Essendo nostro intendimento in prosieguo di scandagliare il movimento dei fasci siciliani, con precipua attenzione a quanto accaduto a Contessa Entellina, ed essendo nostro intendimento di approfondire il volumetto curato da Nicolò Genovese sulla questione agraria in Sicilia, riteniamo utile, preliminarmente, pubblicare una interessante panoramica sulle condizioni sociali della Sicilia nella seconda metà dell'Ottocento curata da Salvatore Ierardi.
Il Contessioto
Dal 1875 all’85 la Sicilia fu oggetto di tre diverse inchieste: l’inchiesta parlamentare del ’75, relatore Bonfadini, l’inchiesta privata di Sonnino, Franchetti e Cavalieri, del ’76, e l’inchiesta Damiani dal ’77 all’ ’84.
Si trattò di tre differenti iniziative che, con motivazioni in parte diverse ed in parte simili, si proposero di far luce sulla realtà siciliana.
L’inchiesta Bonfadini nacque in quel clima confuso che precedette la caduta della Destra e che in Sicilia aveva già visto, nelle elezioni del ’74, la sconfitta del Governo.
La Sicilia contava allora 48.000 votanti ed essi, in quell’anno, avevano dato 44 dei 48 seggi siciliani a candidati dell’opposizione.
Come ha rilevato Mack Smith,3 il fatto stava ad indicare che il rapporto preferenziale tra Destra e forze politiche siciliane era incrinato.
Ciò portò ad un capovolgimento delle posizioni politiche del Governo e dell’Opposizione nei confronti della Sicilia.
Mentre, infatti, fino ad allora la Sinistra all’opposizione aveva insistentemente chiesto una commissione d’indagine che facesse luce su legami spesso torbidi tra politica e mafia, che erano stati denunciati dal Procuratore di Palermo Diego Tajani, ma il governo vi si era costantemente opposto, ora, cambiati i rapporti di forza a seguito delle vicende elettorali, fu il governo a farsi promotore di un’inchiesta parlamentare, mentre la Sinistra ne fu ben tiepida sostenitrice.
L’inchiesta nacque pertanto come un elemento tattico di una strategia politica molto più vasta, che vedeva Destra e Sinistra lottare per la conduzione politica della nazione.
Bonfadini e gli altri suoi 8 collaboratori,4 furono perciò costretti da una situazione politica generale, a dare al loro lavoro un taglio particolare che finì per limitarne l’importanza e scemarne gli effetti. Infatti è vero che il Governo intendeva servirsi dell’inchiesta per colpire i nuovi legami che la Sinistra aveva saputo allacciare con la classe dirigente siciliana, ma non era interesse del Governo condurre a fondo tale indagine, perché essa avrebbe potuto portare ad evidenziare che torbide collusioni politiche erano usuali in Sicilia ben prima della recente vittoria della Sinistra e che, prima di questa, era stata proprio la Destra governativa a farsene strumento di dominio.
D’altra parte, la Sinistra, fin da quando era stata esclusa dal potere, aveva avuto interesse a reclamare un’ampia inchiesta parlamentare, ma, dopo la recente vittoria, giovatasi essa stessa di quei congegni clientelari che prima aveva voluto colpire, non aveva più interesse in un’iniziativa politica che avrebbe potuto raggelare gli entusiasmi dei suoi recenti sostenitori. Si spiega così la reticenza del Crispi ed il contraddittorio comportamento della stampa a lui vicina.
A tutto ciò si aggiungano i limiti della visione politica che erano propri della Destra e della Sinistra e che escludevano a priori che l’inchiesta avesse potuto essere uno strumento per una eventuale alterazione dei rapporti di classe esistenti.
L’Opinione, giornale orientato a sinistra, a proposito dell’inchiesta, sosteneva, infatti, che peggio sarebbe stato se nelle plebi campagnole si fosse alimentata la speranza che l’inchiesta
fosse fatta per curare i loro mali, e La Perseveranza, giornale governativo, sosteneva analogamente che bisognava evitare di generare fallaci speranze.
La Commissione d’inchiesta, essendole, tra l’altro stato assegnato un lasso di tempo assolutamente inadeguato (un anno), a svolgere l’enorme massa di lavoro che le reali necessità conoscitive avrebbero comportato, fu costretta da tutta questa somma di fattori ad adottare una metodologia d’indagine alquanto sommaria ed a stendere sulla base delle risultanze, alcune conclusioni che, date le premesse, non potevano non risultare superficiali.
La Commissione si rivolse ai Prefetti, ai Sottoprefetti, ai Sindaci ed ai Pretori di vari centri della Sicilia e chiese ad essi un elenco delle persone rispettabili di tutti i ceti della cittadinanza e di tutti i partiti politici.
Ai nominativi segnalati la Commissione indirizzò un questionario circa le condizioni dell’ordine pubblico, dell’economia agricola, dei patti agrari, del benessere dei ceti rurali.
La relazione finale, stilata da Romualdo Bonfadini, tirò le somme delle risposte ai vari problemi posti dal questionario.
Nella polemica che si accese, subito dopo la pubblicazione degli atti, tra i sostenitori della commissione parlamentare e quelli di Sonnino e Franchetti, le risposte ai questionari dell’inchiesta parlamentare furono diverse volte accusate di falsità.
Certamente è possibile individuare delle discordanze tra le risposte fornite ed i dati emergenti dalle statistiche ufficiali o da altre fonti governative, ma, la storiografia che si è occupata di questa inchiesta, ha ormai sancito che la contraddittorietà e la superficialità dei risultati dipese non tanto dalle intenzioni mistificatorie degli intervistati o dei commissari, quanto dai condizionamenti cui erano sottoposti.
A contribuire all’inchiesta furono infatti gli stessi rappresentanti delle classi dirigenti, i quali, per forza di cose, in buona fede, dovevano guardare alle vicende politiche ed alla situazione economico-sociale, dal loro punto di vista e secondo l’ottica dei loro interessi.
La Commissione escluse l’esistenza di una questione sociale in Sicilia, e fece notare che la situazione economica delle classi agricole siciliane non fosse né migliore né peggiore di quella dei contadini delle altre regioni d’Italia; conseguenza di questa esclusione fu l’altra, circa l’esistenza dei rapporti tra criminalità e condizioni sociali.
