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mercoledì 16 settembre 2020

Fine Settecento. La Sicilia diventa meta degli illuministi che cercano qui la "grecità" classica (2)

 Dal giornale  "La Repubblica" annata 2003 riprendiamo un articolo di Amelia Crisantino che trattegia le condizioni della Sicilia di fine Settecento. Riteniamo utile questa lettura al fini di accrescere la conoscenza della Sicilia di allora. Era una Sicilia sostanzialmente uguale, sul piano economico-sociale, a quella di sei-settecento anni prima (periodo normanno).

Identica al periodo di insediamento degli albanesi a Contessa, a Piana degli Albanesi, Palazzo Adriano, Mezzojuso e nelle altre realtà territoriali dove subito vennero fagocitati culturalmente e religiosamente dall'ambiente siciliano.

Dalla realtà feudale-baronale dobbiamo partire per conoscere le condizioni dell'isola che aveva accolto gli arbereshe nel XV secolo; percorreremo il periodo che arriverà fino al terremoto 1968, o se si vuole alla Riforma Agraria degli anni cinquanta. La realtà umana/sociale che Caracciolo proverà a riformare era ancora quella che gli arbereshe avevano trovato col loro insediamento in Sicilia e quest'ultima realtà umano/sociale era identica a sua volta a quella voluta e instaurata dai Normanni (il Feudalesimo) cinquecento anni prima. Tutti i tentativi di riforma che Caracciolo tenterà di promuovere, per abolire il Feudalesimo, riguarderanno pari pari ciò che sussisteva sul territorio di Contessa, ciò che riguardava le famiglie degli arbereshe, oltre che, naturalmente, l'intera popolazione rurale dell'isola.

Tante saranno le novità introdotte nel periodo di Caracciolo, ma tantissime sono state le reazioni dei baroni che provarono in tutti i modi a tenere la situazione "cristallizzata" e sotto più aspetti riuscirono nei loro obiettivi.

In seguito alterneremo pagine sui viaggi in Sicilia dei visitatori del Nord Europa in visità nell'Isola in cerca della "grecità" con pagine sul riformismo borbonico, di cui Caracciolo fu protagonista.

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Il 15 ottobre 1781 arrivava a Palermo da Parigi il nuovo viceré Domenico Caracciolo. Era un illuminista, uno spirito libero fra i più noti dell' epoca. Venuto in Sicilia per lottare contro i privilegi feudali e traghettare l' Isola nell' età moderna. Ma chi era Caracciolo? Cosa faceva prima di arrivare in Sicilia? 

Nel 1780, il marchese Domenico Caracciolo era un uomo che viveva al meglio delle possibilità offerte dalla sua epoca. Da 10 anni si trovava nella Parigi sognata dagli intellettuali di tutta Europa, vi stava da protagonista. Non era un bell'uomo, aveva però il dono più apprezzato nei salotti parigini: era sagace e brillante, giocava col suo cattivo francese condito dal napoletano e lo trasformava nell' eloquente lingua personale di un uomo di spirito. Era ambasciatore del re di Napoli presso la corte francese, rappresentare un regno poco importante gli lasciava il tempo per i suoi molti interessi, sempre a contatto con scienziati, economisti e filosofi. L'acume del suo spirito gli garantiva l'amicizia degli illuministi, Diderot e D' Alembert per primi. Caracciolo era stato fortunato. Cadetto di famiglia nobile, allievo della scuola di Genovesi che a Napoli aveva educato allo spirito progressista i migliori giovani, era stato introdotto nella diplomazia dal ministro Tanucci. Aveva avuto modo d'osservare i costumi delle nazioni, i loro governi, non stancandosi di suggerire accorgimenti e riforme che potevano essere adottati nel regno di Napoli. Perché, in quegli anni, anche a Napoli si pensavano e si facevano numerose riforme, con l'intento di portare il regno in pari con l' Europa. Nel 1780 il marchese Caracciolo aveva 66 anni. Poteva ragionevolmente aspettarsi d'essere sul punto di concludere la carriera e a Parigi voleva vivere sino all'ultimo dei suoi giorni. Il dispaccio di Ferdinando III che lo nominava viceré di Sicilia gli giunse inaspettato, per niente gradito. Nei suoi "Aneddoti di varia letteratura" Croce cita le "Memorie" di Filippo Mazzei, testimone della disperazione del nuovo viceré. A Mazzei, che gli faceva notare come il clima avrebbe giovato alle sue gambe malate, lui rispondeva: «Per le gambe hai ragione, ma la testa c'è per qualche cosa». Rimandò la partenza, cercò di evitarla. Solo il 15 ottobre 1781 mise piede a Palermo. Accolto, registra Villabianca nel suo diario, con feste e grandi onori. Per quella nomina che sembrava un castigo il viceré doveva ringraziare la costanza con cui minutamente seguiva le vicende del regno; non stancandosene, pur vivendo a Londra o a Parigi. Era stato scelto per affrontare il problema siciliano, ne erano tutti consapevoli. Arrivava preceduto dalla sua fama, sembrava che lo aspettassero con impazienza. Ma la Sicilia e Caracciolo appartenevano a mondi non comunicanti, non potevano incontrarsi. Addirittura, nell'Isola era formalmente proibito possedere le opere di Voltaire e degli altri «sedicenti filosofi», cioè di quegli illuministi di cui il nuovo viceré era un tipico rappresentante. 

