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mercoledì 30 novembre 2016

Olio d'oliva. Nell'annata di crisi (in Sicilia) è esplosa la richiesta mondiale

LA SICILIA/Catania


L'olio extravergine d'oliva conquista il mondo proprio quando la produzione italiana si dimezza e quella siciliana è quasi azzerata. 
È il paradosso che sintetizza uno studio presentato ieri dalla Coldiretti: in un quarto di secolo il consumo di olio d'oliva è aumentato del 73% a livello mondiale, e il mercato statunitense si è piazzato al terzo posto per domanda di olio, alle spalle di Italia e Spagna, con il Giappone che è letteralmente impazzito per l'oro verde con un +1.400% di incremento del consumo. 
Ma, come detto, il nostro Paese quest'anno non sarà in grado di soddisfare la domanda del 2017. 
La produzione in corso, secondo Coldiretti, è di 243 mila tonnellate (-49%). In Sicilia, riferisce Giuseppe Piccolo, presidente Asprol Sicilia-Coldiretti, che associa 4.500 produttori isolani, «rispetto alla media la produzione è crollata fino al 75%; rispetto alla scorsa annata si è scesi dell'85%». 
Le ragioni, spiega Piccolo, stanno «nelle avverse condizioni climatiche: scirocco durante la fioritura, caldo estivo che ha favorito massicci attacchi delle mosche contro i quali le colture biologiche non hanno potuto reagire, vento poco prima della raccolta. In alcune zone del Messinese e di Sant'Agata di Militello, in molte aziende non si è raccolto». 
Tre i problemi generati da questa situazione: «L'aumento di domanda fa lievitare i prezzi se l'offerta di prodotto è bassa-sottolinea il presidente regionale dell'Asprol -. E questo, assieme alla poca quantità disponibile, ci impedisce di competere sui mercati esteri proprio ora che sono più favorevoli; di questo approfitteranno Paesi extra Ue che producono a basso costo e senza le nostre regole e la nostra qualità. Ma c'è anche il rischio - incalza Piccolo - che, pur di mantenere la presenza sul mercato locale, alcuni produttori privi di scorte e di scrupoli possano ricorrere all'incremento dell'import di olio straniero spacciandolo per siciliano». 
Tornando allo studio Coldiretti, in un quarto di secolo l'olio d'oliva ha conquistato il resto del mondo, dal Brasile alla Russia; mentre nei Paesi tradizionalmente produttori, come Italia, Spagna e Grecia, i consumi rallentano. Il dossier (presentato ieri nel corso della Giornata mondiale dell'olio d'oliva indetta dal Consiglio oleicolo internazionale), rileva che negli ultimi 25 anni i consumi nel mondo sono balzati del +73%. 
Si va dal +250% degli Usa (al terzo posto dopo Italia e Spagna con 308 milioni di chili), al +1.400% del Giappone con 60 milioni. 
Nel corso di quest'anno nel mondo sono stati consumati 2,99 miliardi di chili. In vetta alla classifica si conferma l'Italia con 581 milioni di chili, seguita dalla Spagna con 490 milioni di chili. In Europa altro grande consumatore è la Francia che ha superato i 103 milioni (+268% negli ultimi 25 anni). Gran Bretagna e Germania ne consumano rispettivamente 59 milioni ma con un balzo del 763% rispetto a 25 anni fa - e 58 milioni (+465%). 
Una rivoluzione nella dieta si è verificara anche in Brasile, dove l'aumento è stato in 25 anni del 393% per un totale attuale di 66,5 milioni, e in Russia, dove a fronte di un'impennata dei consumi del 320% si registra però una quantità ancora limitata a 21 milioni di chili. 
La situazione - continua la Coldiretti - è invece diversa nei Paesi tradizionalmente produttori come l'Italia, dove nel corso dei 25 anni i consumi sono rimasti stabili (+8%), la Spagna, dove c'è stato un aumento del 24%, e la Grecia, dove si è verificato addirittura un calo del 27%. Il boom ha avvantaggiato anche l'Italia, con un aumento record delle esportazioni dell'8% nei primi otto mesi del 2016. In particolare sono cresciute le esportazioni in Ciña (+18%), dove però le quantità sono ancora ridotte, in Giappone (+7%), in Usa (+11%), dove è diretto quasi 1/3 dell'olio di oliva che varca le frontiere nazionali.

