lunedì 7 dicembre 2009

La Mafia esiste in ogni angolo della Sicilia - Negarlo significa aiutarla ad opprimerci

   In questi giorni si è scritto e parlato tantissimo di Mafia.
Molti anni fà un ragazzo della scuola media accompagnava per le campagne di Contessa uno studioso, un ricercatore, del nord Europa che si era proposto di capire il mondo relazionale della realtà siciliana, scrutando la microrealtà locale. In quegli anni a Corleone ogni mattina una persona veniva sparata nelle pubbliche vie, senza che mai qualcuno vedesse nulla.
Lo studioso, nel corso del cammino a piedi per le strade e trazzere del territorio, fece al piccolo accompagnatore l'inevitabile domanda: cosa pensi della mafia ?
L'accompagnatore non seppe cosa rispondere immediatamente. Era cresciuto in una scuola dove ancora si esaltava la Patria nei termini fascisti (gli stranieri non appartengono al nostro mondo), in una famiglia contadina che in quanto tale era tributaria di tutto a tutti, in una chiesa siciliana retta dal cardinale Ruffini che nel catechismo attribuiva ai "comunisti" certi discorsi. Alla fine la risposta del ragazzino fu: "La mafia a Contessa Entellina non esiste. La mafia è a Corleone".

Sarebbe interessante conoscere il seguito delle conversazioni fra lo "straniero" e l'accompagnatore. Però oggi vogliamo dire che quella risposta era condizionata da un contesto, da una realtà 'mafiosa', che invece c'era a Contessa Entellina, come nella quasi totalità della Sicilia. Forse in quegli anni a Contessa le vittime della "lupara" non cadevano ogni mattica per le strade come a Corleone, ma prepotenza, arroganza, clientelismo, raccomandazioni erano ritenute fisiologiche col vivere quotidiano.

Volendo affrontare il discorso sulla mafia da lontano, di seguito riportiamo l'editoriale di ieri, su "La Repubblica", del più anziano e più tagliente dei giornalisti italiani viventi, Eugenio Scalfari. Leggendolo attentamente si capisce la genesi dell'attuale realtà mafiosa palermitana, ma non solo di questa.

Per chi volesse fare un raffronto fra ciò che scrive Scalfari il 6 dicembre 2009 e ciò che Scalfari pensava 53 anni fà, sempre sulla mafia, riportiamo sempre di seguito una lunga ed interessante inchiesta giornalistica da lui pubblicata su "L'Espresso" del 16 settembre 1956.

Se oggi chiedessimo al tredicenne di tanti anni fà, colui che accompagnava in un giorno di una calda estate lo studioso straniero, se la mafia esista o meno, egli risponderebbe di si. La Mafia, infatti, non è solamente la "lupara", che pure di tanto in tanto a Contessa in quegli anni sparava, ma è anche la violenza che si fà alla dignità e alla libertà di ciascuno. Il gestire per fini propri ciò che è di tutti. Chiedere il favore e concedere il favore, disconoscendo al contempo il diritto che compete ad altri. Da qui i grandi patrimoni che non si sa da dove provengano. Scalfari, di oggi e di ieri, ci farà capire molte cose che sfuggono a chi vede il mondo da Contessa Entellina.
Il Contessioto

la Repubblica 06-12-2009 – Perché Cosa Nostra fa la guerra al Cavaliere
Eugenio Scalfari



Oggi debbo scrivere di mafia e lo farò perché è quello il tema che incombe. Ma non posso cominciare il mio argomento senza prima segnalare l’evento politico che si è svolto ieri a Roma dove centinaia di migliaia di persone, giovani in gran parte, hanno affollato le strade della città, la grande piazza di San Giovanni e tutti gli spazi circostanti con una manifestazione autogestita che aveva come obiettivo il ritiro della legge sul processo breve, delle leggi ad personam ed insieme le dimissioni di Berlusconi.

Si, il vero tema che ha portato in piazza quel fiume di gente erano le dimissioni di Berlusconi. Forse è un tema poco politico o forse è troppo politico. Una politica si identifica con una persona ? Si deve discutere del peccato ma non del peccatore ?

Ci sono diverse opinioni in proposito. I politici di lungo corso di solito preferiscono parlare del peccato: è un concetto astratto, raffigura un male e va condannato, ma il peccatore si può redimere e se lo fa merita perdono.

Ma se il peccatore è recidivo ? Se non si pente mai ? Se risponde reiterando ?

C’è una soglia oltre la quale esplode la rabbia e questo è uno di quei momenti. Dicevamo che i giovani sono indifferenti, ma le strade di Roma ieri non davano quest’impressione. La manifestazione non era di partito o dei partiti, è nata su Internet e si è autogestita. Guardate il risultato.