La Sicilia era un groviglio di particolarità. Oltre a incidere sui prezzi, l'assoluta mancanza di strade la rendeva misteriosa ai suoi stessi abitanti. Le frequenti incursioni dei pirati algerini ne esaltavano il destino insulare e sino a quel momento il governo borbonico aveva continuato la politica di quello spagnolo. Purché pagasse quanto annualmente dovuto l'Isola godeva di una larga autonomia dove leggi e ordinamenti divergevano notevolmente da quelli in vigore a Napoli. 

E' a partire dalle cronache del "Grand Tour" che la Sicilia diventa visibile agli occhi dell'Europa colta. I viaggiatori ammirano le rovine, incontrano l'alto clero e l' aristocrazia di cui lodano l'ospitalità e il gusto di vivere. Prima, l'Isola era snobbata anche nei trattati che sancivano la fine delle guerre di successione e nella gloriosa "Encyclopedie" stava scritto che la sua capitale era stata distrutta dal terremoto. La Sicilia subisce il decadimento dell'area mediterranea, esclusa dalle grandi correnti dei traffici internazionali. L'assenza di manifatture e il permanere del feudalesimo la relegano ai confini dell' economia-mondo, ritagliandole un ruolo di regione sottosviluppata all'interno di un continente in piena espansione. Né poteva andar meglio la sua cultura. Lo storico Francesco Renda scrive che l'influenza dei gesuiti aveva orientato la cultura siciliana verso l' archeologia, la storia patria e la campanilistica esaltazione del luogo natio. Qualche rara gazzetta o qualche corrispondenza letteraria non incrinavano il compiacimento di sé che pervadeva la società isolana. Tutto ciò che altrove era sottoposto alla feroce critica di filosofi ed economisti, che si dissolveva sotto l'urto delle riforme, in Sicilia continuava la sua vita tranquilla. Nessuno provava a mettere in discussione l'ordinamento feudale della società e Palermo viveva ovattata tra feste, spettacoli, compiacimento per le antiche memorie, villeggiature sontuose. Voleva essere una capitale, anche allora era una città che consumava senza produrre. Al suo popolo, che negli anni di Caracciolo raccoglieva un decimo dei siciliani e ammontava a quasi 200 mila anime, si possono adattare le parole che Croce scriveva per quello di Napoli: la città nutriva una gran quantità di gente che viveva alla giornata con mance, espedienti, imbrogli e furti e che accarezzava come ideale, di rado conseguibile e conseguito ma sempre sospirato, una lieta giornata di saccheggio. 