Le ragioni del NO al Referendum - Le ragioni del SI al Referendum

 
NO
Io dico no, per ragioni di merito e di metodo, e per una terza ragione, di valutazione storica. Comincio dalle ragioni di merito. Primo, con la riforma il bicameralismo non finisce ma resta, non più paritario ma in compenso molto confuso. Il senato non sparisce ma non sarà più elettivo. Non diventa affatto un senato delle autonomie, espressione dei governi regionali e con competenze sul bilancio, ma una camera di serie b, composta da consiglieri regionali e sindaci scelti su base partitocratica, i quali tuttavia, pur privi di legittimazione elettorale, avranno competenze su materie cruciali come i rapporti con l’Unione europea e le leggi costituzionali e potranno richiamare le leggi approvate dalla camera per modificarle. Secondo, la riforma del titolo V, invece di correggere quella malfatta nel 2001 dal centrosinistra, la rovescia nel suo contrario: da troppo regionalismo si passa a troppo centralismo, con la clausola di supremazia dell’interesse nazionale che tronca in partenza qualunque opposizione dei comuni e delle regioni a trivelle, inceneritori, grandi opere, centrali a carbone e quant’altro: se il governo li considera “di interesse nazionale” e ce li pianta sotto casa ce li teniamo.
Terzo, combinata con l’Italicum (che è la legge elettorale vigente, e non è affatto detto che cambierà se vince il sì, nonostante le promesse di Renzi in questo senso, prese per buone da una parte della minoranza Pd) la riforma istituisce di fatto (ma senza dichiararlo, come almeno faceva la proposta di riforma Berlusconi del 2005) il premierato assoluto: maggioranza dell’unica camera titolare del voto di fiducia al partito che vince le elezioni, in caso di forte astensione anche con un misero 25 per cento del corpo elettorale; ulteriore incremento del potere legislativo del governo e del capo del governo. E non bastasse, elezione del presidente della repubblica in mano al partito di maggioranza a partire dalla settima votazione, in caso di assenza di una parte dell’opposizione. Detto in sintesi, il cuore della riforma sta in un rafforzamento dell’esecutivo e del premier a spese del parlamento e della rappresentanza, in un accentramento neostatalista a spese delle istituzioni territoriali, in una lesione del diritto di voto dei cittadini: il contrario di quello che una buona riforma dovrebbe fare.
Passo alle ragioni di metodo, per me perfino più decisive di quelle di merito. Questa riforma è nata male e cresciuta peggio. È nata da un’indebita avocazione a sé, da parte del governo, di un potere costituente che non è del governo, ed è stata approvata – a base di minacce di elezioni anticipate, sedute notturne, canguri e dimissionamento dei dissidenti – da una maggioranza parlamentare risicata e figlia, a sua volta, di una legge elettorale dichiarata illegittima dalla corte costituzionale. Dopodiché è stata brandita dal presidente del consiglio come una personale arma di autolegittimazione e di sfida degli “avversari” – “parrucconi”, gufi, “accozzaglie” e quant’altro – sulla base dell’unica benzina che muove la macchina renziana, cioè della parola d’ordine della rottamazione, applicata anche alla carta del 1948. Una riforma profondamente e programmaticamente divisiva del patto fondamentale che dovrebbe unire: è questa la contraddizione stridente che minaccia il cuore stesso del costituzionalismo, e ricorda il sovversivismo delle classi dirigenti di gramsciana memoria. A quanti e quante votano sì tappandosi il naso, per paura delle eventuali conseguenze destabilizzanti di una vittoria del no, vorrei sommessamente chiedere di non sottovalutare la ferita difficilmente cicatrizzabile che potrebbe invece conseguire da una vittoria del sì, ovvero dall’approvazione di una costituzione non di tutti ma di parte.
Non è l’unica contraddizione che accompagna questo referendum: ce n’è un’altra, più promettente. Presentata come una svolta radicale, e corredata dal lessico che da mesi ci bombarda incontrastato da tutti i media – innovazione vs conservazione; decisione vs consociazione; velocità vs paralisi; semplificazione vs complessità – la riforma Renzi-Boschi in realtà non innova ma conserva, e non apre ma chiude un ciclo. Sigilla – o ambisce a sigillare – il quarantennio dell’attacco neoliberale alle democrazie costituzionali novecentesche, racchiuso tra il rapporto della Trilateral per la “riduzione della complessità” democratica e l’attacco della JP Morgan contro le costituzioni antifasciste dei paesi dell’Europa meridionale. La storia del revisionismo costituzionale italiano, dalla “grande riforma” vagheggiata da Craxi a quella bocciata di Berlusconi a molte delle stesse ipotesi del centrosinistra, è accompagnata dalla stessa musica: più decisione e meno rappresentanza, più governabilità e meno diritti, più stabilità e meno conflitto. E malgrado le grandi riforme della costituzione siano state fin qui respinte, questi cambiamenti sono già entrati ampiamente, e purtroppo, nella nostra costituzione materiale (nonché in quella formale, come nel caso del pareggio di bilancio).
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MARCO SIMONI   Ph.D. Dottorato di Ricerca in Politica Economy, 
consigliere di Palazzo Chigi per la politica economica; 
è esperto di capitalismo comparato e relazioni industriali
SI
Le ragioni del Sì spiegate a un inglese
Tantissimi anni fa un grande dirigente socialista ci disse che per essere sicuri di aver scritto una cosa chiara e eliminare fronzoli inutili bisognava riuscire a tradurla in inglese, per quanto maccheronico. 
Qui ho fatto il contrario e forse, a tradurre in italiano una cosa scritta in inglese pensando a lettori stranieri, si aggiunge un piccolo punto di vista alle tante cose già scritte sul referendum.

Perché gli italiani stanno per votare a un referendum sulla loro Costituzione? 
Comincerò col rispondere a questa domanda, e con un’avvertenza. Già Professore Associato alla London School of Economics, sono al momento un consigliere economico del Primo Ministro italiano. Spero comunque che la mia scrittura sia tanto trasparente e oggettiva quanto è capace di essere: in fondo io ho accettato la mia attuale posizione perché sostengo le politiche dell’attuale governo, e non il contrario.
La necessità di una riforma costituzionale
Negli ultimi tre anni circa, il governo Italiano ha perseguito un programma di riforme molto ampio, da nuove leggi su lavoro e banche, ai diritti civili per cittadini gay e lesbiche, fino a tagli di tasse e un aumento delle assunzioni di insegnanti nelle scuole pubbliche. Mentre perseguiva il suo programma, il governo si è anche adoperato per favorire una significativa riforma della Costituzione Italiana.
Quest’ultima non è arrivata come un fulmine a ciel sereno. Fin dai primi anni ottanta, ci sono stati quattro tentativi principali di modernizzare la Costituzione italiana, e numerosi tentativi minori. I primi sono tutti finiti in nulla, nonostante anni di discussioni, testi, voti in Parlamento e anche un referendum. Alcuni tentativi minori andarono invece in porto, in particolare una riforma approvata nel 2001 che aumentò i poteri dei governi regionali senza allo stesso tempo attribuir loro maggiori responsabilità di imposizione fiscale, così che negli scorsi 15 anni i governi locali hanno assunto di fatto potere di veto su qualsiasi decisione di importanza nazionale che fosse politicamente sensibile a livello locale – una situazione sfruttabile da politici locali in cerca di affermazione.