Di mafia, nell’inchiesta, non si parlò affatto, e tutti i fenomeni di criminalità erano ascritti ad individuali inclinazioni a delinquere. Il Sindaco di Corleone sostenne che non c’era alcun problema di impiego per chi avesse realmente voglia di lavorare, e Salvatore Mirone, un corrispondente da Catania, aggiunse che i contadini stavano bene e che erano i proprietari a star male. Il barone Beneventano, da Augusta, spiegò che la miseria dei contadini era dovuta alla mancanza di abitudine al risparmio, che portava i villani a dissipare in gozzoviglie tutto il loro guadagno.
Il malandrinaggio veniva presentato come un fatto limitato alle classi subalterne ed effetto della degenerazione morale. La delegazione di Biancavilla (Catania), formata da Sindaco, Pretore e Consiglieri Comunali, sostenne che i reati erano effetto di immoralità e non di bisogno.
In quegli anni si stava sviluppando una vigorosa campagna di stampa per denunciare le terribili condizioni di vita dei carusi nelle miniere siciliane.
Alcuni giornali stranieri accusarono gli Italiani del Nord di disinteresse verso le province maridionali7 ma, nella relazione finale, Bonfadini escluse la possibilità di provvedimenti per rendere più umano il lavoro dei carusi. Egli sostenne8 che si era davanti ad una questione in cui purtroppo vi era lotta tra il sentimento pietoso e la ragione dei numeri e sosteneva che all’industria solfifera sarebbe venuto un gran danno dalla proibizione di adibire i fanciulli ai lavori più pesanti.
L’Inchiesta rivelava un certo astio della classe dirigente nei confronti della coscrizione obbligatoria, ma le motivazioni erano ben diverse da quelle dei ceti popolari.
I contadini, infatti, si opponevano alla leva militare per poter continuare a lavorare ed a mantenere le loro famiglie, il ceto dirigente vi si opponeva, invece, perché, come sostennero alla Commissione il Sindaco di Marineo ed il barone Bordonaro di Cefalù, l’esperienza di diverse condizioni di vita rendeva i reduci recalcitranti alla fatica tradizionale: era vero che i contadini tornavano civilizzati dal servizio militare, ma la loro moralità ne soffriva.
Essendo queste le premesse ideologiche, è chiaro che la Commissione non poteva assolutamente far carico all’azione del Governo della situazione siciliana che, d’altra parte, ci si rifiutava di considerare nella sua gravità.
Per il futuro si auspicava semplicemente un’opera amministrativa più alacre e la diffusione delle strade ferrate e delle vie di comunicazione in genere.
Bonfadini9 si rendeva conto che l’esigenza politica gli imponeva di smorzare gli aspetti più crudi della situazione e attenuò la portata di talune pur limitate affermazioni, riducendo tutto ad un problema amministrativo. Egli si impegnò pure in una diretta polemica con Sonnino e Franchetti e, insieme all’economista Corleo, sostenne che i due giovani autori avevano generalizzato alcune situazioni particolari e sovrapposto i loro convincimenti alla realtà dei fatti.
L’unico risultato concreto dell’inchiesta fu un viaggio in Sicilia del Ministro dei Lavori Pubblici Zanardelli, durante il quale questi auspicò una rapida soluzione del problema della viabilità.
Per il resto la relazione Bonfadini, lodata dai diversi settori parlamentari, non sortì alcun pratico effetto; del resto essa non era stata voluta con alcun serio intento riformatore.
Passato il momento politico che ne aveva determinato l’istituzione, la Commissione proseguì i lavori nella più generale indifferenza e, quando giunse il momento di discutere il rapporto Bonfadini, la Camera dei Deputati era quasi vuota.
Il conservatore Luzzatti, favorevole ad una riforma agraria, si vide schierata contro tutta la Sinistra e, prima di ogni altro, il Ministro dell’agricoltura del nuovo Ministero De Pretis, il Barone Majorana, latifondista e banchiere di Catania, il cui collegio elettorale era il suo feudo di Militello.
Attraverso uomini come lui, la Sinistra si rendeva garante della stabilità sociale in Sicilia ed in questo senso i lavori della Commissione d’inchiesta più che un elemento di disturbo costituivano una documentazione di sostegno.
Contemporaneamente all’inchiesta Bonfadini si svolse in Sicilia quella di Sonnino e Franchetti.
Sidney Sonnino, Leopoldo Franchetti ed Enea Cavalieri erano, nel 1876, tre giovani laureati dell’Università di Pisa rispettivamente di 27, 29, e 28 anni. Appartenevano tutti e tre al ceto dirigente, ma il loro intento nell’affrontare la questione siciliana era ben diverso da quello che muoveva la Commissione d’inchiesta parlamentare.
Nelle vicissitudini agitate del ’74 e del ’75 in Sicilia (sconfitta elettorale della Destra, denuncia di Tajani, proposta governativa di una legge speciale che sospendesse nell’Isola le garanzie costituzionali), i tre giovani videro ciò che la Commissione parlamentare non poteva e non voleva vedere, cioè il riflesso di una questione sociale di eccezionale gravità.
Animati di buona volontà e già intenzionati a studiare le caratteristiche di una regione d’Italia per farne oggetto di una ricerca sui contratti agrari, essi accantonarono l’idea di un’inchiesta sulla Romagna e si disposero a studiare la realtà siciliana.
Pochi anni dopo Livingstone e contemporaneamente a Stanley, essi si disposero ad un viaggio in Sicilia con lo stesso spirito di avventura con il quale i due celebri esploratori avevano affrontato le foreste africane.
Comprarono quattro rivoltelle di grosso calibro, una per ciascuna di loro ed una per un servitore che li accompagnò in Sicilia, e quattro carabine “Vetterli” del recentissimo modello a ripetizione; si fornirono di letti da campo, di tende e di quattro vaschette di rame nelle quali, riempitele d’acqua, avrebbero tuffato i piedi del letto prima di coricarsi, per isolarlo dagli insetti, e si disposero al viaggio.
Partirono nei primi del ’76, attraversarono la Sicilia in lungo ed in largo, arrampicandosi su erte mulattiere ed addentrandosi in valloncelli solitari acconci agli agguati. Si diressero ad una quarantina di persone sparse in tutta l’Isola, per le quali erano forniti di lettere di presentazione. Viaggiavano con molte precauzioni, lasciando sapere il meno possibile il loro itinerario e le loro prossime tappe e scegliendo mulattiere e guide solo all’ultimo momento.
