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lunedì 7 novembre 2016

Hanno detto ... ...

MARIA NOVELLA DE  LUCA (Repubblica 6.11.16) 

L’hanno chiamata la “battaglia del cognome materno”, se ne discute da 40 anni, ma finora le donne hanno sempre perso. Quando nasce un bambino, in Italia, qualunque sia la volontà dei genitori, il suo cognome sarà sempre e soltanto quello del padre. Pater familias. Sangue e discendenza. Così, nei secoli. Come se il diritto al “nome della madre”, nonostante migliaia di ricorsi, e una sentenza contro l’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, fosse qualcosa di superfluo, non fondamentale, insomma rinviabile. 
E la legge che finalmente sancisce la possibilità per i figli ad avere entrambi i cognomi, approvata alla Camera nel 2014, langue da due anni nei cassetti del Senato. (L’unico modo per ottenere il doppio cognome è quello di fare richiesta al Prefetto, come si fa, ad esempio, quando il proprio cognome è ridicolo o offensivo. Ma la concessione è, appunto, a discrezione del Prefetto). Tra due giorni però la Consulta dovrà tornare ad esprimersi sulla “battaglia del nome materno”, con una sentenza che potrebbe definire incostituzionale l’attuale “automatismo” della nostra legge, per cui ad ogni bambino viene imposto, di prassi e senza appello, il nome del padre. Un tema che tocca radici profonde, al di là dell’aspetto burocratico, il senso di identità e la parità, e forse per questo è oggetto di tanta resistenza.
Eppure già in una sentenza della Corte Costituzionale del 2006, il sistema attuale veniva definito «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza uomo donna». Anche se, in quel caso, la Consulta aveva poi concluso che toccava al Parlamento riscrivere la legge per superare quella discriminazione. Sono passati dieci anni e praticamente nulla è accaduto.
Il caso che potrebbe finalmente attuare la rivoluzione del cognome materno, nasce dal ricorso di una coppia italo-brasiliana residente a Genova, che aveva chiesto di poter registrare il proprio bambino con il doppio cognome. Sia in virtù di un concetto di parità, ma anche per armonizzare la condizione anagrafica del piccolo, che ha la doppia cittadinanza, tra il Brasile dove è identificato con il nome materno e paterno, e l’Italia dove ha soltanto il cognome del padre. Ma la richiesta della coppia, assistita dall’avvocata Susanna Schivo, era stata respinta, per quella “norma implicita” secondo la quale ai figli nati nel matrimonio va attribuito soltanto il cognome paterno. (Diverso il caso delle coppie di fatto, dove il bimbo se non viene subito riconosciuto dal genitore, ha automaticamente il nome della madre).
«È incredibile che l’Italia sia così indietro su questi diritti, l’inerzia delle istituzioni dimostra quanto il patriarcato sia ancora profondo nel nostro paese», spiega Antonella Anselmo, avvocata e componente della “Rete per la parità”, associazione fondata da Rosa Oliva, prima donna prefetto in Italia. «La Consulta deve dichiarare incostituzionale la discriminazione della madre nell’attribuzione del cognome. È un fatto di enorme portata simbolica ed educativa. Come possiamo insegnare ai giovani la parità, il rispetto dei generi, se comunque lo Stato alla nascita li identifica soltanto con il nome del padre? E l’Italia è rimasta tra gli ultimi paesi in Europa a difendere questo baluardo di maschilismo… ».
Sappiano che la forma è sostanza. Ma le resistenze sono forti. Basta ripercorre l’incredibile storia parlamentare delle dieci proposte di legge mai approvate, e dei tanti interventi di deputati (maschi) che invocavano in aula il “diritto del sangue”, o l’identificazione della famiglia con il padre.
In realtà, invece, le battaglie di tante coppie per il doppio cognome sono state spesso portate avanti in assoluta armonia tra entrambi i genitori. Come nel caso, famoso, di una coppia milanese, Luigi Fazzo e Alessandra Cusan, che alla nascita della loro prima figlia Maddalena, chiesero di poterla registrare con i nomi materno e paterno. «Naturalmente ci risposero di no», ricorda oggi Luigi Fazzo, avvocato, «ma dopo quel “no”, noi abbiamo continuato a combattere in nome di un diritto civile, che ci ha portato fino alla Corte europea dei diritti dell’uomo». Si deve infatti alla tenacia di Luigi Fazzo e Alessandra Cusan se nel 2014 Strasburgo ha condannato il nostro paese, accusato di «violare il divieto di discriminazione tra uomo e donna», con la normativa che impedisce la trasmissione del cognome materno e impone quello paterno. Una condanna così netta che il Parlamento ha finalmente votato nel 2014 una legge, oggi arenata al Senato. «Quella battaglia noi l’abbiamo persa — dice Fazzo — e così abbiamo dato ai nostri tre figli il doppio cognome per via amministrativa. Ma è evidente che la legge deve cambiare, l’Italia su questo fronte è ormai fuori tempo massimo».