In altre parole, le discussioni su come meglio cambiare la sezione della costituzione che articola la configurazione istituzionale dell’Italia sono un tema chiave degli ultimi quarant’anni di democrazia in Italia. Inoltre, e di conseguenza, in Italia i dibattiti costituzionali non sono stati confinati tra gli specialisti, ma sono discussi da platee più ampie. Il governo in carica si è impegnato, fin dal primo voto di fiducia, a contribuire a portare finalmente questa discussione a una conclusione positiva.
La ragione principale questa centralità del dibattito costituzionale è il particolare sistema parlamentare dell’Italia per il quale entrambe le camere hanno esattamente gli stessi poteri, ma sono elette attraverso meccanismi leggermente diversi. Questo sistema fu pensato nel dopoguerra per rafforzare i controlli di minoranza e come un forte argine per prevenire una nuova affermazione del fascismo.
Gli effetti del “bicameralismo perfetto”, come viene chiamato, sono essenzialmente due. Primo, ha generato un’estrema instabilità dei governi. L’Italia ha avuto 63 governi negli ultimi 70 anni. Secondo, ha promosso un estremo correntismo interno alle camere, enfatizzando piuttosto che mitigando, la frammentazione politica tipica dell’Italia. Ogni legge deve essere approvata da entrambe le camere usando esattamente lo stesso testo, e non esistono meccanismi di conciliazione a disposizione per risolvere le differenze di opinione, e questo crea dunque il potenziale per una serie infinita di votazioni.
Ciò ha ovviamente generato un forte incentivo a creare piccoli gruppi d’interesse, anche episodici, con l’effetto collaterale aggiuntivo di avere troppe leggi e una spesa pubblica fuori controllo generata in buona parte da piccole misure elettoralistiche stimolate dal Parlamento. Solamente alcune crisi acute, all’inizio degli anni ’90 e nel 2011-12 hanno consentito dei rimedi, abbastanza improvvisati e impopolari, per rimettere sotto controllo o diminuire l’altissimo debito pubblico che si era accumulato durante gli anni ’80, che è rimasto sostanzialmente inalterato nei decenni seguenti. Infatti, anche dopo l’introduzione di leggi elettorali quasi-maggioritarie nei primi anni ’90, la configurazione istituzionale ha impedito che si verificasse la auspicata stabilità dei governi.
Perché gli italiani dovrebbero approvare la riforma proposta
La riforma in discussione, che è sospesa in attesa del referendum, ha passato sei voti in Parlamento, ossia tre in ognuna delle camere. Il prodotto finale affronta le due questioni principali che ho sottolineato sopra: il bicameralismo e la distribuzione delle competenze tra le regioni e lo Stato. Se la riforma sarà ratificata, il Senato sarà radicalmente ridotto a 100 rappresentanti, che comprenderanno membri delle assemblee regionali e sindaci, e non rientrerà più in suo potere di votare la fiducia al governo, ma sarà limitato a un piccolo numero di materie (materie costituzionali, sul metodo per adottare leggi europee, e sulla organizzazione dei governi locali). Il Senato inoltre potrà esprimere pubblicamente eventuale disaccordo su quanto deciso dall’altra camera, e suggerire (ma non imporre) cambiamenti legislativi. In breve, il Senato offrirà solo un controllo sul potere della maggioranza espressa dalla Camera dei Deputati, mentre quest’ultima manterrà tutte le prerogative legislative. Inoltre, la riforma chiarifica la distribuzione di poteri tra lo Stato e le regioni, principalmente ricentralizzando competenze su un numero di aree strategiche (ad esempio, energia, commercio, e altre).
Oltre ai due cambiamenti principali, la riforma aggiunge alcuni bilanciamenti e controlli al potere della maggioranza e fa un po’ di ordinaria manutenzione come ad esempio ponendo un limite definito agli stipendi dei consiglieri regionali (che sono incredibilmente alti) e abolendo il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), la cui funzione è stata poco chiara alla maggior parte degli italiani per gli scorsi settant’anni. Nel complesso, la riforma renderà le istituzioni più magre, tagliando 215 senatori elettivi, completando l’eliminazione dei governi provinciali (mentre si mantengono quelli regionali e comunali) e abolendo il CNEL. Secondo me, gli effetti collaterali principali saranno probabilmente un ridotto potere dei singoli gruppi di interesse nel processo legislativo, e una ridotta influenza dei politici locali in cerca di affermazione.
Tenendo in considerazione l’ultimo capoverso che ho scritto, non è una sorpresa che questa riforma sia stata capace di attrarre una considerevole opposizione, anche tenendo in considerazione che essa è sostenuta da un governo che negli ultimi anni ha riformato alcune vacche sacre, solo per menzionare le più grasse: lavoro, banche, diritti di gay e lesbiche. 
Ad ogni modo, vorrei prendere sul serio quello che considero essere l’argomento principale contro la riforma (anche se è uno dei meno usati) e offrire una diversa argomentazione per spiegare perché invece sarebbe uno sviluppo positivo per l’Italia. Infine, concluderò descrivendo i due campi opposti a favore e contro la riforma.
È probabile che la riforma, se approvata, renderà i governi più stabili e più efficaci. I governi potranno essere sfiduciati ed essere sostituiti prima dello scadere della legislatura, come avviene nella maggior parte dei sistemi parlamentari, ma questo sarà meno probabile che accada rispetto a oggi. Si potrebbe anche sostenere che, anche se il potere dei ministri e del primo ministro è lasciato invariato, la riforma indirettamente rafforzi i governi. Alcuni italiani considerano quest’ultima come una cosa indesiderabile. Alcuni suggeriscono che abbiamo un maggior, non minore, bisogno di contro-poteri nei confronti dei governi, in tempi come questi nei quali i populisti tendono a dominare il dibattito pubblico. Nel suo argomento contro la riforma, Valentino Larcinese esplicitamente lamenta il fatto che “noi abbiamo più che mai bisogno di quelle restrizioni al potere esecutivo” come per esempio il bicameralismo perfetto, come un freno al potere della maggioranza.
