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domenica 27 novembre 2016

Referendum del 4 dicembre. Intervento

Tomaso Montanari (1971), professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’università di Napoli Federico II.
È editorialista per la Repubblica e vicepresidente di Libertà e Giustizia.

Ha pubblicato un e-book con Micro-Mega per spiegare su n. 8 interventi le ragioni del NO al Referendum del 4 Dicembre.

I° - La Questione Omerica
II° - Il Capo e la Pistola
III° - Decidere o Comandare ?
IV° - La Dittatura della Maggioranza
V° - La Democrazia come Ostacolo
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VI 
LA COSTITUZIONE DEL CEMENTO 

Con il referendum saremo chiamati a decidere anche del futuro dell’ambiente e del patrimonio culturale della nazione. Di più: saremo chiamati a decidere della salute dei nostri corpi, e di quelli dei nostri figli e nipoti. Non molti lo sanno, perché il dibattito non ha finora lasciato spazio all’analisi dell’impatto che esso avrà su quest’ambito cruciale.
Eppure i cambiamenti del riparto delle competenze tra Stato e Regioni introdotti dal nuovo articolo 117 comportano conseguenze rilevanti. Come abbiamo ricordato, l’assetto attuale di quell’articolo è frutto della riforma del titolo V della Carta promossa nel 2001 da un Centrosinistra sotto la pressione dell’assedio secessionista della Lega.
Schizofrenicamente, esso mantiene allo Stato la «legislazione esclusiva» in fatto di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», ma assegna alla legislazione concorrente delle Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali». Una mediazione che ha funzionato solo sulla carta: perché i confini tra la tutela e la valorizzazione sono impossibili da fissare in teoria, e a maggior ragione in pratica. Infatti l’unico risultato di quella riforma è stato un enorme contenzioso tra Stato e Regioni, che ha intasato per anni la Corte Costituzionale e ha finito per intralciare pesantemente il governo del patrimonio culturale.
Una riforma di quella riforma era dunque auspicabile: purché riuscisse a risolverne i guasti optando con decisione per una soluzione (statalista o regionalista), o almeno dividendo le competenze con chiarezza. Non è questo, purtroppo, l’esito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Perché, se da una parte il nuovo articolo 117 ricomporrebbe l’unità naturale assegnando (condivisibilmente) allo Stato la legislazione esclusiva su «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici», dall’altra lo stesso articolo assegna, contraddittoriamente, alle Regioni la potestà legislativa «in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici».
Esattamente come nel caso dell’iter legislativo tra Camera e nuovo Senato, anche in questo settore la riforma crea più incertezza e confusione di quante non riesca a eliminarne. Sia che le intendiamo (come dovremmo) in senso culturale, sia che le intendiamo (come accade normalmente) in senso commerciale, nessuno è infatti in grado di spiegare quali siano le differenze tra la «valorizzazione» (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la «promozione» (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso. Ma cosa ha in mente il riformatore che prova a introdurre in Costituzione la nozione di «promozione»?
Un’analisi del lessico attuale della politica mostra che siamo assai lontani da quel «promuove lo sviluppo della cultura» che, d’altra parte, i principi fondamentali (all’articolo 9) assegnano esclusivamente alla Repubblica (intesa come Stato centrale, come chiarisce la lettura del dibattito in Costituente). Tutto il discorso pubblico del governo Renzi dimostra che «promozione» va, invece, intesa in senso pubblicitario, come sinonimo di marketing. E anzi, i documenti ufficiali del Ministero per i Beni Culturali arrivano a dire apertamente (cito un comunicato del 2 maggio) che il patrimonio stesso è «uno strumento di promozione dell’immagine dell’Italia nel mondo». Se, dunque, la promozione è questa, è difficile capire perché, in uno dei pochi interventi del governo su questo punto della riforma (il discorso del ministro Dario Franceschini all’assemblea di Confindustria), si sia affermato che la riforma diminuirebbe la spesa, per esempio impedendo alle Regioni di aprire uffici promozionali all’estero: quando, al contrario, l’invenzione di una competenza regionale proprio in fatto di promozione apre le porte a una stagione di spesa incontrollata.
La grave approssimazione con cui il riformatore si è occupato di patrimonio culturale risalta particolarmente quando si consideri la determinazione e la coerenza con cui egli ha, invece, affrontato il nodo delle competenze – strettamente collegate – in materia di governo del territorio e dell’ambiente: competenze da cui vengono rigidamente escluse le Regioni, cui pure è affidata la redazione e l’attuazione dei piani paesaggistici.
L’articolo 117, infatti, riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale».
Tutte materie, queste, che l’articolo 116 esclude esplicitamente da quelle su cui le Regioni potrebbero in futuro godere di «particolare autonomia»: laddove lo stesso articolo continua, invece, ad ammettere che essa possa investire i beni culturali e il paesaggio. La ratio di queste norme era stata anticipata dallo Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come quello sulle trivelle. E non è dunque un caso che la campagna del Sì si apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo Stretto di berlusconiana memoria.
Ora, questa sottrazione di potere alle Regioni in materia di governo del territorio appare particolarmente grave: perché va esattamente nella direzione della riforma del Senato, che è quella di allontanare i cittadini dalle decisioni, facendoli votare di meno e restringendo gli ambiti istituzionali in cui possono farsi sentire. Una recente sentenza del Tribunale Permanente per i Diritti dei Popoli (una gloriosa istituzione fondata da Lelio Basso, uno dei più insigni padri costituenti) ha stabilito che in Val di Susa i governi italiani si sono comportati come una potenza di occupazione, militarizzando un territorio cui si voleva (e si vuole) imporre una grande opera strategica di interesse nazionale (proprio come quelle che il nuovo articolo 117 riserva allo Stato). Ebbene, quella sentenza
«raccomanda al governo italiano di rivedere la legge obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014 che formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio». 