Se a Parigi Caracciolo aveva rappresentato il re di Napoli, a Palermo sembrava l' ambasciatore dei salotti parigini. Da solo era l'avanguardia di una piccola schiera di privilegiati che si cimentava in un progetto etico ed estetico rigorosamente laico, che escludeva le cauzioni teologiche per realizzarsi. Erano gli illuministi, credevano nell'impatto delle idee per cambiare il mondo. Contro di loro operava la forza bruta della realtà. Il nuovo viceré s'era già interessato alla Sicilia, quand'era ambasciatore a Londra. S'era accorto che le sete siciliane erano esportate grezze, vendute a prezzi stracciati. Aveva scritto due memorie, una rivolta al governo e l' altra ai produttori siciliani, al primo perché proteggesse un'industria antica e in decadenza, agli altri suggerendo come risollevarla. Vivendo a Londra Caracciolo aveva avuto modo di riflettere sulle virtù della classe media, «la più capace, più costumata e più virtuosa» della società. Quasi a sperimentare quanto la realtà poteva essere distante dalle teorie, diventato viceré di Sicilia Caracciolo si ritrova in una società dominata dai baroni e dove la classe media era assente. Né sembrava che stesse per nascere. 

Per niente intimidito - ma nelle lettere al primo ministro Acton trascritte da Pontieri si coglie la sua estrema solitudine - il vicerè sfida i baroni, li attacca frontalmente. Dispone che i contadini possano lavorare dove vogliono, senza restrizioni nobiliari: provvedimento che, sembra incredibile, interessa i due terzi del territorio siciliano. Insiste perché si faccia un catasto, nessuno in Sicilia aveva mai avuto simili idee. E lo Stato, che un tempo era stato un modello per le monarchie feudali d'Europa, sprovvisto com'era di un "Cedolario" sul quale fossero registrati i feudi viveva di tasse indirette che gravavano solamente sui poveri. Avversato dal Senato di Palermo, il viceré lavora a un piano per la costruzione delle strade e si occupa personalmente di quella che doveva collegare Palermo a Messina. Tassa le carrozze per potere lastricare le vie cittadine, abolisce quel residuo storico che è il tribunale dell'Inquisizione, in mezzo ai lamenti dei nobili palermitani che vedono sfumare sinecure e privilegi. Con le rendite del Sant' Uffizio il viceré illuminista istituisce una cattedra di astronomia e un osservatorio, una cattedra di fisica sperimentale, una di matematica, un nuovo orto botanico. Col tempo riuscirà a conquistare ai suoi programmi qualche intellettuale e parecchi siciliani, mai però i privilegiati abitanti della capitale, che sempre lo videro come una minaccia. In questo perfettamente d'accordo con quei baroni coi quali vivevano in simbiosi. E di loro Caracciolo scrive che «la lunga abitudine contratta al servire aveva degradato l'anima, tanto da far gustare qualche dolcezza nelle catene». Il viceré e i palermitani s'osservano di continuo. Lui è autoritario, loro sono maestri nell'arte dell'irrisione, diffidenti, sempre pronti al riso beffardo. Lui ha le energie e le ingenuità di un neofita della politica, loro non capiscono il perché di tanto agitarsi. Caracciolo mutava facilmente d'umore, sbuffava, passeggiava, s'arrabbiava spesso. Non s'era scrollato di dosso l'amore per le battute, peccato che in un paese con un ecclesiastico ogni 32 abitanti usasse prendere di mira le tradizioni e la fede. In mezzo all'ostilità che lo circondava, scrive Isidoro La Lumia, non capiva come «i lumi tardassero tanto a spandersi in Sicilia, e tardasse tanto a sorgervi un popolo di Enciclopedisti». Avvilito, sconfitto e per nulla rimpianto il viceré Caracciolo lascia Palermo nel gennaio del 1786 per occupare la carica di primo ministro a Napoli. Muore il 16 luglio 1789, due giorni dopo la presa della Bastiglia. Era il crollo di un mondo. In Sicilia, tornata lontana e marginale periferia, comincia quella che Francesco Renda chiama «la grande involuzione».

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