Questa tesi è basata su una concezione errata dei sistemi parlamentari – ad esempio nel Regno Unito, Germania o Spagna, il governo è sempre un’espressione della maggioranza parlamentare, e il potere dei capi partito di far eleggere in parlamento deputati fedeli è ovunque significativo, sia in sistemi maggioritari che proporzionali. Ma lasciamo perdere le tecnicalità e concentriamoci invece sull’idea, che è centrale a questa tesi in Italia, che il parlamento debba agire come un contropotere rispetto al governo, rendendo le sue azioni più accorte e dunque migliori. Al contrario, io credo che vi sia una tesi più convincente da sostenere secondo la quale è esattamente la debolezza dei governi, in Italia e altrove – la loro incapacità di rispondere alle domande dei cittadini in una maniera efficiente, efficace e trasparente – che ha dato carburante alla crescita dei populisti e della politica della “post-verità”.
In altre parole, io credo che alla fonte della attuale mancanza di fiducia nelle istituzioni pubbliche che sta montando nelle democrazie occidentali, vi sia l’incapacità dei governi di affrontare le ragioni di disagio pubblico e offrire soluzioni a temi che sono profondamente sentiti. Questa incapacità di offrire risposte – ad esempio la lentezza della UE nell’affrontare la crisi economica o la crisi dei migranti, o l’incapacità dei governi italiani di perseguire qualsiasi significativo cambiamento nei quindici anni che hanno preceduto il governo attuale – ha anche radici di tipo istituzionale. Questo sicuramente riguarda l’Italia, dove piccoli gruppi possono bloccare legislazioni per anni, ma probabilmente riguarda anche altri paesi. Uno può avere la visione politica più trasformativa e illuminata che vuole, ma il fallimento delle istituzioni di tradurla in fatti finirà per nutrire la sfiducia nella democrazia. Secondo me, l’argomento principale a favore della riforma, e dunque per votare Sì, si trova nella importanza del legame tra una democrazia efficace, il rafforzamento del principio di responsabilità, e la fiducia nel sistema politico.
Le due campagne
Per concludere, vale la pena descrivere brevemente i due campi che al momento sono impegnati nel dibattito in Italia. Il governo e la sua maggioranza parlamentare sono a favore della riforma. Questo comprende il Partito Democratico e il suo leader Matteo Renzi, e due partiti centristi minori. Alcune figure politiche molto stimate, come Emma Bonino, ex Commissario Europeo e attivista per i diritti civili, o Walter Veltroni, ex sindaco di Roma, hanno appoggiato la riforma. La principale federazione degli industriali, la principale associazione degli agricoltori e la seconda più grande confederazione sindacale, sono anche a favore. Un ampio numero di figure pubbliche, per esempio il premio Oscar Roberto Benigni o il CEO di Fiat-Chrysler Sergio Marchionne, si è anche espresso pubblicamente a favore della riforma.
In prima linea contro la riforma sono un piccolo numero di coloro i quali hanno votato a favore della riforma nel loro ruolo di membri del parlamento, ma hanno ora cambiato idea e deciso di votare No al referendum. Questa lista comprende l’ex primo ministro Silvio Berlusconi e il suo partito di centro-destra, che ha deciso di cambiare idea sulla riforma perché l’attuale Presidente della Repubblica (che è eletto indirettamente dal Parlamento) non era la sua prima scelta. Anche Mario Monti, l’ex Primo Ministro tecnocratico, nonché senatore a vita, ha deciso di votare No nonostante abbia precedentemente votato Si al Senato, perché considera che la più recente legge di bilancio non è abbastanza austera. Terzo, una piccola minoranza del PD, compreso l’ex leader del PD Pierluigi Bersani, voterà No perché non è convinta della combinazione tra la riforma costituzionale e la legge elettorale per paura che possa ulteriormente dare potere alla maggioranza di turno. Val la pena notare che la legge elettorale non è parte della riforma, che era già stata approvata quando questa fazione del PD ha votato “Si” in parlamento e che è probabile che essa venga comunque cambiata dopo il referendum. Queste motivazioni da me riassunte sembrano in effetti poco consequenziali, e lontane dal contenuto del referendum, ma desidero sottolineare che si tratta di un riassunto di motivazioni espresse, non una mia interpretazione.
In opposizione alla riforma, fin dal principio, c’è il principale partito populista di opposizione, il Movimento Cinque Stelle, che ha gioito alla vittoria di Trump assieme al partito anti-europeista della Lega Nord (anch’essa decisamente opposta alla riforma costituzionale). Inoltre, sono contro la riforma: la più grande confederazione sindacale, CGIL, orientata a sinistra; il piccolo partito della Sinistra Italiana e tutti i movimentini minoritari di estrema destra e estrema sinistra. Una parte di questa opposizione è motivata dalla disapprovazione nei confronti del Primo Ministro – da un punto di vista di sinistra, o di destra, a seconda – altre motivazioni sono meno coerenti. Infine, anche una maggioranza relativa della vecchia leadership politica degli anni ’80, ’90 e dei primi anni 2000 è contro la riforma.
Un buon riassunto delle critiche di questo gruppo di ex politici si può trovare in un postpubblicato da EUROPP, uno degli autori del quale è il professor Emerito Gianfranco Pasquino dell’Università di Bologna, che è stato membro del parlamento Italiano tre volte negli anni ’80 e ’90. L’articolo conclude sostenendo che una volta che questa riforma sarà fallita (dopo tre anni di discussioni e deliberazioni, che sono seguiti a 40 anni di tentativi falliti di riformare la costituzione) si aprirà un nuovo spazio per riforme che siano meglio congegnate e più utili.
Secondo me, gli italiani non dovrebbero perdere questa opportunità per una vera riforma, che affronta alcune importanti debolezze istituzionali dell’Italia, piuttosto che affidarsi a un atto di fede che qualcosa di molto meglio arriverà, un giorno, per magia.