Durante i colloqui con le persone cui erano diretti e con quelle altre cui furono indirizzati dai loro primi conoscenti, non prendevano appunti ma affidavano tutto alla memoria e la sera, aiutandosi scambievolmente, redigevano una relazione. Tornati in continente all’inizio dell’estate, Enea Cavalieri non poté partecipare con gli altri due compagni al lavoro di rielaborazione degli appunti, perché si era impegnato a partire per un viaggio intorno al mondo.
Il lavoro fu perciò ripartito solo tra Sonnino e Franchetti i quali si occuparono rispettivamente delle condizioni dei contadini e di quelle politiche ed amministrative della Sicilia. I loro due libri videro la luce nel dicembre 1876, appena qualche mese dopo la pubblicazione della relazione Bonfadini.
I due giovani studiosi individuavano nella sopravvivenza del vecchio mondo semifeudale, antecedente l’Unificazione, la causa del malessere dell’Isola. L’anarchia delle classi dirigenti, le ribellioni contadine, le resistenze regionalistiche, il permanere ed il diffondersi dell’estremismo democratico, costituivano per i giovani ricercatori toscani gli elementi di spicco delle situazione siciliana: un mondo dove il dominio di un ceto agrario parassitario era l’ostacolo fondamentale all’espansione del sistema liberale.
Il governo nazionale, nei primi sedici anni di vita unitaria, aveva operato ora piegandosi al compromesso ora svolgendo una politica puramente repressiva, a seconda della natura e della tendenza delle forze che gli si opponevano.
Sonnino e Franchetti avevano l’ammirevole intento di indicare alla classe dirigente gli obiettivi concreti per consentire la rinascita del Sud. Essi si opponevano alle istanze regionalistiche perché non erano convinti che, lasciata a se stessa, la società siciliana avrebbe trovato da sola i mezzi per una rinascita economica e spirituale, e perché proprio nell’azione dello Stato unitario, da loro concepito come un’entità al di sopra ed al di fuori delle classi, individuavano l’elemento che avrebbe potuto scardinare un sistema economico superato.
Già Sidney Sonnino, pubblicando nel 1874 la sua monografia sulla mezzeria in Toscana, aveva indicato nella mezzadria il sistema economico che avrebbe potuto, nelle campagne, migliorare le condizioni economiche dei contadini e la resa dei prodotti agricoli, senza portare pregiudizio alla stabilità delle aziende ed alle rendite dei proprietari. Da Sonnino la mezzadria, in quanto veniva a cointeressare i contadini nella conduzione dell’azienda, era individuata come il sistema per opporsi alle utopie socialiste e comuniste, favorendo il progresso, migliorando sistemi di coltivazioni e garantendo la stabilità sociale. Si trattava di una risorsa propria del sistema liberale borghese che intendeva risolvere così, in modo indolore, la questione sociale che i democratici ed i socialisti denunciavano e che era soprattutto una questione agraria.
Franchetti e Cavalieri condividevano pienamente le idee di Sonnino ed uno dei loro motivi di più forte denuncia in Sicilia riguardava proprio i patti agrari che nell’isola vedevano una scarsa presenza della mezzadria o alterazioni così forti di essa che ne modificavano profondamente i connotati e ne scemavano gli effetti.
Sonnino denunciò senza mezzi termini le condizioni dei contadini, la struttura piramidale della conduzione dei feudi, la scarsità dei salari, la forte incidenza della disoccupazione. Egli descrisse il mercato del lavoro, prima dell’alba, sulle piazze delle città, le emigrazioni stagionali, le case dei contadini composte di una sola stanza terrena, senza impiantito, con una sola porta, e nella quale il contadino viveva con tutta la famiglia, l’asino, mulo, i foraggi e le provviste e per la quale, se non era sua, doveva pagare un canone annuo da 25 a 60 lire su un salario che per circa 200 giorni all’anno era di 0,60 o 0,85 lire giornaliere.
Descrisse ancora i gravami di origine feudale che schiacciavano i contadini: i soccorsi, gli obblighi di lavoro e di trasporto gratis, i prezzi imposti.
In Sicilia non era assente la mezzadria, ma essa finiva quasi per confondersi con l’affitto e non era meno gravosa per i contadini. Tutte le spese di conduzione erano a carico di questi ed il campiere padronale fissava anche i minimi dettagli delle opere. Terminata la trebbiatura su circa 20 salme di frumento al coltivatore ne toccavano tre o quattro ed in massima parte di qualità inferiore, ossia di solame misto a terra. Anche i contratti a miglioria vedevano l’esclusione dei contadini dai proventi della terra. I contadini siciliani vennero descritti impietosamente nelle loro ignoranza e miseria.
La relazione di Sonnino era particolarmente dettagliata. La Sicilia veniva divisa in diverse zone: zona interna e meridionale, regione montana, zona alberata, e, per ogni zona, egli dava conto dei fondi, dei sistemi di coltivazione, delle censuazioni, delle colonie, dei diritti promiscui. L’analisi, poi, proseguiva sui caratteri economici dei contratti agricoli siciliani: la partecipazione del lavorante al prodotto, il fitto, il salario.
Sonnino intervenne sulla questione delle alienazioni dei beni demaniali ed ecclesiastici e sostenne che le quotizzazioni, a causa della camorra nelle aste, del regime fiscale e delle condizioni generali, non avevano determinato un ceto di nuovi proprietari. Dei proprietari egli stigmatizzò l’azione, condannandone l’assenteismo e la poca sensibilità ai progressi dell’agricoltura, o nei confronti delle migliorie che si sarebbero potute ottenere con il regolamento delle acque e l’uso delle macchine.
Sul lavoro dei fanciulli nelle zolfare scrisse pagine terribili e sostenne, in opposizione ai criteri di puro economicismo condivisi dalla relazione Bonfadini, l’inammissibilità di condizioni del genere.
L’analisi del Franchetti partiva, invece, dalle condizioni della sicurezza pubblica e distingueva acutamente tra delinquenza comune e delinquenza organizzata. Fissava la sua attenzione su quest’ultima e ne denunciava i legami con il ceto baronale o dei grandi proprietari e gabelloti che se ne servivano come strumento del proprio dominio.