Quando si parla di territorio e di democrazia che nasce dal basso, bisogna poi andarci su quel territorio e batter le mani a quella democrazia che nasce dal basso e che chiede sbocchi politici e strumenti politici per affermarsi.

Ed ora parliamo di mafia. Leggendo la deposizione di Spatuzza al processo d’appello di Dell’Utri, Silvio Berlusconi ha commentato lapidariamente.: “Tutte minchiate”. Dell’Utri dal canto suo ha osservato: “La mafia ha deciso di attaccare il governo e spera di farlo cadere”. Il commento di Fini è stato ovvio: “Se non ci saranno riscontri seri le dichiarazioni di Spatuzza saranno soltanto parole prive di peso”. Quanto all’opposizione, nelle sue varie sfumature il giudizio è stato pressoché unanime: “Spetta ai magistrati accertare la verità”.

Che cosa dice la pubblica opinione ? Stando ai sondaggi la maggioranza relativa si affida alla magistratura, una minoranza consistente suggerisce al premier di dimettersi, un’altra minoranza anch’essa consistente condivide la parola “minchiate” a proposito di Spatuzza; infine un 20% degli interpellati non sa e non gli importa di sapere. Ma quando si arriva alle intenzioni di voto si scopre che il consenso verso il governo è ancora sopra il 50 per cento e il Pdl e la Lega sono posizionate a quota 49 per cento. Se si votasse domani con questa legge elettorale la coalizione guidata da Berlusconi vincerebbe ancora largamente.

Siamo dunque in pieno enigma e il suo scioglimento sembra ancora piuttosto lontano. Le ripercussioni sulla governabilità consentono soltanto un modesto “tira a campare” che del resto coincide con la politica economica attendista di Giulio Tremonti. Voli pindarici non sono all’ordine del giorno, semmai un piccolo cabotaggio e una ripetitiva melina.

Sul tavolo dell’attualità domina comunque la pesante accusa mafiosa contro Berlusconi e Dell’Utri, una sorta di gravissima chiamata di correità per un patto che sarebbe stato stipulato nel ’93 e sarebbe adesso stato tradito dai due eminenti contraenti e questo è il punto che la dinamica processuale dei prossimi giorni ci impone di esaminare.

L’attacco mafioso contro il governo è un fatto reale. Si svolge attraverso il pentito Spatuzza e anche attraverso le carte provenienti dalla famiglia Ciancimino. Perora si tratta di “pesi leggeri”, ma nei prossimi giorni saranno chiamati a deporre i fratelli Graviano, già da tempo incarcerati sulla base del 41 bis. I Graviano sono i capi di un pezzo rilevante del sistema mafioso. Spatuzza è un loro dipendente. Ha scelto di pentirsi ma non li ha affatto rinnegati, anzi ne ha riaffermato non solo la dipendenza gerarchica ma un affetto familiare “come fossero i miei padri” ha detto e ripetuto dinnanzi al Tribunale. Dal canto loro i Graviano, pur senza sponsorizzare le sue accuse contro Berlusconi e Dell’Utri, non l’hanno sconfessato né infamato ma hanno ricambiato con affetto il suo affetto.

La loro imminente deposizione sarà dunque fondamentale per capire se le cose dette da Spatuzza sono “minchiate prive di peso” oppure “minchiate pesanti” cioè condivise da boss potenti. Il che non significa necessariamente che il famoso patto sia veramente esistito, ma che l’organizzazione terrorista mafiosa si considera in guerra con Berlusconi.

Il perché è chiaro: il governo, il ministro dell’Interno e la Procura di Palermo stanno colpendo assai duramente in questi mesi la struttura del potere mafioso. Ieri è stato arrestato un boss molto potente, Giovanni Nicchi; la polizia è sulle tracce di un altro boss ancora più potente, Messina Denaro. I Graviano stanno già scontando l’ergastolo. A questo punto è possibile che tutto quel che resta di Cosa Nostra passi al contrattacco. La chiamata di correo sarebbe così l’atto più rilevante di questa strategia. Ma la semplice denuncia di un patto tradito non basta a dare sostanza ad una situazione processuale capace di sboccare in un rinvio a giudizio. Ci vogliono riscontri che l’accusa dovrà produrre.

L’accusa, ecco un punto molto importante da segnalare, è incardinata nella Procura di Palermo; quella stessa Procura che sta guidando con perizia ed efficacia l’azione contro i latitanti di Cosa Nostra. Non si tratta perciò –come Berlusconi continua invece a gridare- di toghe rosse che complottano contro di lui. Si tratta invece di magistrati che, proseguendo il percorso a suo tempo aperto da Caponnetto, Falcone, Borsellino, hanno smantellato pezzo per pezzo il potere mafioso. Sarebbe prematuro dare per vinta questa guerra, ma certo passi avanti notevoli sono stati compiuti, al punto che la situazione siciliana risulta oggi migliore di quella calabrese e forse anche di quella pugliese.