Referendum del 4 Dicembre. Intervento


Tomaso Montanari (1971), professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’università di Napoli Federico II.
È editorialista per la Repubblica e vicepresidente di Libertà e Giustizia.

Ha pubblicato un e-book con Micro-Mega per spiegare su n. 8 interventi le ragioni del NO al Referendum del 4 Dicembre.

I° - La Questione Omerica
II° - Il Capo e la Pistola
III° - Decidere o Comandare ?
IV° - La Dittatura della Maggioranza
V° - La Democrazia come Ostacolo
VI° - La Costituzione del Cemento
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VII 
TINA TRUMP 

Un certo numero di intellettuali di sinistra si è schierato per il Sì, pur dichiarando di ritenere la riforma, nel merito, «una schifezza» (così, letteralmente, Massimo Cacciari).
Il più chiaro nello spiegare le proprie ragioni è stato Michele Serra, in una «Amaca» uscita su Repubblica il 23 ottobre 2016:
«La Costituzione renziana è il punto di arrivo di una restaurazione il cui fulcro consiste nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati». 
Lo spiega su Micromega il vecchio, insigne Raniero La Valle. Concetto folgorante, ma ho una domanda da fare: c’era bisogno della riforma Boschi-Renzi per raggiungere un obiettivo già ampiamente realizzato ben prima che Renzi andasse al governo, e quasi prima che Renzi nascesse? 
Il «trasferimento della sovranità dal popolo ai mercati» (o meglio dalla politica all’economia) è cosa fatta da almeno una generazione, a dispetto di La Valle e di una moltitudine di altre persone, tra le quali mi annovero: politicamente parlando, una moltitudine di sconfitti. 
Verbosi, animosi, generosi, virtuosi, speranzosi e tanti altri «osi», ma sconfitti, secondo la celebre battuta che recita, a bocce ferme, «la lotta di classe c’è stata davvero, e l’ha vinta il capitale». Perdere non è disonorevole, se ci si è battuti con coraggio. 
Ma l’ombra della propria sconfitta non può e non deve ricadere su chi è arrivato dopo, e il «trasferimento della sovranità ai mercati» se l’è trovato bello e fatto. Quello che non mi convince, nel profondo, nella campagna per il No, è che imputa alla post-politica dei nostri tempi le sconfitte e le inadempienze che furono della veteropolitica, e a un gruppetto di trenta-quarantenni la responsabilità di quanto già ampiamente accaduto. 

Alla risposta di La Valle, Serra ha replicato esplicitando ulteriormente il proprio pensiero:

Io credo che la riforma Boschi-Renzi non c’entri nulla con la perdita di sovranità del popolo e il trionfo dei mercati. Credo preveda un blando rafforzamento dell’esecutivo, una semplificazione (sperata, chissà se realizzabile) degli iter legislativi e un pasticciato rimaneggiamento del Senato che sarebbe stato molto meglio abolire per passare a un sistema monocamerale. Credo, insomma, che si tratti di una riforma tecnico-istituzionale sulla quale è assurdo scaricare il peso di mutamenti strutturali della società e dell’economia (la «sovranità dei mercati») già avvenuti da tempo, nonostante gli sforzi, a volte generosi a volte solo presuntuosi, di una sinistra che non ha retto l’urto del cambiamento e forse di quel cambiamento, in qualche caso, neppure si è avveduta.

 Questo punto di vista merita una risposta articolata.
La campagna per il No non imputa a Renzi le sconfitte della generazione di Serra, ma intende salvare l’unica cosa che ha impedito che quelle sconfitte fossero definitive: la Costituzione della Repubblica. È un fatto che Confindustria, Sergio Marchionne, le grandi banche nazionali e internazionali e la maggior parte degli ultrasessantcinquenni votano Sì: mentre la Cgil, l’Arci, Libera, l’Anpi e la maggior parte di chi ha meno di sessantacinque anni votano No.
Se si trattasse solo di sveltire le pratiche parlamentari questa spaccatura non avrebbe senso: se ce l’ha, è perché la posta in gioco è la definitiva espulsione dei cittadini dalla politica.
La vera partita che stiamo giocando riguarda l’ultimo tassello di un mosaico che è stato descritto con efficacia da Luciano Gallino: in tutta Europa «la “costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, [...] [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Ecco, con la riforma Renzi si cerca di costituzionalizzare questo stato delle cose, di scrivere nella Costituzione formale i contenuti di quelle costituzioni non scritte.
Ma – dice Serra – la riforma riguarda questioni tecniche come il rapporto tra governo e parlamento, o quello tra governo e Regioni: cosa c’entra tutto questo con la sovranità dei mercati? Ebbene, lo ha spiegato, con chiarezza cristallina, la più grande banca del mondo, la JP Morgan, in un suo documento del 2013:

Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali ad un’ulteriore integrazione della regione [nel mercato globale]. [...] All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia [europea], che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. 
Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori [...] e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. 
I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. [...] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo gover- no ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche. 