Ma il governo italiano, con questa riforma costituzionale, va in direzione diametralmente opposta, costituzionalizzando, di fatto, proprio lo Sblocca Italia: se vincesse il Sì le amministrazioni locali non potrebbero più mettere bocca nelle trasformazioni del loro stesso territorio, in una sorta di colonialismo centralista che contraddice tutta la storia delle autonomie locali, che è la spina dorsale della storia culturale e politica italiana. Ma non è solo la negazione della nostra storia: è soprattutto la negazione del nostro futuro. Uno dei pochi osservatori dotati di sguardo globale e profetico – papa Francesco – ha scritto (nell’enciclica Laudato sii, maggio 2015):

che è sempre necessario acquisire consenso tra i vari attori sociali, che possono apportare diverse prospettive, soluzioni e alternative. 
Ma nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato. Bisogna abbandonare l’idea di «interventi» sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità, e non si riduce alla decisione iniziale su un progetto, ma implica anche azioni di controllo o monitoraggio costante. 

Esattamente il contrario di ciò che propone il Titolo V: e almeno su questo singolo punto si può ben dire che papa Francesco «vota» No.
Si potrà obiettare che il nuovo Titolo V riserva alla competenza esclusiva dello Stato solo le opere ritenute strategiche: è vero, ma il problema è che sarà il governo a stabilire unilateralmente, e senza possibilità di appello, cosa lo sia. Per esempio: questo governo ha dichiarato di interesse strategico nazionale la realizzazione del nuovo porto turistico di Otranto, nel quale bisognava far entrare le barche di lusso più lunghe di 70 metri care a Flavio Briatore. Ed è grazie a quella dichiarazione che si sono potuti «asfaltare» (per usare un tipico termine renziano) prima le soprintendenze e i comitati dei cittadini, e infine la costa stessa.
Ora che questo metodo centralista, autoritario, violento rischia di essere costituzionalizzato è forse il caso di farsi una domanda. L’interesse invocato dall’unico decisore centrale sarà davvero quello nazionale? È legittimo chiederselo, se si pensa alla genesi dello Sblocca Italia.
È stato un giornalista bravo e libero (Luca Martinelli) a notare che la genesi di quella legge cruciale del governo Renzi va cercata più nelle intercettazioni telefoniche dell’inchiesta fiorentina sulle 36 Grandi Opere che non negli atti parlamentari. Il 1° agosto 2014 il presidente del Consiglio illustrò alla stampa le linee guida di quel che allora era un decreto (naturalmente necessario e urgente), infilando una serie di excusationes non petitae a proposito del vero scopo del decreto: «lo Sblocca Italia, che non è semplicemente legato alla questione dei cantieri e delle infrastrutture, ma è molto più ampio: poi Federica [Guidi], Maurizio [Lupi], Pier Carlo [Padoan] e Graziano [Delrio] avranno modo di entrare nel merito e nel dettaglio, ma è appunto un ragionamento molto più ampio e interessante».  Tre giorni dopo, alle 7.56 del 4 agosto, scrive Martinelli:

