di Lorenza Carlassare
Con l’art. 13 “La libertà personale è inviolabile” inizia la parte I della Costituzione relativa ai “diritti e doveri dei cittadini”. E’ l’uomo nella sua fisicità che innanzitutto viene tutelato. Non a caso l’habeas corpus, la libertà dagli arresti arbitrari e da interferenze sulla persona, apre il capitolo dei diritti: senza di essa il resto non ha valore. E’ un diritto antico la cui prima affermazione ci porta lontano, nell’Inghilterra medievale: è vero che non riguardava tutti ed erano i signori feudali a rivendicarla contro il re, ma la formula è la stessa. Le Costituzioni attuali riprendono l’antico testo riproducendo i meccanismi di tutela fissati nella Magna Charta (1225): “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato delle sue terre o della libertà … o molestato in qualsiasi modo, né metteremo né faremo mettere la mano su di lui se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese”. Nello storico documento sono fissate le garanzie di oggi: “riserva di giurisdizione” e “riserva di legge” ripetute nell’art. 13, comma 2, “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Solo la “legge”, atto solenne del Parlamento, può stabilire in via generale, eguale per tutti, i casi e i modi nei quali la libertà può essere limitata. E solo al “magistrato” spetta emanare l’atto restrittivo della libertà di una persona. Atto “motivato” che indica le ragioni che lo giustificano e la norma di legge in base alla quale è emesso. Previo “giudizio legale”, diceva la Magna Charta, e “secondo la legge del paese”: non per decisione del re, ma solo mediante un giudizio legale poteva essere preso un provvedimento restrittivo; e non in base a un decreto regio, ma secondo la legge del paese. Lo schema della tutela, come dicevo, è ancora il medesimo.
Perché il giudice e non l’autorità di polizia ? Perché la legge del Parlamento e non il decreto del governo ? La ragione è importante e coinvolge l’organizzazione costituzionale intera, il cuore stesso del costituzionalismo e della democrazia. La legge è garanzia di libertà perché è una fonte democratica, votata dai rappresentanti del popolo, in un Parlamento in cui oltre alla maggioranza siedono le opposizioni, le quali, se non riescono a condizionare l’esito del voto, possono far sentire la loro voce, e, per la pubblicità dei lavori parlamentari, raggiungere i cittadini tramite i “media”, suscitando reazioni che in una democrazia normale dovrebbero indurre a modificare o ritirare il progetto. I decreti del governo, invece, presi nel chiuso del Consiglio dei ministri, senza la presenza delle minoranze e senza pubblicità, non sono una garanzia. Norme restrittive o discriminatorie possono essere approvate senza contrasto.
La magistratura è garanzia in ragione della sua indipendenza, condizione prima dell’imparzialità di giudizio. Indipendenza derivante dalle norme che eliminano le cause della “parzialità”, in primo luogo dipendenze o legami col potere politico: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2); “La magistratura costituisce un ordine autonomo indipendente da ogni altro potere” (art. 104, comma 1); “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per la diversità di funzione (art. 107, comma 3) e non hanno capi gerarchici. Ad evitare interferenze e condizionamenti che alterino l’imparziale esercizio della giurisdizione, fra magistratura ed organi politici c’è il Consiglio superiore della magistratura. Ad esso sono affidati tutti i provvedimenti sulle persone e la carriera dei magistrati –assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari (art. 105)- sottratti al governo ad evitare che li usi in modo favorevole o punitivo per incidere sull’imparzialità di chi amministra la giustizia. L’autorità di pubblica sicurezza, per la sua stretta dipendenza dal governo, non può essere garanzia; dunque non può assumere provvedimenti restrittivi della libertà personale tranne in “casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati tassativamente dalla legge” (art. 13, comma 3), “provvedimenti provvisori” da comunicare entro 48 ore all’autorità giudiziaria che, se non li convalida entro 48 ore, “s’intendono revocati e restano privi di ogni effetto”. Il 4° punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, ma talora è disatteso: di recente, persone indifese sono state sottoposte alla violenza dei loro custodi. Il 5°, “La legge stabilisce i termini massimi della carcerazione preventiva”, vuol mitigare una situazione grave per la vita di persone poi, magari, riconosciute innocenti : i termini dovrebbero essere brevi e la detenzione, prima del processo, eccezionale.
L’art. 13 ha interessanti aperture: talora è riferito anche alla libertà spirituale, o inteso come garanzia non solo da arresti arbitrari, ma da qualunque intervento sul corpo: nella questione dei trattamenti sanitari e del “fine vita” l’habeas corpus può dunque giocare un ruolo.
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