Quando si evoca questo documento, le sopracciglia degli uomini di mondo si aggrottano, e un sibilo fende l’aria: «complottismo!»
Ebbene, non riesco davvero a vedere cosa ci sia di complottistico nel citare un documento pubblico, redatto da una banca realmente esistente e dedicato alla riforma della Costituzione di un Paese realmente esistente. Si tratta, in ultima analisi, di prendere atto che il «lobbismo» esiste anche in Italia, e che una pressione di questo tipo è da gran tempo esercitata anche sulla riforma della legge fondamentale, così come accade per altre leggi (di quello che ha deformato lo Sblocca Italia si è appena dato un saggio). Prova ne sia che in un autorevole articolo del Corriere della sera del 1° aprile 2014 l’autorizzatissimo «quirinalista» Marzio Breda scriveva che, per comprendere la determinazione dell’allora presidente Giorgio Napolitano nel sostenere questa riforma costituzionale, «basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla JP Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano.
Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace». Non si tratta, dunque, di complottismo, ma della necessità di prendere atto che ridurre il potere del Parlamento e delle Regioni, e dunque ridurre i modi in cui i cittadini possono incidere sulle scelte politiche, va incontro ai desideri di una parte dominante del mercato finanziario: un mercato che è, evidentemente, meno sicuro di Michele Serra di aver già del tutto vinto la sua guerra di sterminio contro le sovranità nazionali. Per inciso, bisognerebbe anche notare che Matteo Renzi ha più volte detto esplicitamente che il suo modello di leader politico è Tony Blair, e ha anche più volte annunciato che, dopo due mandati alla guida del governo (e lasciamo, qua, perdere che i mandati del presidente del Consiglio sono nella disponibilità del presidente della Repubblica e del Parlamento, e non del diretto interessato!), farà come lui: cioè andrà in giro per il mondo a fare conferenze e consulenze.
La domanda è: sarà identico anche il finanziatore? Il Financial Times ha stimato in due milioni e mezzo di sterline il compenso annuo che la JP Morgan versa a Blair, e la prima volta che «Tony» e «Matteo» hanno cenato insieme l’organizzatore era proprio l’amministratore delegato della banca americana. Quella cena avvenne nel palazzo Corsini di Firenze il 1° giugno 2012, e il giorno dopo Tony Blair dichiarò a Repubblica che «Renzi comprende perfettamente la sfida che ha di fronte.
Se facesse solo dei piccoli passi rischierebbe di perdere la spinta positiva con cui è partito. Perciò c’è una coerenza tra il suo programma di riforme costituzionali e le riforme strutturali per rilanciare l’economia».
Ricapitolando: se la nostra Costituzione è ritenuta un ostacolo dalla JP Morgan, e se la riforma costituzionale Renzi scioglie alcuni dei nodi indicati dalla JP Morgan, è legittimo ritenere che questa riforma abbia a che fare con una partita che non è ancora chiusa. È assai significativo che ad essere d’accordo con Serra siano gli elettori di oltre 65 anni, l’unica fascia di età in cui il Sì è dato in vantaggio dai sondaggi.
E il punto non è il rimbecillimento senile (come ha detto, con infelice battuta, Massimo D’Alema: che d’altra parte appartiene a quella fascia d’età), ma semmai la rassegnazione: la profonda convinzione che ormai non si possa far nulla se non piegare la testa sotto la forza di un’onda inarrestabile. È in quest’ottica che un’intera generazione ritiene accettabile, e anzi desiderabile e pacificatorio, far cadere l’ultima ragione di attrito, quella Costituzione che ricorda, fin troppo dolorosamente, tante battaglie perdute.
A ben vedere, questa rassegnazione si traduce in una sfiducia radicale nella democrazia, e nella politica stessa. È un atteggiamento diffuso, ben sintetizzato in queste parole di Claudio Giunta: «Matteo Renzi ha opinioni spesso ragionevoli, come le hanno più o meno tutti, ma a differenza di più o meno tutti sembra avere la capacità di coagulare attorno a sé il consenso e sembra possedere la serena incoscienza per mettere in pratica qualcuna di quelle idee, in modo che ne esca un effetto positivo non in relazione ai problemi reali che dobbiamo affrontare, che stanno ormai al di là della portata della politica, ma in relazione a certe piccole questioni di contorno, a certi ingranaggi del macchinario».
L’equazione, dunque, è la seguente. La politica ormai non conta più molto, visto che a governare le nostre vite è il mercato: e siccome Renzi può forse oliare il binario della gestione di questa resa quotidiana, facciamo quel che ci chiede, e votiamo Sì.
Si tratta dell’ultima versione – soft, depressa, mansuetamente sfibrata – del famoso TINA: There Is No Alternative, il motto dell’età del neoliberismo rampante della Thatcher e di Reagan, rivitalizzata da Blair.
È questo il vero nucleo del messaggio di Serra: non c’è alternativa, dunque per favore smettiamo di illuderci e di lottare. E sdraiamoci in pace. Si tratta, naturalmente, della fine dell’idea stessa di una qualsiasi Sinistra: cioè di una politica che cerchi di mutare lo stato delle cose contestando il primato del denaro in nome del primato della persona umana e dell’eguaglianza. Ma la fede in Tina (cioè nella mancanza di alternativa allo stato presente delle cose) è accettabile solo per chi abbia qualche forma di garanzia: ma per una maggioranza crescente di occidentali, qualunque alternativa comincia ad esser preferibile allo stato presente delle cose.
Perché anche per l’Occidente vale ormai questa constatazione di Joseph Stiglitz: «Vari paesi nel mondo offrono esempi spaventosi di ciò che accade a una società quando raggiunge il livello di disuguaglianza verso il quale ci stiamo dirigendo. Non si tratta di una bella immagine: sono paesi in cui i ricchi vivono in comunità recintate, assediate da masse di lavoratori a basso reddito; sono sistemi politici instabili, dove il populismo promette alla gente una vita migliore soltanto per disilluderla».
Dal 9 novembre 2016 questo ritratto impietoso vale anche per gli stessi Stati Uniti d’America. Fino a quel momento Tina non aveva cognome, perché il suicidio della Sinistra aveva spinto metà dell’elettorato all’astensione. Ma da quel giorno la terribile Tina ha assunto un cognome non meno terribile: Trump. Perché è fin troppo evidente che la svolta davvero epocale dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca è il frutto avvelenato e mostruoso del tradimento radicale della Sinistra: a forza di dire che non c’è alternativa, la disperazione degli scartati, dei marginali, dei sommersi ha trovato la sua alternativa.
In breve, il tradimento delle élites intellettuali sta costringendo al suicidio non solo le masse che credono di aver trovato un’alternativa, ma l’intera democrazia occidentale. E qui – una volta tanto – l’analisi dei contenuti coincide con la reazione più istintiva: perché il fatto che la giovane ministra per le Riforme sia indelebilmente associata, per via familiare, ad un odioso scandalo bancario suscita in larga parte della cittadinanza italiana sentimenti di rigetto del tutto analoghi a quelli provocati da Hillary Clinton ad ogni sua apparizione televisiva.
In breve: quando la dottrina della Sinistra afferma che il sistema non è modificabile, una parte crescente di cittadini affida il proprio consenso a chi promette di abbatterlo, quel sistema.
Allora, dev’essere ben chiaro che chi voterà Sì perché «non c’è alternativa» lavora attivamente per preparare il terreno ad altri Trump.
Votare No, invece, significa dire che crediamo che la battaglia non sia ancora perduta: significa che un’alternativa è possibile.