 Antonio Bargone (già sottosegretario di Stato nei governi Prodi e D’Alema, oggi presidente della società promotrice dell’autostrada Orte-Mestre in project financing, n.d.r.) chiede a Ercole Incalza di inserire quell’emendamento sulla Orte-Mestre in un qualsiasi decreto compatibile di prossima approvazione [...] 
«Ercole buongiorno... senti... quell’emendamento sulla Orte-Mestre... non si può mettere su qualche decreto che sta per essere approvato?» Alla fine, un modo si trova e la mattina di lunedì 25 agosto, Incalza, sollecitato da Antonio Bargone, riferisce che l’autostrada Tirrenica e la Pistoia-Lucca non compaiono fra le opere da cantierare con il prossimo decreto (lo Sblocca Italia): «...quello che è già successo... cioè non ci sono le opere che... né la Tirrenica e penso salterà pure la Pistoia-Lucca...» Antonio Bargone ha interesse anche nella cosiddetta Orte-Mestre: «...ah! senti ma la norma della Orte-Mestre c’è ancora?» L’ingegner Incalza risponde in senso affermativo: «... sì, sì». È il comma ad hoc per la Orte-Mestre, il quarto dell’articolo 2, inserito nel decreto Sblocca-Italia: con questo intervento è possibile «ovviare» alla bocciatura della Corte dei Conti. 
Bastano tre giorni lavorativi dopo la conversione in legge del decreto, e l’11 novembre 2014 (pochi giorni prima della richiesta dei pm di applicazione della misura cautelare in carcere) Bargone, Incalza, Perotti (e Vito Bonsignore, anche lui indagato) possono festeggiare: la OrteMestre si farà, o almeno inizierà a drenare risorse per la fase della progettazione esecutiva. 

Basta anche solo questo modesto saggio a spiegare perché lo storytelling di Matteo Renzi non riesce a nascondere il fatto che gli ingranaggi del macchinario che egli vuole far girare meglio non sono quelli del bene comune, ma quelli del grumo di interessi privati che da decenni sfigura il Paese, materialmente e moralmente.
E così, quando a decidere se e dove costruire un inceneritore o un aeroporto sarà solo il governo centrale, a chi obbedirà: all’interesse strategico nazionale, o a quello dei palazzinari e delle lobbies dell’energia? Il governo sarà – così recitava il claim ufficiale dello Sblocca Italia – «padrone in casa propria» (cioè in casa nostra!): ma sarà un padrone a sua volta servo di interessi particolari.
Siamo, di fatto, alla costituzionalizzazione del cemento: cioè alla scrittura nel testo rigido della Carta di uno stato di fatto che ha sfigurato il Paese. Roberto Saviano ha scritto in Gomorra:
«La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana».
Ecco, ora ci siamo arrivati davvero: e anche se ci dicono che stiamo andando avanti, veloci verso il futuro, si tratta di un terribile salto mortale in un passato di cui speravamo di esserci liberati per sempre. Un passato in cui «sviluppo» era uguale a «cemento». In cui per «fare» era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili, e non obiettivi da raggiungere.
Per andare davvero avanti non ci vuole una riforma autoritaria che chiuda la bocca ai cittadini. Ci vuole, invece, una politica degna di questo nome: una politica che non abbia paura di costruire il consenso dei territori sui quali ritiene di dover intervenire: avocare tutto al centro significa, invece, ridurre, ancora una volta, gli spazi di democrazia e condannarsi a procedere militarizzando il Paese, sul modello della Val di Susa e del suo TAV. E poi: dove sta davvero l’interesse strategico nazionale? L’Unica Grande Opera utile per questo Paese sarebbe la cura del territorio, la sua messa in sicurezza sismica e idrogeologica: un’enorme opera che potrebbe creare finalmente lavoro, oltre a proteggere le nostre vite e a far risparmiare le somme da capogiro che dobbiamo destinare alle ricostruzioni. Ebbene, se i padri ricostituenti avessero scritto nel titolo V che è l’Unica Grande Opera a rappresentare l’interesse strategico della nazione, se ne sarebbe potuto discutere: ma è davvero intollerabile che siano ancora, sempre e solo i porti, le autostrade e gli inceneritori ad avere la precedenza sulla vera qualità della nostra vita.
Il 4 dicembre dovremo ricordarci che su quella scheda, di fatto, c’è scritto: «Volete voi che le decisioni cruciali per la salute e la sopravvivenza stessa dei vostri corpi siano prese in un luogo remotissimo da quei corpi? Volete voi la “Costituzione del cemento”?».

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