MASSIMO RECALCATI (Repubblica 6.11.16) 
“”La gratitudine è sempre più un sentimento raro e misconosciuto nel nostro tempo. A prevalere non è la gratitudine ma l’invidia. È questa una coppia concettuale al centro dell’ultimo grande lavoro di Melanie Klein ( Invidia e gratitudine), una dei più grandi psicoanalisti dopo Freud. 
Se la gratitudine è diventata oggi un tabù del quale quasi vergognarsi, l’invidia sembra invece governare l’avidità acefala della pulsione ipermoderna. Molto più facile invidiare che ringraziare. Sapere dire “grazie!” sembra essere diventato un tabù. Lo diceva Voltaire quando ricordava che è più facile condividere i dolori di un amico che i suoi successi. Ma perché la gratitudine è divenuta così rara? Perché si dimenticano sempre più rapidamente i doni ricevuti? Accade tra genitori e figli, come tra allievi e maestri. Sul posto di lavoro, come nei legami di amicizia. A dominare è il fantasma dell’invidia: distruggere l’oggetto che ci soddisfa perché troppo ricco di vita, mordere la mano che ci nutre. È una constatazione amara che faceva anche Alda Merini quando ricordava che l’invidia si scatena sempre di fronte alla felicità della vita piena dell’altro.
L’invidia nega ogni forma di gratitudine e di memoria: vuole la morte dell’Altro, il suo sbandamento, la sua caduta, la sua corruzione morale. Non a caso Melanie Klein situava l’invidia nel rapporto originario che l’essere umano intrattiene con la madre, il cui prototipo si troverebbe nella relazione del bambino col seno. Nessun seno può, infatti, sottrarsi ai colpi dell’invidia primaria dell’infante. Nemmeno una particolare abbondanza del seno è sufficiente – come ricordava già Freud – a soddisfare pienamente la spinta avida della pulsione orale.
Anzi, solitamente il seno più invidiato è quello che si è rivelato più generoso. È proprio il seno più ricco, più vitale, che diviene più facilmente oggetto d’odio. Il soggetto vive infatti la sua vita – la vitalità ricca del seno – come il segno della sua indipendenza e alterità. Dunque come l’esistenza di un oggetto sul quale la pulsione del soggetto non può mai avere il dominio assoluto. Non è infatti il bambino a decidere i tempi della presenza o dell’assenza del seno. Questo genera una condizione di frustrazione che rafforza l’avidità distruttiva della pulsione e la sua invidia. Anche quando la pulsione può godere della presenza del seno, la sua intensità è così insaziabile che rischia di danneggiarlo, di distruggerlo.
Questa attività di distruzione – continua Klein – tende a generare fantasmi di persecuzione: la mano morsa ritorna come mano che vuole uccidere. Più il soggetto scatena la sua distruttività sull’oggetto più l’oggetto diviene persecutorio. Una fortunata serie cinematografica come Alien non parla che di questa trasformazione. 
In modo più divertente lo fa anche Woody Allen in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere, dove un enorme seno – oggetto originario dell’amore invidioso – rotola minaccioso da una montagna rischiando di schiacciare il soggetto impegnato in una fuga.
La gratitudine sorge dal timore di avere danneggiato l’oggetto con la propria insaziabile voracità. Per Klein essa può sorgere solo da una trasformazione depressiva dell’angoscia che non è più causata dall’oggetto (dalle angosce persecutorie che la sua ritorsione aggressiva provoca), ma per l’oggetto, per la sua integrità, per la sua esistenza offesa. L’accesso alla gratitudine dipende dai rimorsi provocati dalla distruttività esercitata verso l’Altro amato, colpevole di non essere di nostra proprietà esclusiva. Essa è un movimento di riparazione che riconosce all’oggetto la funzione vitale che ha avuto per la nostra vita. È l’effetto del riconoscimento del debito simbolico che ci lega all’Altro. La vita che nega l’esistenza separata dell’oggetto è, invece, vita persa nell’odio e nell’invidia distruttiva.
Riconoscere l’assoluta alterità dell’oggetto è una tappa essenziale nel processo di umanizzazione della vita: non posso divorare, assimilare, governare, rendere simile a me, l’alterità dell’Altro. Per il bambino è questo incontro a generare l’esperienza primaria della frustrazione: chi mi soccorre, chi placa l’urgenza dei miei bisogni, non è in mio possesso, non mi appartiene. L’amore non è appropriazione. L’invidia scaturisce da questo sentimento di impotenza e di dipendenza. La sua meta è distruggere l’alterità dell’Altro per ribadire una illusoria indipendenza del soggetto. Diversamente l’accesso alla gratitudine significa il riconoscimento di tutto quello che ho ricevuto dall’Altro. Ringraziare significa riconoscere la grazia dell’Altro, la sua assoluta differenza. In questo senso la forma più alta della gratitudine è quella della preghiera nella quale si ringrazia del dono dell’essere, del dono della nostra presenza nell’essere. Nella gratitudine infatti – come nella forma più radicale della preghiera – non si chiede nulla, ma, semplicemente, si ringrazia di ciò che si è ricevuto. È il tratto essenziale di ogni discorso amoroso: ti sono grato per nessuna delle tue proprietà o qualità, per nessun tuo attributo, ma della tua stessa esistenza. Spinta al fondo la gratitudine è la forma più alta del riconoscimento della vita dell’Altro come vita piena e autonoma, impossibile da raggiungere. Per questa ragione il sentimento della gratitudine sconfina nell’amor fati con il quale Nietzsche definiva il rapporto dell’uomo con il proprio destino: la gratitudine è sempre gratitudine per l’evento stesso del mondo.”

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