Franchetti sostenne che, in Sicilia, contrariamente a quanto era lecito in altre regioni d’Italia, la classe dominante non poteva essere considerata quale interprete dei bisogni dell’intera popolazione e che, nelle condizioni attuali, era impossibile al governo conoscere i veri bisogni della regione.
Egli sostenne che l’opinione pubblica siciliana non poteva in nessun caso servire da guida al governo italiano, perché la stampa era asservita ad interessi troppo particolari e che, se lo Stato voleva rimediare ai mali della Sicilia, per governarla, doveva avvalersi di elementi estranei all’isola.
Il primo obiettivo avrebbe dovuto essere l’attuazione dello Stato di diritto: il governo avrebbe inoltre dovuto rivedere il regime fiscale dell'isola ed impegnare grandi risorse finanziarie per migliorarne le condizioni materiali.
La repressione dei disordini rendeva possibile il miglioramento dell’ordine pubblico, ma da sola non avrebbe potuto garantirlo a lungo.
L’inchiesta di Sonnino e Franchetti, insieme alle Lettere Meridionali del Villari segnarono l’inizio della pubblicistica meridionalista postunitaria, e, al di là delle specifiche argomentazioni che potevano essere, e furono, alacremente controbattute, ebbe un valore documentario dal quale i politici, in seguito, non poterono prescindere.
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La prima proposta di quella che sarebbe stata l’inchiesta Jacini è legata al nome di Marco Minghetti ed è antecedente sia all’inchiesta Bonfadini che a quella di Sonnino e Franchetti.
Nel 1869, infatti, Marco Minghetti, ministro dell’agricoltura, nel seno del Consiglio di Agricoltura costituito l’anno precedente, lanciò l’idea di un’inchiesta sulle condizioni della produzione e dei produttori agricoli.
L’idea fu portata avanti da una commissione interna al Consiglio formata da Gattoni, Cantoni, ed Emilio Morpurgo.
Questa proposta si riferiva alle condizioni economiche della produzione agraria e degli agricoltori e non faceva accenno ai problemi dei contadini e dei lavoratori della terra.
Come fu ben messo in luce dal Caracciolo, l’ordine di idee dal quale si partiva non riguardava problematiche sociali, ma economico - politiche.
Gli anni settanta videro una costante polemica tra i sostenitori e gli oppositori del Ministero dell’Agricoltura. Al solito si trattava di una questione più politica che tecnica ed i diversi avvisi stavano ad indicare due differenti orientamenti tra coloro che assegnavano allo Stato un ruolo importante di coordinamento e di promozione nei fatti economici ed i sostenitori di una concezione tutta privatistica dell’economia.
L’istituzione del Ministero dell’Agricoltura, da parte del Cavour, nel 1860, aveva segnato la vittoria delle concezioni interventiste, l’abolizione del Ministero, nel 1877, segnò, al contrario, la vittoria degli astensionisti.
L’idea di un’inchiesta è legata ai progetti degli interventisti i quali intendevano fondare l’azione dello Stato su una base conoscitiva ben salda della realtà economica.
Nel ’68 si era svolta una fase particolarmente vivace del dibattito tra abolizionisti e conservatori del Ministero. Questi ultimi erano riusciti a fare approvare un ordine del giorno favorevole al mantenimento del Ministero ed il deputato Nervo auspicò l’allargamento delle sue competenze e l’inizio di un’inchiesta amministrativa sulle condizioni della produzione nazionale, agraria e manifatturiera.
Gli industriali ed i gruppi interessati alle manifatture ed ai commerci premevano per una propria inchiesta con il preciso scopo di arrivare ad interventi politici in loro favore.
Anche la possidenza agraria si mosse, quindi, a chiedere più cose al Governo ed il primo congresso degli agricoltori italiani tenutosi a Pistoia nel settembre 1870, si pronunciò a favore dell’inchiesta e chiese che vi si inserissero taluni quesiti particolari di carattere agronomico. Nel ’72 una sessantina di comizi agrari si pronunciarono in modo analogo.
Era diffusa, infatti, l’esigenza di possedere statistiche ed informazioni aggiornate sull’estensione delle diverse coltivazioni, sull’entità dei prodotti, sul movimento dei mercati, sulle differenti applicazioni della tecnica, sui passaggi di proprietà, sull’entità dei capitali impiegati, sul movimento dei braccianti, sui sistemi di coltivazioni, sulle bonifiche, onde potere, su queste basi, delineare il progetto di una politica agraria di un certo respiro.
Così, tra il ’69 ed il ’70, parallelamente all’inchiesta industriale, si andava preparando con il pieno appoggio degli interessati, un’inchiesta agraria con l’obiettivo di fare il punto sulla situazione e di definire i problemi e le esigenze di un’importante categoria economica.
L’iniziativa sarebbe sicuramente andata in porto speditamente se ad essa non si fosse affiancata, da parte della Sinistra, una seconda proposta d’inchiesta.
Nel ’69 c’erano stati alcuni tumulti contadini contro la tassa sul macinato e sebbene le agitazioni fossero state soffocate, tuttavia avevano lasciato rancori ed amarezze, mentre l’Estrema, l’ala più oltranzista della Sinistra, proclamava che non si poteva più ignorare l’esistenza di una questione sociale.
Nel 1870, appunto, la richiesta che si affiancò a quella di Morpurgo, Minghetti e Nervo, fu quella di un’inchiesta sulle classi operaie in Italia. Si costituì anche una commissione, Guerzoni relatore, che definì un piano dettagliato di quesiti a cominciare da quelli di carattere demografico fino a quelli circa le condizioni fisico - sanitarie, economiche, intellettuali e morali delle classi lavoratrici. Si sarebbe dovuto fare una mappa, regione per regione, onde evidenziare le condizioni delle abitazioni, gli alimenti, i salari, i contratti, gli scioperi, l’istruzione, l’abbigliamento, i costumi delle classi popolari.
La Sinistra sollecitò l’inchiesta sociale e, per iniziativa di Agostino Bertani, si raccolsero 50 firme di notissimi uomini dell’opposizione, dal Cairoli, al Crispi, al Nicotera, al Mussi per chiedere alla Camera che fosse deliberata un’inchiesta sulle condizioni attuali della classe agricola e principalmente dei lavoratori della terra in Italia.
Una proposta di legge in tal senso fu depositata alla Camera il 5 dicembre 1871.
