domenica 22 novembre 2009

Il terremoto del 14 gennaio 1968 (Parte quinta)

Giornale di Sicilia
17-01-1968


Il dramma dei sopravissuti
Vagano per i campi inseguiti dalle scosse sismiche
di Pietro Petrucci

Maledetto terremoto che dopo tre giorni ancora non finisce. Non gli basta mezza Sicilia straziata, migliaia di fantasmi di uomini che scappano in un paesaggio infernale. La terra si muove ancora e quando la terra si muove ormai non grida più nessuno, fra i gruppi allucinati dei superstiti si levano solo mormorii, giaculatorie, singhiozzi. Queste montagne impazzite che sussultano non uccidono più; siamo tutti all’aperto direttamente sotto il cielo, in salvo da una morte orribile e in preda a una rassegnazione di nervi ormai saltati.

Il volto di quelli –e sono migliaia- cui il terremoto ha portato via tutto è uno solo: il volto contadino. Una tragedia di campagnoli, una circonferenza di desolazione che affiora. Trapani, Palermo e Agrigento.

Se Montevago è rasa al suolo, Roccamena lontana sessanta chilometri non ha una casa dove si possa ritornare tranquilli. Se Montevago è piena di morti, Camporeale è piena di morti vivi. Da un’estremità all’altra li unisce il frumento, i muli, le pecore e qualche vigna sul versante trapanese.

Gennaio è un mese morto; nient’altro da fare che stare in paese e lottare contro il freddo col fuoco. Il pastrano e lo scopone dietro i vetri appannati. Il frumento è lì sotto la terra appena dissodata; è appena un’erbetta verde. La piccola scorta di denaro dei sacchi venduti al consorzio sta per finire.

Il terremoto batte pazzo con i contadini tappati in paese durante l’inverno più freddo che si sia mai visto. Adesso li ha ributtati nella campagna che non li aspettava, fino a marzo. E vagano fra i campi nudi inseguiti dai sussulti della terra, dai fruscii che precedono le scosse, dai rimbombi sinistri.

Dopo tre giorni la paura è diventata malessere e stanchezza.

In questa campagna, da una collina all’altra, i disperati si vedono fra di loro; imbacuccati attorno al fuoco senz’altro pensiero che le cose perdute. Adesso anche la fame. Il terrore li ha portati fuori dalle rotte dei soccorsi, lontani da quelle macerie che fanno venire un’ossessione. Non hanno pane, latte per i bambini, acqua, una tenda.

Chiedono a me notizie su “quello che sta succedendo”. Il loro dramma è cominciato in paese e si completa nelle campagne improvvisamente ripopolate. I contadini di Camporeale non sanno ancora bene di Montevago, quelli di Santa Ninfa non sanno di Santa Margherita.

La radio a transistor è una spesa inutile. Chi ce l’aveva aveva la radio grande, quella col mobile bar e il grammofono; si possono vedere fra le macerie o in quelle stanze squarciate con le Madonne ancora attaccate.

La macchina dei soccorsi che forse soffre di elefantiasi, anche quando sarà avviata difficilmente si accorgerà di questi contadini che non sono rimasti a guardare calcinacci e rovine. Erano diseredati quando la terra non si muoveva e sono rimasti diseredati anche nella sciagura.

La macchia della disperazione ha fatto un alone di terrore che si stende fino a tre quarti della Sicilia. La terra non si ferma più. Mentre ci si chiede che direzione abbia preso questa dannata forza d’urto che si chiama epicentro; a Palermo sussultano palazzi e a Gibellina le scosse ruminano le macerie.

La tragedia grande è fatta di tante tragedie singole che da sole spezzano il cuore.

A Gibellina un gruppo di vigili del fuoco che lavorava fra i massi ha sentito un lamento: si sono buttati scavando con le mani, con le unghia. Il lamento si interrompeva poi si udiva ancora, sempre più vicino, sempre più straziante. Sotto una trave una creaturina rannicchiata col viso bianco di gesso sbriciolato.

Dieci mani verso la bambina con gli occhi chiusi e i pugni stretti. Un vigile del fuoco se l’è stretta al petto sorridendo e piangendo come piange un omaccione in divisa. Le ha soffiato sul faccino smunto per spolverarlo, l’ha baciata. Gli altri attorno a lui tutti con un groppo qui: uno le toglieva calcinacci di tra i capelli.

Poi la bambina ha aperto gli occhi grandi e spaventati e li ha fissati sull’omaccione con i lucciconi. Ha chiesto di sua madre con la semplicità dei bambini, come si fosse sperduta. La madre è rimasta lì sotto il mucchio, forse con le braccia tese verso di lei.

Con le braccia tese in avanti e la testa rannicchiata sono quasi tutti i cadaveri che le case distrutte restituiscono. A Gibellina così come a Montevago. Bloccati e schiacciati nell’estremo tentativo di sfuggire alla morsa dei muri che si chiudevano sulle loro teste. Non si sa letteralmente dove metterli i morti; non si sa come rispettare questi cadaveri che spesso non hanno nemmeno i segni della morsa che li hanno uccisi.

Non c’è un tetto rimasto su che possa coprirli, un muro che possa sottrarli agli occhi dei sopravissuti che a vederli sentono crescere l’angoscia.

A Gibellina li hanno adagiati sulle lastre del cimitero, sulle tombe anch’esse spaccate dal terremoto.


Appena fuori Montevago una parte degli scampati non ha voluto andare con i camion che li avrebbero portati fuori dall’incubo fra mura che non tremano. In un “accampamento” sono rimasti tutti quelli che hanno uno dei propri cari fra i disperati: sanno che dispersi significa una cosa sola, restati sotto la casa. Un solo filo di speranza: sotto le macerie ma ancora vivi. Aspettano senza più “lacrime”

A Salaparuta tre maialini vagano terrorizzati sulle rovine; nessuno ha il coraggio di prenderli, di fare un torto anche piccolo a chi è sulla stessa barca di disperazione: così nessuno tocca pulcini e galletti di un pollaio rimasto intatto a Gibellina. Un vigile del fuoco ha trovato una gabbia e cardellino, l’ha riposata dentro, solo il proprietario, se è vivo, avrà il coraggio di chiederli.

A un piccolon allevatore di Poggioreale il terremoto ha portato via, stritolate, trentadue mucche: un capitale grande, enorme. La tragedia degli animali è quella stessa dei contadini per cui un mulo o una vacca sono il primo bene “immobile” dopo la casetta di gesso e mattoni spazzata via.

Oggi era tornato il sole, era andata via quella cupola grigia di nuvole ossessionanti; sembrava che il cielo lasciasse almeno piangere liberamente, sfogarsi senza quei sussulti nel cervello. Poi la terra ha tremato anche sotto il sole. All’imbrunire di nuovo una scossa tremenda. Da Camporeale rimbalza la notizia di una montagna spaccata, di crateri che fumano. La fine del mondo, se non è questa, è certamente così.

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