Tutto ciò per dire che la Procura e il Tribunale di Palermo meritano il massimo di credibilità. Spetta a loro guidare la repressione contro la mafia e spetta a loro indagare sulle chiamate di correo che Spatuzza ha anticipato.

Ho accennato domenica scorsa al precedente Andreotti. Torno ora a parlarne perché esso –sia pure in circostanze molto diverse, ci può fornire utili criteri per capire quanto sta avvenendo.

La DC in Sicilia si trovò inevitabilmente a fare i conti con la mafia. Lo sbarco americano del 1943 si era appoggiato anche ad alcuni clan mafiosi che avevano tutto l’interesse di accreditarsi verso il nuovo potere. La strategia è stata sempre la stessa: la mafia desidera esser nelle grazie del potere politico dominante, utilizzare la sua “porosità”, fornire favori e riceverne in contraccambio. Il caso Giuliano fu da questo punto di vista esemplare: il bandito dava noia agli agrari e la mafia lo eliminò. Inutile dire che gli agrari erano molto influenti dentro la Dc siciliana.

Nella Dc siciliana ci furono dei coraggiosi combattenti contro la mafia, alcuni dei quali pagarono con la vita. Ma ci fu anche una consistente zona grigia a contatto permanente con la mafia. Poiché la Dc era un partito fondato sulle correnti e poiché la mafia predilige i poteri forti e non quelli deboli, la zona grigia democristiana fu inizialmente quella affiliata alla corrente fanfaniana.

Poi sopravvennero alcuni cambiamenti che sarebbe lungo ricordare e la zona grigia della Dc in Sicilia si intitolò ad Andreotti. Cosa Nostra all’epoca era guidata dalla famiglia Badalamenti e da altre sue alleate. Tra gli uomini d’onore il più importante era Buscetta, uomo di peso e di cervello. Nella zona grigia spiccavano i cugini Salvo, esattori delle imposte in tutta la Sicilia occidentale; Lima e Ciancimino.

Scavalchiamo gli anni: cresce la statura nazionale di Andreotti, si precisano i suoi obiettivi politici, la zona grigia ai suoi occhi perde terreno perché Andreotti deve costruire una diversa immagine di sé. Per di più la vecchia dirigenza di Cosa Nostra entra in crisi di fronte all’attacco dei Corleonesi. Il commercio della droga, fino ad allora marginale, diventa prevalente negli interessi della nuova mafia.

Questi mutamenti convergenti dettano ad Andreotti una politica rigorosamente antimafiosa. I Corleonesi gridano al tradimento. Lima viene ucciso. Una spietata guerra di mafia ha inizio e culmina con la vittoria dei Corleonesi.

Passano altri anni. Il potere di Andreotti è ormai in declino. I pentiti cominciano a parlare di lui. Cominciano i processi e terminano dopo alterne vicende come sappiamo. Andreotti si difese nei processi e alla fine la spuntò: non c’erano tracce sufficienti a configurare reati. Le poche tracce riguardavano un periodo molto lontano nel tempo e caddero per consunzione.

La mafia vuole colludere con il potere. Ama il potere poroso, penetrabile, corruttibile, ricattabile. Vuole favori ed offre favori. Quando si considera tradita si vendica. Con la lupara, con la chiamata di correo, col ricatto. E quando fiuta che il potere colluso sta traballando, allora lo abbandona. Se intravede i lineamenti di un nuovo potere emergente, gli apre la strada per procurarsi benemerenze ed entrare in contatto.

Questa è la storia e spesso si ripete. Comincia con reciproci ammiccamenti, prosegue con scambio di favori, si crea un equilibrio, entra in crisi l’equilibrio, la convivenza diventa difficile, subentra la guerra.

Questa è la dinamica tra i poteri, al di sopra dei quali ci dovrebbe essere lo Stato. Quasi mai i partiti sono lo Stato e di rado lo sono i governi. Perfino la magistratura talvolta non si identifica con lo Stato. La nostra scommessa questa volta è affidata alla magistratura. Se essa si identificherà con lo Stato forse questa guerra sarà vinta.

L’Espresso16-09-1956
La mafia va a scuola in America
Eugenio Scalfari

Palermo. – La mattina del 16 settembre 1944 un camion con la bandiera rossa issata sulla fiancata entrò nel paese di Villalba, in provincia di Caltanissetta. Villalba è quasi al centro della Sicilia, la zona è prevalentemente collinosa, coltivata a mandorli ed ulivi. Accanto a numerose piccole proprietà condotte direttamente da contadini agiati (agiati come lo si può essere in Sicilia) si stende per alcune centinaia di ettari di feudo, la grande proprietà latifondistica amministrata, per conto dei proprietari assenti, dai mafiosi del luogo.

