Per capire meglio l’opera.
Saggio del librettista Stefano Busellato. Dal libretto d’opera di “Giordano Bruno” prima nazionale al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia 26.9.15
“”Cosa succede il 17 febbraio 1600?
Cosa rappresenta un uomo che arde vivo al crepuscolo di quel mattino?
Chi era Giordano Bruno e che ci importa di lui?
Eroe del pensiero; eroe che diede la vita per le proprie convinzioni, si dice; eroe che sfidò i tempi e l’istituzione più potente, e pagò sapendo di dovere, sapendo che la scelta di soccombere sarebbe stata vittoriosa per le generazioni future. Si dice. Ma è vero?
Quando parliamo di eroi e di eroismi, o di geni, o di santi, di eccezioni irripetibili ammiriamo, certo, ma allontaniamo anche. Creiamo uno spazio dove mettere l’inarrivabile e con ciò scusiamo noi stessi, evitando il confronto proteggiamo la nostra mediocrità, le nostre paure, le nostre meschinità per convivere con esse nella più serena coscienza.
Gordano Bruno fu un uomo. Questo dovrebbe inquietarci, ed è ciò che dovremmo ammirare, perchè fece quel che anche noi potremmo, ma non facciamo. Non importa della Chiesa, ormai ridotta a relitto di quanto fu, sostanzialmente innocua, oggi caricaturale, importa del rapporto tra un uomo e un sistema che si pone come unico, indiscutibile, che concede l’inclusione o decide l’esclusione.
Giordano Bruno fu lontano dall’essere la statuaria figura che oggi troneggia, bronzea e acciliata, in Campo de’ Fiori. Aveva “nome certo più lungo che il corpo” e volle tutto fuorchè immolarsi. Solo i fanatici cercano la morte per dire vere le proprie convinzioni. Bruno invece tentò in ogni modo di evitare quella sentenza capitale che al tempo, a dire il vero, era più difficile fosse pronunciata di quanto oggi crediamo.
Con abilità pari ad imperizia, con tanta astuzia quanta ingenuità egli cercò di avere salva la vita. Fu disposto ad abiurare, e lo fece (Scene V e VII), tentando di ammettere la colpa all’interno di una strategia che al contempo gli permettesse di ribadire alcuni fondamenti della propria visione, e a Venezia vi riuscì. Si illuse di poterlo fare anche a Roma, ma una non perfetta lettura della nuova situazione politica, una sottovalutazione delle forze avverse e un’enorme dose di sfortunate contingenze lo gettarono su una via senza ritorno. Quando Bruno si accorse che era persa la lotta portata avanti per quasi otto anni di carcere, non ebbe più scelta; smise con le prudenze, con gli accomodamenti, con le dissimulazioni. Eruppe, senza più esitazioni, ciò che nel proprio intimo una persona sente essere verità e ingiustizia: “Maiori forzan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam”. Ecce Homo.
La storia di Bruno è la storia di una sconfitta, così come oggi il suo pensiero resta delegato ad affluente minore della filosofia Occidentale che invece prese altro corso, un affluente però tra i più ricchi e lucenti, che sgorga con Eraclito, passa per Spinoza, Schopenhauer, e giunge almeno fino a Nietzsche. Ma ciò è materia di storia della filosofia.
Fuori da questa, il grandioso tentativo di Bruno fu quello, in termini foucaultiani, di voler mutare l’ordine del discorso. “Ordine” è la prima parola che l’inquisitore 1 pronuncia, quel potere che decide cosa sia la libertà, quali siano i suoi angusti confini, non solo di azione, ma di pensiero, valori e persino di sensazioni e di emozioni (Il Carnevale della II scena).
Extra Ecclesiam nulla salus. Ma Ecclesia non istituzione, che è storia e passa, bensì relazione tra singolo e società, tra accettazione e marginalità, è forma mentis, che è essenza e permane, e si perpetua quotidianamente. Nel contorcersi di Bruno torturato (Scena VII) si deve ascoltare il tendersi delle corde che straziano coloro che faticano a conformarsi a ciò che è, a ciò che è detto non potere essere altrimenti. E’ la violenza censoria perpetrata, nello squilibrio assoluto di forza, dall’ordine sull’eccezione, e le eccezioni sono molte, sono tra noi.
E noi stessi siamo troppo spesso strumenti attraverso cui l’Ordine, oggi anonimo, si esercita e si nutre.
Di qui la figura del Papa, che ha spazio musicale ridottissimo ma occupa enormemente quello drammaturgico e psicologico, non con l’agire ma con l’incombere. Di qui l’importanza del personaggio collettivo del coro e della sua contrapposizione sachiacciante e insistita con l’individualità di Bruno, con la sua solitudine.
Bruno è una delle più fulgenti incarnazioni del sapere aude!, appello a quell’illuminismo sovrastorico, che ancora manca d’accoglimento, e che secondo la definizione kantiana è“uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di esso non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro”.
Noi siamo limiti a noi stessi. E nulla ebbe in odio l’uomo Bruno come il limite, l’accettazione passiva di una restrizione che esige acriticità. Ciò anzitutto per ragioni caratteriali, ed è il motivo che lo portò a scontrarsi in ogni dove andasse, a essere bandito da qualunque confessioni incontrasse.
Ma soprattutto per ragioni filosofiche. In un secolo di chiusure e particolarismi, il pensiero bruniano si aprì all’illimitato, all’infinito, declinandolo in ogni modo concepibile. Infinito l’universo, infiniti i mondi, infinita la materia, la vita, le forme di vita, i possibili modi di vivere. Infinitamente liberi dall’impoverimento programmatico delle prescrizioni e da regolarsi in base all’umanissimo principio del “Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
Massimamente inclusiva è la visione bruniana dove tutto è anassagoricamente in tutto, dove la verità è mosaico al quale ciascuno porta una tessera, alla cui interminabile composizione contribuiscono egizi, greci, ellenisti, ebrei, cristiani, padri, eretici e atei, e la divinità è incommensurabile, è vertigine, è sproporzione, è ovunque, è esaltazione panteista. Quanto stride allora la chiusura in carcere con un’apertura tanto radiale (Scena X, il sorgere del sole); quanto stride una concezione dell’esistente così incessantemente variopinto, irrefrenabile, mutevole, molteplice e inesauribile con il monoteismo ritualizzato e processuale dell’Ordine dominante (Scena IX, Condanna); quanto stride la filosofia di Bruno con le vicende cui essa lo condusse (l’alternanza di scene pari e dispari).
E quanto parla diversamente la lingua di Bruno rispetto al linguaggio dell’ordinario che era allora ed è ancora.
La scrittura delle sue pagine, la poesia, la visione panoramica, il soffio corroborante ed emancipatorio che attraverso esse ci parla ancora il pensiero e l’uomo; quella lingua inchiodata ad una tavoletta di legno mentre condotto all’esecuzione, perchè ormai troppo libera e incomodante (Scena XI, Rogo). “Per le nostre opinioni non ci faremo bruciare: non siamo così sicuri di esse. Ma lo faremmo forse per poter avere e poter cambiare le nostre opinioni” scrisse qualche tempo dopo un altro frei Geist. Le prestazioni eccezionali di un individuo muoiono se non raccolte quale esempio, se non percepite quali possibilità sempre insite nell’essere umano. Ci si riavvicini allora a Bruno.