I grandi dell'Umanità

Fëdor Michajlvic Dostoevskij (Mosca 1821 -  San Pietroburgo 1881)


Le sue opere costituiscono dei "classici". 
Le opere classiche (Omero, Dante etc.) secondo quanto ci ha fatto intendere Italo Calvino hanno sempre qualcosa di nuovo da trasmettere alle generazioni di tutti i tempi.

Le opere letterarie di Dostoevskij hanno sempre qualcosa di filosofico e tendono sempre a trovare l'equilibrio fra il bene ed il male che segnano l'uomo.
I personaggi di questo scrittore hanno sempre una vita interiore e da essi, che siano umili personaggi che sussurrano o monologhi di soggetti dell'intellighenzia  viene sempre fuori l'urlo contro l'ingiustizia.
Non mancano le contraddizioni ed il dubbio che sempre affiorano nel vivere dell'uomo. Tutte le sue opere si concludono nella possibilità e nell'attesa della speranza.

Questo autore accompagnerà con riflessioni e con quadretti sull'umanità il pensare sul Blog.

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“Il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive.” 
Dostoevskij 


Hanno detto ... ...

GIUSLAVORISTI PER IL NO.
Con riferimento all'assetto istituzionale desideriamo evidenziare che la riforma realizza un forte e pericoloso accentramento dei poteri, introducendo nel contempo innovazioni tanto discutibili quanto confuse.
Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché la formazione del Senato prevista è priva di senso. Avremmo infatti un Senato composto, a rotazione, da presidenti di regione, consiglieri regionali e sindaci appartenenti a diversi schieramenti politici. Non quindi un Senato in rappresentanza unitaria dei territori, come nel sistema tedesco. E neppure un Senato dotato di una forte legittimazione politico-territoriale come nel modello USA. Ma una improbabile sommatoria di soggetti diversi, nessuno dei quali potrà vantare una vera rappresentanza territoriale e neppure una trasparente legittimazione politica.
ENZO BIANCHI, priore di Bose
Noi uomini e bestie siamo tutti animali,ma noi siamo responsabili verso di loro non loro verso di noi e loro lo sanno
DAVID CARRETTA, giornalista
Gianni Pittella domani potrebbe annunciare la sua candidatura a presidente del Parlamento Europeo per succedere a Martin Schulz a gennaio.

CONFAGRICOLTURA-Taranto
Le cronache recenti trasmettono l’allarme degli agricoltori italiani per il “crollo” dei prezzi di vendita della produzione di grano: i ricavi non sono più sufficienti a compensare i costi, molte aziende rischiano di “chiudere”, tante altre abbandoneranno la coltivazione di grano, soprattutto nel Mezzogiorno, in particolare del grano duro che, proprio nel nostro Paese, rappresenta la materia prima per la produzione della pasta, eccellenza del Made in Italy agroalimentare che alimenta una quota consistente del nostro export di settore.

DALAI LAMA, 
We know that everyone who is born has to die, but the important thing is that while we are alive we should make our lives meaningful.
Sappiamo bene che chi nasce deve pure morire, ma la cosa importante è che finchè siamo in vita dobbiamo dare significatività ad essa.

martedì 29 novembre 2016

Cristianesimo. Storie, ricorrenze, fatti, personaggi ed Ecumenismo di oggi n. ''004

010)
celibato
“La formazione dei presbiteri e la possibilità di ordinazione di uomini sposati”. 
Parte di un articolo pubblicato
nell'agosto di quest'anno su
ItaliaOggi

Nella Chiesa di Roma, che tiene molto a riferirsi a Pietro, l'apostolo che in casa -a Cafarnao- aveva moglie e suocera, è Questione delicata, e lo stesso Papa Francesco l'ha più volte toccata in interviste e interventi ufficiali, ma sempre ribadendo che il celibato è una buona cosa e non lasciando presagire cambiamenti imminenti su tale prassi. 
In particolare, tornando dal viaggio in Terrasanta, nella primavera del 2014, a domanda di un giornalista rispose: 
“La chiesa cattolica ha preti sposati, nel rito orientale. Perché il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita che io apprezzo tanto e credo che sia un dono per la chiesa. Non essendo un dogma di fede, sempre c’è la porta aperta.

011)
celibato

Il sacerdozio assicura alla Chiesa bizantina (cattolica o ortodossa) il carattere di apostolicità; su queste basi è da sempre stato consentito ai sacerdoti sposati -prima dell'ordinazione- di svolgere la missione nello stato di coniugato.
Si tratta di una antica tradizione ed è la tradizione della generalità delle Chiese orientali. 
Lo prevede e lo sancisce il Codice di diritto canonico.