C’erano, a bordo del camion, Gerolamo Li Causi, segretario regionale del partito comunista in Sicilia, Michele Pantaleone, segretario provinciale del partito socialista, Luigi Cardamone, professore di matematica e militante comunista, e tre o quattro organizzatori sindacali. Alle porte del paese il camion fu fermato dal maresciallo dei carabinieri e da un appuntato. Sapevano che Li Causi voleva tenere un comizio, il primo comizio politico che i partiti di sinistra avessero mai tenuto a Villalba, e temevano il peggio. I carabinieri tentarono di convincere quelli del camion a tornare indietro: era uno strano posto, quello,; don Calogero Vizzini, capo riconosciuto di tutta la mafia siciliana, vi era stato nominato sindaco poco tempo prima dagli americani, accolti al loro arrivo dalla popolazione col grido piuttosto sconcertante di “Viva l’America, viva la delinquenza”. Don Calogero consentiva che soltanto i capi del movimento separatista siciliano venissero a Villalba: il sogno di fare dell’isola la quarantanovesima stella della bandiera degli Stati Uniti era ancora vivo, specie negli ambienti mafiosi. Con questi precedenti, non era assolutamente il caso di pensare ad un comizio socialcomunista, dissero i carabinieri. Li Causi però insistette; il camion entrò in paese.

Don Calogero era fermo in mezzo alla piazza, capello a tesa larga sul capo, e un grosso sigaro in bocca; aveva ai fianchi una mezza dozzina di uomini. Il resto della piazza era completamente vuoto, ma le quattro vie di accesso erano gremite dalla folla nera e chiusa dei contadini.

Gli uomini del camion avrebbero voluto cominciare subito, ma non avevano messo in conto il suono delle campane: l’arciprete di Villalba, fratello di don Calogero, cominciò a suonare a distesa: impossibile parlare. Passò quasi un’ora: gli uomini aspettavano nervosi, le campane assordavano la piazza, don Calogero fumava. Finalmente il suono finì e il comizio potè cominciare. Parlò per primo il matematico Cardamone; parlò delle repubbliche marinare, della grandezza di Venezia, Pisa, Amalfi, Gaeta. Il tema non aveva alcun riferimento alla situazione, le parole sotto il sole violento, nella piazza semideserta, suonavano addirittura assurde. Alla fine del primo discorso, don Calogero applaudì.

Parlò quindi Pantaleone: disse del proletariato, della libertà, della democrazia. Finì in un silenzio teso, e col maresciallo dei carabinieri che si asciugava il sudore che copiosamente gli scendeva sulle guance e sul collo. Le parole di Li Causi caddero nel vuoto della piazza come fucilate: “Siamo venuti a Villalba sfidando i divieti di don Calogero Vizzini, che è un volgare capo mafia”, “E’ falso” disse don Calogero, togliendosi di bocca il sigaro. A quel punto gli uomini scaricarono i fucili contro il camion, ferendo Li Causi. La folla stretta nelle quattro stridette si disperse. Michele Pantaleone sparò anche lui tre colpi di revolver. La battaglia fra la mafia e il movimento contadino era cominciata.

Bisogna risalire a questo episodio per capire a che punto siamo oggi in Sicilia con la mafia; perché la mafia, prima che un fenomeno di volgare delinquenza, è un fenomeno essenzialmente sociale e politico, che si spiega con le condizioni economiche dell’isola, ed è alimentato da cause ben precise, refrattarie ai provvedimenti di pubblica sicurezza. La polizia di Palermo si duole, come tutte le polizie del mondo, perché la Costituzione l’avrebbe lasciata inerme di fronte ai malviventi che infestano la Sicilia occidentale. Ma l’argomento è debole: da novant’anni la mafia è stata combattuta coi mezzi eccezionali della deportazione, del confino, del domicilio coatto e dell’ammonizione, senza che tuttavia sia mai stata estirpata dall’isola, ed anzi sempre risorgendo più turbolenta dopo i brevi periodi di silenzio e di apparente tranquillità.
Eppure oggi c’è un fatto nuovo in Sicilia. Un fatto che è difficile cogliere, perché la pubblica opinione rimane soprattutto commossa dalla catena di delitti che, di tempo in tempo, insanguinano le strade di Palermo, di Partitico, di Alcamo, di Villabate, ma non riesce ad orientarsi sul significato di questi episodi, sui movimenti sotterranei dai quali essi traggono, e sulle cause sociali ed economiche che li determinano.
La mafia dei Giardini ha attaccato quella dell’Acquasanta; se cade uno “scarista” ai mercati ortofrutticoli cadrà fra due ore un “guardaspalle” ai Cantieri Navali; la mafia che controlla il mercato nero del bestiame si sta massacrando, divisa fra “cosche” rivali, la mafia di Caltanissetta, dedita al traffico in grande stile degli stupefacenti e del tabacco di contrabbando, sta per entrare in azione. Che significa tutto ciò ? La mafia è ancora quella del 1866, quando il marchese Di Rudinì, prefetto del Re d’Italia a Palermo, consigliò ai grandi proprietari terrieri di ricorrere a corpi di guardie private per custodire i loro fondi, legalizzando in tal modo le cosche mafiose ? L’evoluzione economica non ha intaccato ancora questa società feudale, che riposa sulla legge della violenza privata ? Perché i prefetti ed i questori inviati nelle province “calde” di Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta non durano in media sei mesi al loro posto ? Perché la magistratura non riesce a portare a termine i processi, e quasi tutti gli indiziati per omicidi e rapine, sequestri di persona sono prosciolti in istruttoria per non avere commesso il fatto ?