Si era così davanti a due proposte d’inchiesta: una, di iniziativa governativa, di carattere spiccatamente economico, l’altra, di iniziativa dell’opposizione, a sfondo dichiaratamente sociale.
Fin dal primo momento governo e numerosi parlamentari si sforzarono di avvicinare le due iniziative. Il loro progetto era di neutralizzare la portata dell’inchiesta sociale, ma per far ciò non scelsero la via dell’opposizione frontale, quanto quella di un inglobamento indolore dell’inchiesta sociale nell’inchiesta economica.
Si sottolineava l’importanza di acquisire dati sulle condizioni delle classi lavoratrici, ma, dando per scontato che un miglioramento di queste poteva avvenire solo a seguito di un generale progresso economico, si premeva perché l’inchiesta sociale fosse inglobata nell’inchiesta sulle condizioni generali dell’agricoltura.
Il Lanza fu il principale sostenitore di questa linea. Egli tendeva a spostare la ricerca delle cause e dei rimedi per le condizioni dei lavoratori agricoli al di fuori dei conflitti sociali con il proprietario, nell’ambito di un problema generale di progresso e di ricchezza di tutta l’agricoltura.
Agostino Bertani, a nome della Sinistra, nel 1872, intervenne a rimandare ogni decisione, mentre si fronteggiavano i due contrastanti schieramenti tra i sostenitori dell’inchiesta agraria e quelli dell’inchiesta sociale.
Agli inizi del 1873 fu presentato il progetto di legge relativo all’inchiesta agraria; un progetto di legge per l’inchiesta sociale fu presentato dalla Sinistra.
Due commissioni parlamentari, presiedute rispettivamente dal Coppino e dal Borselli, per l’esame preliminare delle proposte, finirono per concordare un’unica relazione e suggerirono un unico disegno di legge. L’unificazione delle due inchieste segnò la sconfitta delle ipotesi di lavoro della Sinistra.
Alla Camera si formò, infatti, un’ampia maggioranza favorevole ad un’unica inchiesta; molti deputati della Sinistra, anch’essi proprietari terrieri, si trovarono d’accordo con quelli governativi nell’auspicare un’inchiesta preminentemente economica.
Persino il Bertani dovette rinunziare al suo progetto e fu indotto a firmare, con il Borselli, il disegno di legge sull’inchiesta agraria. Nonostante ciò, il disegno di legge fu, per molto tempo, insabbiato in Parlamento e, passando i mesi, il carattere dell’inchiesta , già aleatorio, si stemperava sempre più.
Borselli, per l’imparzialità dell’inchiesta, sosteneva che essa non si dovesse rivolgere contro nessuno ed avvertiva che anche i proprietari facevano parte delle classi agricole.
Fu l’avvento della Sinistra, all’indomani del voto politico del 18 marzo 1876, ad avviare a conclusione l’iter parlamentare dell’inchiesta.
Il dibattito fu molto vivace sia prima che durante la discussione alla Camera.
Pasquale Villari polemizzò aspramente con coloro che si opponevano a che l’inchiesta si focalizzasse sulle condizioni sociali e morali dei lavoratori della terra.Sul fronte opposto, L’Italia Agricola, il più autorevole giornale della possidenza agraria settentrionale, sollecitava a legare l’iniziativa alle correnti ben pensanti dell’opinione pubblica, mentre il deputato Corte accusava le pubblicazioni già edite dal Ministero dell’Agricoltura, di essere calunniose contro
i proprietari. L’On. Caranti lamentò che si voleva artificialmente seminare la discordia tra le classi sociali fino ad allora unite ed affermò che gli unici veri bisogni dell’agricoltura erano i capitali e la sicurezza dai furti campestri.
Alla Camera gli oppositori di qualsiasi forma di inchiesta furono ben pochi, ma altrettanto pochi furono coloro che insistettero per una caratterizzazione squisitamente sociale di essa.
Il Ministro in carica, della Sinistra, Majorana Calatabiano, si chiedeva che significato potesse avere l’espressione questione sociale, e l’On. Minervini manifestò aperto scetticismo circa l’utilità dell’iniziativa.
Al Senato si manifestarono analoghe riserve conservatrici, il Sen. Bembo temeva che l’inchiesta potesse suscitare tra i contadini fatue ed inutili speranze, mentre il Sen. Rizzari sosteneva che certe brutture, certe miserrime condizioni dei contadini erano già note e che non era opportuno tornarci sopra.
Non era bene far nascere speranze che i guai presenti potessero aver termine e l’inchiesta poteva produrre solo illusioni gravide di conseguenze poco desiderabili.
La grande maggioranza dei due rami del Parlamento fu perciò d’accordo nel varare l’inchiesta, ma escluse la possibilità di farne uno strumento per il riscatto civile delle plebi rurali. La tesi dell’Estrema e del Bertani risultò chiaramente battuta. La legge per un’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola da compiersi in due anni con la spesa di £.60.000, fu promulgata il 15 marzo 1877.
Pochi giorni dopo, un decreto reale procedé alla nomina ufficiale dei 12 membri della Giunta, 4 eletti dalla Camera dei Deputati, 4 dal Senato e 4 designati dal Governo: Giuseppe Angeloni, Agostino Bertani, Carlo Berti Pichat, Ascanio Branca, Abele Damiani, Fedele Di Siervo, Pietro Fossa, Stefano Jacini, Emilio Morpurgo, Francesco Salaris, Giuseppe Toscanelli, Francesco Nobili Vitelleschi.
L’orientamento dei Commissari risultò chiaro fin dal primo giorno quando il Conte Jacini fu eletto alla carica di presidente della Giunta stessa con 6 voti su 8 commissari presenti, lasciando al Bertani la carica di vice – presidente. I commissari, alcuni dei quali erano grandi proprietari di terre, si riconoscevano nell’impostazione tecnico – agraria che ai lavori dell’inchiesta pensava di dare Jacini, mentre Bertani, spalleggiato soltanto da Abele Damiani, continuava ad essere l’assertore di quell’inchiesta a sfondo sociale che l’Estrema aveva propugnato.
