha rapporti con la politica, le istituzioni e la società civile. Se non li ha è semplicemente gangsterismo. E noi dopo 200 anni non staremmo ancora ad indicarla come la causa principale della povertà e del sottosviluppo delle regioni del sud. Classi dirigenti a parte, s'intende.
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