Il fatto nuovo in Sicilia è questo: la mafia sta, da alcuni anni, allentando la sua presa sulla zona agraria tradizionale, sul feudo latifondistico, sui contadini dell’interno, giornalieri, metanieri o terratichieri che siano. Come una marea che si ritira lentamente e lascia in secco le terre prima sommerse, le cosche mafiose distolgono il loro interesse dallo sfruttamento delle popolazioni contadine, che da un secolo e mezzo sono state l’oggetto delle loro violenze e della loro sistematica spoliazione. Da che ha origine questo fatto ?

Dopo la mafia feudale è nata la mafia industriale e politica

I centri tradizionali in cui la mafia recluta il nerbo dei suoi elementi (quelli che si potrebbero definire i suoi quadri) sono i paesi che fanno cintura alle città, dove l’agricoltura è progredita e intensiva, la proprietà frazionata. E’ soprattutto la zona di vigne, agrumeti, orti che circonda Palermo e Trapani, i paesi di Monreale, Bagheria, Villabate, Ficarazzi, Camporeale, Alcamo, Salemi, Corleone. Qui il feudo latifondistico è scomparso da tempo, ed è sorta una borghesia rurale attiva, pronta al coltello e al sorpruso.

La classe media è, dovunque, un elemento di stabilità sociale e di ordine politico; ma non in queste zone. Qui, con un fenomeno del tutto singolare, la classe media rurale dei contadini agiati è quella donde sorgono i capi mafia, i “pezzinovanta” e i loro aiutanti, che ricattano il grande proprietario della città e taglieggiano, con la violenza fisica e con l’usura, il contadino miserabile dell’interno, Perché ? la risposta più lucida fu data da Leopoldo Fianchetti in quell’inchiesta sulla Sicilia compiuta insieme a Sidney Sonnino nel 1875, che resta il saggio fondamentale per comprendere le condizioni sociali dell’isola.

La classe media, scrisse Fianchetti, è un elemento di sicurezza quando il paese sia dominato dalle leggi e quando le infrazioni alla legge generino il timore di perdere ciò che si possiede: beni e reputazione. “Ma quando il rischio è maggiore a non usar violenza che ad usarla, cessa ogni ragione per i membri della classe media di sostenere l’ordine. Anzi, per poco che abbiano intelligenza, energia e desiderio di migliorare il proprio stato, niuna industria è loro migliore di quella della violenza”.

Ecco quindi una classe di contadini agiati, in una società in cui il potere delle leggi è quasi nullo per secolare consuetudine, divenire vomite permanente di turbolenze, di soprusi, di delitti. Il grande proprietario latifondista, il barone che consuma a Palermo o a Napoli o a Roma le rendite dei suoi feudi, delega a questa classe il governo delle campagne; ed essa lo esercita senza scrupoli, profittando della scarsità di terra disponibile in confronto all’abbondanza di braccia che cercano lavoro e pane. Così i gabellotti e i borgesi (cioè la borghesia rurale delle zone ortive ed irrigue) si collegano tra loro per schiacciare il contadino inerme e isolato, costretto a mendicare la conduzione di pochi palmi di terra accettando contratti usurari, obbligato a dipendere dai gabellotti per le anticipazioni delle sementi e degli alimenti o ad accettare salari giornalieri che ancor oggi non superano le 400 lire per non più di centodieci giornate all’anno.

Questa è la mafia tradizionale, quale ce l’hanno descritta Leopoldo Fianchetti, Pasquale Villari, Gaetano Mosca; è la mafia che uccide per mancata obbedienza, per rifiuto dei contadini ad osservare i patti imposti, per i tentativi di qualche proprietario di far a meno della pesante tutela dei gabellotti. Il fatto nuovo di questi anni è che le campagne hanno cominciato ad organizzarsi. Il movimento sindacale ha dato ai contadini un inizio di spirito di classe, le vertenze per i patti di lavoro hanno assunto un aspetto collettivo. Dominare le campagne in queste condizioni si fa sempre più difficile. La mafia tradizionale non ha certo disarmato del tutto, né ha ceduto senza combattere: dal 1944 i sindacalisti hanno lasciato 38 cadaveri sul terreno. I morti tra i semplici contadini sono stati molto di più. Ma questo tributo di sangue non ha arrestato il processo in corso nelle campagne. Oggi la mafia si ritira davanti al sindacato.