Il divario di forze, in seno alla Giunta, era notevole ma Bertani non aveva perso le speranze di caratterizzare l’inchiesta agraria in senso sociale ed il dissidio tra presidente e vicepresidente fu subito chiaro. La prima occasione perché esso potesse manifestarsi fu la stesura del programma di lavoro della Giunta. Bertani sostenne l’esistenza di tre ben distinte questioni: la prima, intorno alle situazioni della proprietà in Italia; la seconda, intorno alle caratteristiche delle produzioni e delle coltivazioni; la terza, intorno alle condizioni dei lavoratori sotto l’aspetto fisico, economico e morale.
Per ciascun tema Bertani proponeva sopralluoghi e relazioni diverse con l’intento di far meglio emergere le conclusioni di carattere politico – sociale che a lui stavano particolarmente a cuore Jacini, al contrario, sostenne l’inscindibilità dei tre problemi, con l’intento di legare strettamente la questione sociale alla situazione economica e di evitare che essa assumesse autonomo rilievo.
Egli pertanto propose, invece che la ripartizione per argomenti, quella per regioni. Bertani si dimise per protesta e, nell’intento di evitare un caso di natura politica che nocesse al tranquillo lavoro dell’inchiesta, Jacini e compagni dovettero acconsentire ad un compromesso: i lavori della Giunta si sarebbero svolti per regione e non per argomenti, ma il Bertani ricevette l’incarico ufficiale di preparare una monografia sull’igiene del contadino italiano, il che, nei suoi progetti, gli avrebbe permesso di affiancare all’inchiesta economica quell’inchiesta sociale cui tanto teneva.
I lavori della Giunta furono lunghi, contrastati e complicati dalla soppressione, nel ’77, del Ministero dell’Agricoltura.
La Giunta si appoggiava per le sue indagini, nelle varie regioni, ad organismi governativi dipendenti da questo Ministero, pertanto, quando esso fu sciolto, i commissari si posero il problema se dovessero cambiare indirizzo e fondare uffici dipendenti direttamente da loro o se dovessero rassegnare il mandato e lasciare la soluzione definitiva alle deliberazioni del Parlamento.
Jacini e Bertani misero da parte i motivi di reciproco disaccordo e si rivolsero congiuntamente alla stampa, e mentre, grazie alle pressioni dei forti gruppi economici interessati, il Ministero dell’Agricoltura veniva sollecitamente ripristinato, la Giunta ottenne più soldi e più tempo per portare avanti la sua inchiesta.
Difficoltà più gravi intervennero per il dissidio solo apparentemente sanato, tra Bertani e Damiani da una parte e tutto il resto della Giunta dall’altra.
Bertani era convinto di essere appoggiato dal De Pretis ed in pratica si illuse di compiere, grazie all’incarico ricevuto per l’indagine sull’igiene rurale, un’inchiesta dentro l’altra inchiesta.
Egli riuscì a farsi assegnare dei fondi particolari e si impegnò, nell’indagine sulle condizioni delle classi rurali, ben oltre i confini della circoscrizione ligure assegnatagli nella suddivisione dei lavori dell’inchiesta agraria.
Ma il Presidente del Consiglio, anche se non smentì mai l’amico Bertani, pensava contemporaneamente a non inimicarsi la maggioranza della Camera che si era pronunziata in senso contrario all’inchiesta sociale, e spesso fece mancare al Bertani i mezzi necessari alla conduzione delle sue iniziative e ciò causò la definitiva sconfitta dell’ipotesi di inchiesta sociale. Questa ebbe limitata attuazione nel lavoro solitario del Bertani che procedette, con abnegazione personale, alla ricerca sulle condizioni igieniche dei contadini. Sebbene quando il Bertani morì, nel 1886, questo lavoro fosse giunto poco oltre la metà, Mario Panizza poté riassumere e pubblicare gli appunti sparsi e la ricerca, accanto ai volumi della Giunta, fu uno dei risultati più interessanti del grande movimento per un’inchiesta agraria italiana.
L’inchiesta agraria, neutralizzata l’opposizione del Bertani, poté svolgersi, avendo soprattutto di mira le questioni economiche. Essa si ispirò all’inchiesta agricola del ’65-’66 in Francia, ad analoga inchiesta svoltasi in Germania, di cui nel ’75 erano stati pubblicati gli atti a cura del Goltz, ed all’inchiesta che si svolgeva in Inghilterra, contemporaneamente a questa, tra il 1880 ed il 1882.
L’inchiesta Jacini si svolse tra un’indifferenza diffusa, dal momento che non erano del tutto sopite le diffidenze verso una indagine conoscitiva che nel panorama complessivamente arretrato dell’agricoltura italiana, rappresentava una novità. Essa, comunque, riuscì ad interpretare le esigenze degli ambienti più colti e sensibili della possidenza agraria e portò per la prima volta alla ribalta, un’Italia agricola finora dispersa, immobile e rassegnata.
Gli esponenti d’avanguardia della proprietà fondiaria dopo aver puntato all’edificazione di uno Stato di tipo liberale, si rendevano conto di dovere con più impegno dedicarsi agli affari dell’economia, della finanza pubblica, allo studio dei problemi della produzione agricola.
Stefano Jacini era, tra costoro, un uomo tra i più rappresentativi; proprietario di terre e di manifatture, esperto nella pubblica amministrazione, parlamentare autorevole, era molto più legato di tanti politici ai problemi di fondo della società italiana. Così le concezioni ispiratrici della Giunta, impersonate dal suo combattivo Presidente, riuscirono a rappresentare gli orientamenti più avanzati del mondo agrario, gravitante intorno agli interessi della proprietà terriera.
La Giunta finì per identificarsi con gli agricoltori ed i piccoli possidenti, anzi, in diversi dibattiti parlamentari, fu considerata diretta espressione di questi, pertanto, nei suoi lavori, i problemi
di carattere tecnico assorbirono quasi tutto lo spazio, mentre scarse ed episodiche furono le rilevazioni che avrebbero potuto avere una caratterizzazione sociale.
Il lavoro fu diviso, per circoscrizioni, ai vari membri della Giunta: a Jacini la Lombardia, al Morpurgo il Veneto, al Bertani la Liguria, al Nobili Vitelleschi l’Umbria, la Maremma toscana,
le Marche, parte del Lazio, al Damiani la Sicilia, ecc. Ognuno di essi poteva usufruire sia delle strutture e delle istituzioni governative, sia dell’aiuto di esperti per i quali venivano messi a disposizione opportuni fondi. Circa il metodo di lavoro si deliberò di procedere attraverso
quattro fasi: raccolta delle informazioni, coordinamento ed accertamento delle notizie, proposte intorno ai rimedi, compilazione delle relazioni finali complessive e documentate. La prima richiese molto più tempo delle altre e gli strumenti pratici adottati per l’indagine furono diversi e messi in atto in modo eclettico.