Siamo dunque arrivati ad una fase di decadenza del fenomeno mafioso ? Gli ultimi fatti di Palermo provano il contrario. La mafia è tutt’altro che morta. Solo sta cambiando direzione ed interessi. Fino a ieri, in una società quasi esclusivamente agricola, l’oggetto e il teatro delle sue violenze erano le campagne. Oggi sono a preferenza le istituzioni di un capitalismo nascente che si vanno accentrando nelle città: le grandi industrie, i mercati all’ingrosso, l’appalto dei lavori edili. Dovunque la ricchezza sia scarsa, dovunque il mercato presenti un “collo di fiasco”, dovunque un bene sia oggetto di domanda più intensa della quantità disponibile, ivi la cosca mafiosa si insedia. L’acqua che serve ad irrigare gli orti e gli agrumeti attorno a Palermo è scarsa, e gli agricoltori se la contendono. Sorge una associazione di prepotenti che la notte apre le chiuse e deriva l’acqua sui terreni degli associati e dei prepotenti. Il mercato ortofrutticolo è in mano ad un numero chiuso di commissionari ? Se un gruppo riesce a controllare la distribuzione delle licenze, esso potrà governare il mercato e i prezzi. Uno stabilimento industriale offre lavoro e una turba di operai fa ressa per ottenerlo ? Un gruppo di uomini decisi si incarica di ridurre di ridurre le maestranze ad un gregge, sotto pena di disoccupazione, boicottaggi e soppressione fisica.

Sorge una mafia nuova, giovane, aggressiva quanto l’antica aderiva agli istituti feudali della campagna latifondistica. Cambia l’oggetto ma non i metodi. E le condizioni che favoriscono il fenomeno sono le stesse: sviluppo economico troppo lento, troppo lenta accumulazione della ricchezza. Così la pressione dei mafiosi sui consumatori, sugli operai, sui contadini, si risolve in una sorta di accumulazione forzosa del capitale: la carriera cominciata come “guardaspalle” o “sparatore” termina, nei casi di successo, con l’accumulazione di un grosso patrimonio. La seconda generazione sarà quasi sempre di professionisti o di preti; il clero mafioso in Sicilia è un elemento importante per capire il fondo delle cose.

Siamo andati ai Cantieri Navali Riuniti, a Palermo, per vedere come funziona in concreto la nuova mafia e quali collusioni ed incoraggiamenti possa trarre da un ambiente industriale per tanti aspetti così lontano dal terreno d’origine delle antiche cosche. I Cantieri appartengono al gruppo Piaggio, di Genova, una delle dinastie più moderne e, in qualche modo, più illustri dell’industria italiana. Occupano in media stabilmente cinquemila operai, ma di questi ne dipendono direttamente dal cantiere poco più di duemila. L’azienda non ha voluto caricarsi di mano d’opera, per la quale avrebbe dovuto pagare tutte le assicurazioni e gli altri oneri sociali e che comunque avrebbe costituito un problema non facile in tempi di crisi e di parziale smobilitazione. Gli altri tremila operai che lavorano al cantiere non dipendono da Piaggio. Piaggio appalta alcuni lavori a cottimo ad alcune imprese locali: sono i lavori di picchettaggio, di verniciatura, di saldatura, di bullonatura. Le ditte che li assumono non sono altro che impresari di mano d’opera: per il resto gli operai lavorano in cantiere agli ordini dei tecnici di Piaggio, ma il loro rapporto d’impiego è con l’impresario locale. La più grossa di queste ditte si chiama Accomando e Alessio. Gli operai hanno la figura di avventizi, esposti quindi al licenziamento con scarse difese sindacali. Ma oltre a ciò essi sono letteralmente dominati da un gruppo di mafiosi, che decidono delle assunzioni e delle esclusioni ed esigono pronta obbedienza. I tentativi di lotta sindacale sono stroncati con la violenza. Infatti le maestranze della Accomando e delle altre ditte cottimiste minore non hanno quasi mai solidarizzato con le maestranze del cantiere durante gli scioperi che non sono mancati in questi anni. Così il governo sulle maestranze (come ieri quello sulle campagne) è delegato alla classe dirigente della mafia. E la mafia moderna perde perfino quella vernice di orgoglio indigeno e di patriarcale saggezza che ancora si ritrova in qualche “pezzonovanta” del calibro di don Calogero Vizzini.: alle prese col capitalismo industriale cessa di essere mafia e diventa “rachet”. La differenza è notevole. La mafia tradizionale taglieggiava le popolazioni contadine ma in qualche modo viveva in mezzo ad esse, partecipava del loro lavoro, delle loro usanze e dei loro sentimenti.

Il “racket” è invece un fenomeno assai più definito nei suoi confini: è una minoranza criminosa che domina con la violenza una maggioranza di cui non condivide né le abitudini, né il lavoro. I mafiosi del cantiere navale non sono operai. L’attività del “racket” è subita ma non accettata dalla maggioranza degli oppressi. I “racketers” si sentono e sono isolati, anche se ubbiditi.

Si può dunque sperare che gli istituti del capitalismo moderno finiranno per isolare sempre più ed infine abbattere del tutto il fenomeno mafioso in Sicilia ? Abbiamo posto questa domanda a moltissime persone durante la nostra inchiesta, dall’operaio dei cantieri al presidente del governo regionale on. Alessi. Alcuni confidano nell’evoluzione dei prossimi anni e parlano di strade, lavori pubblici, scuole. Ma quasi tutti accennano ad una questione che rappresenta il sottofondo gravissimo della realtà siciliana: la questione dei rapporti tra mafia e classe politica.

Tutti ne parlano, ma nessuno va al di là del generico. Eppure ciò che accade è assai grave. L’impunità assicurata ai mafiosi è generale e certa: basta scorrere l’elenco dei giudizi conclusi con proscioglimenti per insufficienza di prove, anche nei casi in cui le prove sono irrefrenabili.

Prendiamo alcuni esempi. E per primo la sparatoria di Villalba contro i comunisti, nel 1944. Il maresciallo dei carabinieri, presente al fatto denunciò Calogero Vizzini e i suoi uomini: reato di strage, uno dei più gravi del nostro codice penale. Ciò nonostante il mandato di cattura, in un primo tempo, non fu emesso. Passò qualche settimana; il reato fu degradato a tentativo di strage (malgrado i colpi fossero ben partiti dai moschetti ed alcuni avessero adirittura raggiunto il segno). Dietro le insistenze della parte civile fu finalmente emesso il mandato di cattura; gli imputati furono arrestati e messi in libertà provvisoria dopo 12 ore. Poi gli incartamenti processuali andarono inspiegabilmente smarriti. Ritrovati, furono smarriti per la seconda volta. Bisogna aspettare quasi quattro anni per arrivare al processo, celebrato con gli imputati a piede libero. La condanna fu di quattordici anni, dodici dei quali condonati. Nessuno dei colpevoli ha mai fatto un giorno di galera.

Il 6 gennaio 1947 fu ucciso a Sciacca il segretario della Camera del lavoro Accursio Miraglia. Nel marzo gli assassini materiali furono arrestati, confessarono in istruttoria e fecero il nome dei mandanti, che erano i più ricchi proprietari del luogo. Ma pochi mesi dopo, in seguito a ritrattazione degli imputati, fu aperto un processo per sevizie a carico dei funzionari e agenti di P.S. che avevano avuto in custodia gli assassini del Miraglia. Questi uomini, naturalmente vennero prosciolti per non aver commesso il fatto. L’anno scorso i funzionari imputati di sevizie sono stati assolti con formula piena; tuttavia il Pubblico Ministero, che automaticamente avrebbe dovuto riaprire il processo per omicidio del Miraglia, a tutt’oggi non si è mosso.

Di casi come questi la storia giudiziaria delle province occidentali dell’isola è piena. Perché i giudici non riescono o non possono arrivare in fondo ai processi e condannare i colpevoli ?

A Palermo, ad Agrigento, a Caltanissetta, a Trapani, tutti sanno che varie cosche mafiose vantano (ed hanno realmente) potenti amicizie politiche. Amicizie ed appoggi che vanno dal consigliere comunale del piccolo paese, al deputato e all’assessore regionale, su su fino al deputato al Parlamento. Naturalmente questi legami non sono diretti: l’uomo politico non ha nessun contatto col delinquente comune. Ma capita che abbia relazioni col trafficante all’ingrosso in favori amministrativi. Costui, a sua volta, fa piovere quei favori sui membri dell’-onorata società-. Del resto il rapporto fra mafia e classe di governo non è di oggi. Nel 1872, sotto la prefettura straordinaria a Palermo del generale Medici, ci fu un caso clamoroso: il procuratore del Re Tafani spiccò mandato di cattura contro il questore di Palermo, Albanese, imputandolo di omicidio in danno di alcuni banditi, eseguito tramite la mafia. Il caso sembra assolutamente identico a quello del capitano Parenze e del colonnello Luca, che condussero in porto l’eliminazione di Giuliano innalzando la mafia a strumento di sicurezza pubblica e consolidandone in tal modo il dominio e la reputazione. Eppure l’opinione pubblica non si è scossa in queste occasioni, non ha capito (e nessuno naturalmente si è preoccupato di farglielo capire) che la soppressione fisica sia pure di un pericoloso bandito, fatta con metodi illegali e da uomini che sono fuori dalla legge, è un fatto gravissimo, che sta alle radici del perpetuarsi in Sicilia, di una catena di violenze, di illegalità, di delitti.