Ci si servì soprattutto, sul terreno statistico, di quanto si poteva reperire di già elaborato da enti pubblici e privati e della bibliografia fino ad allora edita. Furono poi compilati dei questionari che fossero di guida sia ai commissari circondariali, sia a tutti gli studiosi che volessero impegnarsi in ricerche locali.
Si istituì anche una commissione che avrebbe premiato le migliori monografie e conferito premi in denaro agli autori. In terzo luogo si ottennero notizie di prima mano dai comizi agrari, dalle associazioni di interesse agricolo, dai sindaci, dai pretori, da appositi comitati circondariali e provinciali, a seconda dell’iniziativa dei singoli commissari di circoscrizione.
Data l’impostazione dei lavori, ben poco di scientifico si fece per accertare le condizioni di vita dei contadini, anche se spesso i commissari giravano in tutto il territorio della circoscrizione.
L’ambito sociale in cui era stata concepita l’inchiesta portava generalmente i membri della Giunta a rivolgersi al ceto dei notabili delle campagne, possidenti, grandi mercanti, esperti di agronomia, ed a riferirne il parere come dato oggettivo universalmente acquisito.
Sotto questo aspetto è interessante esaminare il programma/questionario della Giunta fornito come guida ai commissari per la stesura delle rispettive relazioni circoscrizionali.
Esso ricalca molto da vicino lo schema di progetto degli interrogatori dell’inchiesta agraria presentati nel ’71 dal Morpurgo al Consiglio Superiore di Agricoltura. Nel questionario della Giunta, la massima attenzione veniva rivolta al rilievo dello stato generale dell’agricoltura ed alla descrizioni delle colture. Si chiedeva che fosse indicata la ripartizione del territorio in zone agrarie, l’estensione di ciascuna e la fisionomia generale dell’agricoltura.
Le colture dovevano essere distinte in piante arboree ed erbacee, entrambe con indicazioni delle principali varietà e del tipo di coltivazione con particolare riferimento, per le piante arboree, ai sommacchi, ai noci, nocciuoli, mandorli, peschi, meli, peri, ciliegi, susini, fichi e fichi d’India, carrubi e pistacchi, e, per le piante erbacee, ai cereali: frumento, granoturco, riso, segale, orzo, avena, miglio ecc., alle leguminose, alle piante alimentari, a quelle ortensi, a quelle tessili, industriali, da foraggio, graminacee ed altre.
Si chiedevano ampie statistiche e relazioni sulle malattie delle piante, le industrie derivanti da esse, con particolare riferimento alla produzione del vino, dell’olio, alla distillazione dell’alcool, alla fabbricazione dello zucchero, all’estrazione delle essenze.
Per gli animali si chiedevano statistiche dettagliate sulle razze bovine ed equine, e relazioni sui miglioramenti o peggioramenti degli incroci, sulle introduzioni di nuove razze, sui modi tenuti nell’allevamento.
Relazioni andavano stese pure sugli ovini, i caprini, i suini, il pollame, i conigli, la bachicoltura, l’apicoltura.
Spazio abbondante doveva essere riservato alle industrie derivate dagli animali (caseifici, lanifici, cuoi) ed all’igiene del bestiame.
La parte centrale dell’inchiesta avrebbe dovuto, secondo le indicazioni del questionario, essere riservata ai sistemi di coltivazione ed alle rotazioni.
Si chiedeva che fossero illustrati i vantaggi ed i difetti del sistema di rotazione adottato, la quantità di bestiame per unità di superficie, il numero dei lavoratori in rapporto alla estensione dei poderi, i sistemi di irrigazione, le opere idrauliche di scolo, e le bonifiche dei terreni paludosi e acquitrinosi, i concimi, gli strumenti e le macchine agrarie, la conservazione dei prodotti, il ricavo lordo e netto dei poderi, l’importazione e l’esportazione, l’istruzione tecnica, il credito agrario, la viabilità, i miglioramenti riconosciuti suscettibili di facile ed immediata applicazione.
Grande attenzione veniva riservata anche alla proprietà fondiaria, se essa fosse di grande, media o piccola estensione, all’incidenza dei terreni di proprietà comunale, delle opere pie, degli enti morali, ai gravami sulle proprietà sotto forma di canoni, censi enfiteutici, decime, servitù, diritti promiscui,
condomini, ai debiti ipotecari, alle imposte sulla proprietà ed al loro peso sui possessi, allo stato dei catasti, alle relazioni esistenti tra proprietari e coltivatori, ai sistemi di amministrazione e contabilità, ai contratti, con particolare riferimento alla colonia ed alla mezzadria.
Solo l’ultima parte dell’inchiesta, su sollecitazione del Bertani, avrebbe dovuto essere riservata alle condizioni fisiche, morali, intellettuali ed economiche dei lavoratori della terra, con riferimento all’alimentazione, alle abitazioni, agli effetti della tassa sul macinato sui mezzi di sussistenza della classe agricola, allo stato generale della sanità, alle società di mutuo soccorso.
Molto diversa era l’indagine che parallelamente, e solo parzialmente nell’ambito della stessa inchiesta, andava conducendo il Bertani. Egli rilevò l’esigenza di non rivolgersi a fonti e funzionari statali, essendo essi spesso costretti a tacere la verità per non subire dispiaceri e danni dai superiori, che troppo spesso erano interessati a celarla.
Bertani, nella sua inchiesta sull’igiene rurale, concentrava tutta la sua attenzione nell’appurare le condizioni di vita dei lavoratori agricoli. Egli si interessava delle loro abitazioni, sia stabili che stagionali, chiedeva che si facesse luce sulla coabitazione con gli animali, sulla promiscuità delle persone, sulla pulizia e la difesa dalle intemperie.
Chiedeva inoltre che si indagasse sui principali alimenti dei coltivatori, sull’uso del vino e degli alcolici, sullo stato di conservazione degli alimenti, sul vestiario; voleva che si relazionasse sull’istruzione e l’educazione, sull’esistenza degli asili infantili, delle scuole serali e domenicali, sulle tradizioni popolari, sugli usi sociali, sui problemi connessi agli obblighi di leva.