Perché gli uomini politici mantengono ed anzi rinsaldano durante i periodi elettorali i loro rapporti con uomini che stanno al margine della società e della legge ? La ragione è semplice: in un ambiente per tre quarti ancora dominato dalla forza fisica e dalla miseria, in una società dove il reddito familiare annuo non supera le ottantamila lire, i voti e, soprattutto, le preferenze, si possono ancora comprare. E si comprano di fatti con la concessione di appalti a ditte indicate dai mafiosi, con le licenze ai commercianti e, soprattutto, con la protezione assicurata per i momenti di emergenza, con l’intercessione presso il questore, il prefetto, il giudice istruttore, con la rimozione dal posto del funzionario troppo zelante.

Del resto basta dare un’occhiata ai voti di preferenza che i deputati raccolgono nei principali centri di mafia, a Villabate, a Partinico, ad Alcamo, a Montelepre, per capire a colpo sicuro dove sono e chi sono i santi protettori.

Il male è gravissimo, e sta corrompendo l’organismo politico siciliano. Ne è affetta soprattutto (e lo confermano gli stessi maggiori suoi esponenti siciliani) la democrazia cristiana, e si comprende: la mafia ha bisogno di protezione di governo, e sarà sempre governativa. Tocca ai partiti di governo difendersi da questo contaggio, anzicchè ricercarlo. In notevole misura ne sono affetti anche i liberali e i monarchici, che hanno avuto responsabilità di governo, regionale o comunale.

Per la D.C. c’è un altro fenomeno sconcertante, ed è che i gruppi mafiosi sono addirittura penetrati all’interno dell’organizzazione di partito e si dilaniano in lotte intestine violentissime. I congressi provinciali e regionali del partito vengono pubblicamente combattuti all’insegna della mafia (in quello recentissimo di Caltanissetta gli amici dell’on. Alessi, notoriamente con la mafia, sono rimasti soccombenti di fronte alla fazione capeggiata dall’on. La Loggia, accusato dagli alessiani di non disdegnare l’appoggio di alcuni “pezzinovanta”.

Il fenomeno più grave è quello degli omicidi che, quasi regolarmente ad ogni scadenza elettorale, colpiscono qualche candidato o esponente del partito. La serie fu aperta pochi giorni prima del 18 aprile 1948, con l’omicidio dell’avvocato Campo, segretario provinciale della DC e candidato nella lista del partito. Campo aveva condotto una vigorosa campagna contro la mafia, e voleva recidere i legami del partito con elementi ambigui. Il processo finì, come al solito, senza approdare a nulla e gli assassini rimasero impuniti.

Nelle elezioni regionali del 1951 Eraclito Giglio, sindaco di Alessandria della Rocca, che la voce pubblica indicava come capo mafia fu incluso nelle liste della DC. Ma prima ancora che la campagna elettorale finisse, Giglio fu ucciso. Solo dopo alcuni anni di indagini si venne a sapere che l’uccisore era stato scoperto e che, a sua volta, era stato anch’egli ucciso.

Nel giugno 1953 il segretario provinciale della DC di Agrigento venne ucciso in circostanze singolari: stava viaggiando in automobile in compagnia di due suoi colleghi di partito, i deputati Gaetano Di Leo e Luigi Giglia. A un certo punto, in aperta campagna, alcuni banditi balzarono davanti alla macchina e fecero scendere i tre viaggiatori. Mentre facevano le viste di perquisirli partì un colpo e il segretario del partito, che si trovava tra i due deputati, cadde fulminato. Il processo venne, naturalmente chiuso rapidamente.

Nel gennaio 1955, a breve distanza dalle elezioni regionali, cadde il vicesindaco democristiano di Licata. La catena è lunga, i delitti nella quasi totalità dei casi impuniti. Ed è singolare che gli stessi democristiani non pensino ad imputarli ai loro avversari politici, ai comunisti o alle destre.

E’ su questo pantano morale che si insabbiano i tentativi compiuti dalle forze di rinnovamento presenti in tutti i partiti (compresa naturalmente la stessa DC) per bonificare l’ambiente e fare della Sicilia un paese moderno, più prospero e più felice.

Fino a che la coscienza non della sola Sicilia, ma di tutto il paese, non si renderà conto della gravità del problema e della necessità spietata, che tagli il marcio senza indulgenza e senza complicità, sarà assai difficile aver ragione della mafia con i soliti, abusatissimi provvedimenti di polizia decisi dal povero questore di Palermo.

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