Bertani indagava sull’orario di lavoro dei contadini, sul loro stato di salute, sulle condizioni di lavoro, con particolare riferimento alle donne ed ai fanciulli e metteva in relazione ad esse la moralità delle popolazioni agricole.
Come si vede l’indagine di Bertani aveva un taglio squisitamente sociale ed antropologico, mentre quella proposta dalla Giunta un indirizzo prettamente economicistico. Il lavoro svolto dal Damiani in Sicilia non si discostò del tutto dall’impostazione che la Giunta nel suo complesso aveva dato all’inchiesta, ma risentì, in maniera evidente, delle sollecitazioni del Bertani.
Damiani operò in mezzo alle difficoltà derivanti dal sospetto, diffuso tra il pubblico, che l’inchiesta avesse scopi fiscali. Egli compì diversi viaggi in tutti i paesi e capoluoghi della Sicilia e cercò di associarsi l’opera delle persone più competenti nei vari settori dell’indagine, ma soltanto due studiosi di cose agrarie, il Chicoli ed il Nicolosi Gallo, collaborarono attivamente con lui e stesero delle monografie: il primo per le province di Palermo, Trapani, Caltanissetta e Girgenti, il secondo per i circondari di Catania e Siracusa.
Lo schema di lavoro che Damiani propose ai suoi collaboratori ed il questionario che egli indirizzò ai Sindaci, ai Pretori, agli Intendenti di Finanza, ai Presidenti della Camere di Commercio, ai Provveditori scolastici, ai Comizi Agrari, ai privati, sia di sua conoscenza sia indicati dai Prefetti, dai Sottoprefetti e dai Procuratori Generali del Re, ricalcava il questionario predisposta dalla Giunta, ma in esso, e qui si nota l’influsso del Bertani, egli lasciava molto più spazio all’indagine
sulle condizioni economico-sociali dei lavoratori della terra.
L’inchiesta di Damiani si presenta così ripartita in due parti distinte, entrambe corredate da una grande mole di dati e prospetti statistici; l’una verte sulle condizioni generali dell’agricoltura con riferimento agli aspetti più squisitamente tecnici: terreni e coltivazioni arboree, coltura del tabacco, del foraggio, delle leguminose, delle graminacee, impianti viticoli, fillossera, bestiame e sua igiene, concimi, monti frumentari, divisione delle proprietà, imposte, prezzi, commerci, viabilità, irrigazione, beni rurali, degli enti ecclesiastici, ecc.; l’altra, dal taglio più propriamente sociale, volta a definire le condizioni economiche della classe agraria, i suoi rapporti con i proprietari, le condizioni di vita, di salute, l’istruzione, l’incidenza dei costumi tradizionali e delle superstizioni, le abitudini religiose, l’influenza del servizio militare e le prospettive aperte dalla riforma elettorale.
Il lavoro di Damiani fu lento nei primi anni dell’inchiesta come quello di tutti gli altri componenti della Giunta Jacini.
Essa non si riuniva di frequente: prima immobilizzata dalle dispute al suo interno, poi, nel 1877, dalla soppressione del Ministero dell’Agricoltura, riprese lena dopo la reistituzione dello stesso; nel 1879 fu adunata soltanto 4 volte, tutte nella prima metà dell’anno, 8 volte nell’ ’80, anche qui con lunghe interruzioni, 4 volte nel 1881.
Ai fini dell’inchiesta, Damiani aveva effettuato solo un primo viaggio per i capoluoghi di provincia, ed esso gli aveva occupato 30 giorni.
Aveva preso contatto con le persone più in vista, ma il suo tentativo di istituire delle commissioni provinciali con degli esperti scelti secondo la competenza nelle diverse materie, era fallito sia per mancanza obiettiva di esperti, sia per dissensi e scissure tra le persone, sia, infine, per una certa noncuranza ed apatia generalmente diffusa nel mondo agrario nei confronti di qualsiasi lavoro scientifico.
Anzi, a questo proposito, Damiani parlava di atmosfera di indifferenza e di sfiducia veramente desolanti per dissipare le quali aveva potuto fare appello, con fiacchi risultati, solo alle amicizie personali e al sentimento patriottico di qualche giovane.
Così nel maggio 1881 egli si rivolgeva al Sen. Jacini18 lamentando difficoltà di vario genere che si frapponevano all’espletamento del suo compito.
Potenziata la capacità di azione dell’Inchiesta, anche grazie ad un ulteriore stanziamento di fondi, Damiani mise a punto l’insieme di tutti i suoi collaboratori. Fu un periodo intenso di visite locali, stesura di monografie, corrispondenza con tutte le autorità dell’Isola e con le amministrazioni centrali.
L’inchiesta, comunque, ancora non prendeva corpo, fu quindi per esigenza di completezza e di organicità che il 30 maggio 1883 Damiani inviò il suo questionario ai 357 sindaci con preghiera di rispondere entro la fine del giugno successivo.
Se tutti, quasi, i comuni risposero al questionario a loro indirizzato, in numero ben limitato furono quelli dai quali si ebbero notizie complete ed in ogni parte attendibili.
Comunque i tempi oramai incalzavano, c’era da sistemare i dati provenienti dai Pretori e tutti gli altri elementi forniti dagli Intendenti di Finanza, Presidenti di Camere di Commercio, Provveditori scolastici, Comizi Agrari, Prefetti, Sottoprefetti, Procuratori Generali del Re ai quali pure il Damiani si era rivolto. Gli ultimi mesi del 1883 e più di metà di quelli del 1884 furono impiegati in un’immane fatica per raccogliere i dati, classificarli, riassumerli per categorie e indi per circondari, per province e poi per tutta la regione, ma anche per esaminare i criteri coi quali erano stati messi insieme i dati, constatare l’esattezza dei rapporti, elaborare degli indici assoluti.
I risultati dell’inchiesta Damiani furono raccolti in 5 grossi tomi, tutti appartenenti al 13° volume dell’inchiesta Jacini. Essi videro la luce tra il novembre 1884 (tomo 1°, fascicolo 1° e tomo 1°, fascicolo 2°) ed il giugno 1885 (tomo 1°, fascicolo 3°; tomo 2°, fasc. 4°; tomo 2°, fasc. 5°).
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