Evitiamo in questa sede di affrontare problematiche dottrinali e/o teologiche, ma soffermandoci su alcune diffuse sensazioni è facile -per chi vive a Contessa Entellina- smentire l'asserzione secondo cui il sacerdote celibe ha più tempo per dedicarsi alla chiesa, alla missione ed ai fedeli. 
La verità è che i sacerdoti sposati, dal parroco attualmente in carica alle figure storiche di cui si conserva la memoria, tutti hanno svolto bene la loro missione e la gente avvia più facilmente il dialogo con i papàs sposati che con quelli celibi. A Contessa i papàs non sposati sono stati negli ultimi due/tre secoli una minoranza esigua.   
012)
identità
Essere amanti delle specificità comunitarie e/o locali è al contempo una via decisiva per desiderare l'unità fra tutti i cristiani.
Possedere gerarchie che siano convinte assertrici dell'identità e della libertà della Chiesa bizantina è più facile per far pulsare l'antica tradizione spirituale, levigata da secoli di sopraffazioni "romane" e per coltivare l'attaccamento alle radici antiche.
Il forte (fortissimo)  senso di identità non è mai stato giocato in senso opposto all'ecumenismo e all'unità della Chiesa cattolica.
Per gli arbëreshe libertà e identità non sono mai state usate in contrasto con l'unità. 
Anzi è avvertito bene che l'unità sia una esigenza  pressante di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, secolarizzato, globalizzato, senza frontiere.
Tutti oggi proviamo ad essere e ci ritroviamo uomini universali, ma ciascuno resta nel contempo ciò che è stato, ciò che ha vissuto e ciò di cui è stato plasmato sul piano culturale; nel nostro caso di arbëreshe con il gusto pronunciato all'incontro e la sensibilità aperta alla comprensione dell'altro.
Ecco perchè anche la piccola violenza "culturale" ai nostri danni ci indigna, e parecchio.   

Storie di Sicilia. Dai malèfici alla scienza del terzo millennio

Ancora sulla giustizia nella Sicilia dei baroni
(nel periodo in cui gli arbëresh si insediarono 
nei feudi dei Peralta-Cardona)

Bando (provvedimento dell'autorità feudale), e bandito (persona messa al bando) hanno radice comune e connessione etimologica. 
Col bando si rendeva una persona nemica del paese, nemica della comunità. Essendo quella persona stata resa nemica, chiunque era abilitato ad ucciderla senza dover incorrere in alcuna sanzione. 

Il bandito, che si era resa irreperibile, presentandosi agli organismi preposti alla sicurezza baronale poteva far riaprire il processo per discolparsi, ma non esisteva, allora, alcuna garanzia sul "giusto processo", dal momento che era già insorto ed era stato alimentato diffusamente il pre-giudizio.

I delitti "politici", che si concretizzavano nella "ribellione da fame" e talora nel "brigantaggio", per definizione e per disposizione regia (discorritori di campagna) erano animati (aizzati) dai "ribelli" e ad essi si applicava immediatamente (e senza processo) la confisca dei beni.

Da quella seconda metà del secolo XV dovranno passare più secoli perchè venga riconosciuta l'immoralità della condanna pregiudiziale nei confronti di chi ostenta "opposizione" ad un regime politico. 
Ancora oggi, in più parti del mondo, molte (tante) persone sono perseguitate ed assassinate per la loro avversione al Potere.  In Europa fino a ieri il Nazi-Fascismo ed il Comunismo -su questo aspetto- non avevano nulla da invidiare ai regimi feudali dei quali stiamo trattando.

La famiglia del bandito veniva spogliata anche dei beni aviti, per delitti (o presunti delitti) ai quali non aveva partecipato.
Il procedimento attingeva le sue regole non tanto dall'ambito baronale, che comunque ne applicava gli effetti, quanto dalle Costituzioni Siciliane risalenti agli Svevi. 
Così si può leggere una norma:

Si quis infra annum
a die  banni editi (non si presenterà al maestro giustiziere che lo ha bandito),
sarà dichiarato forgiudicato.

Soltanto i  forgiudicati potevano essere uccisi da chiunque: i banditi invece, ove presi, dovevano essere consegnati alla giustizia.

La Costituzione federiciana stabiliva:
sia reputato nemico pubblico, così che impunemente possa essere offeso da chiunque, e se alcuno l'ucciderà, non si aspetti pena, ma premio dalla nostra grazia.

Le singole sentenze di bando si pubblicavano a suon di tamburo o di tromba more solito et consueto, ed anche si facevano periodici bandi generali per tutte le terre (=i paesi) con l'elenco dei nomi dei banditi ricercati in tutto il Regno di Sicilia.  

lunedì 28 novembre 2016

SABINO CASSESE. Le ragioni del SI al Referendum; GUSTAVO ZAGREBELSKY. Le ragioni del NO al Referendum


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SABINO CASSESE 
(SI)
Al centro della modifica della nostra legge fondamentale vi sono due parti: riduzione di dimensioni e poteri del Senato; e la sua trasformazione in organo di rappresentanza di Regioni e Comuni. 
Ma il sistema parlamentare non cambierà.

La riforma costituzionale, approvata due volte dalle due camere a maggioranza assoluta, che sarà sottoposta in autunno a referendum confermativo, si sta caricando, nel dibattito animato in svolgimento, di significati e valenze ulteriori. Sarà bene, quindi, esaminare spassionatamente che cosa prevede la riforma e perché.
Al suo centro vi sono due parti: riduzione di dimensioni e poteri del Senato; sua trasformazione in organo di rappresentanza di regioni e comuni. C’è allora da chiedersi perché abbandonare il bicameralismo perfetto o paritario e perché ridisegnare poteri e ruolo delle regioni.
Perché lasciare alle nostre spalle un sistema parlamentare binario, che secondo molti serve per rendere più riflessiva la funzione parlamentare, per correggere gli errori che una sola camera può fare? Una ragione c’è. 
Quando fu approvata la Costituzione, il popolo votava soltanto per il Parlamento nazionale. Nel 1970 fu chiamato a votare anche per i consigli regionali. 
Nel 1979 fu chiamato a votare anche per il Parlamento europeo. Questi corpi concorrono con il Parlamento nazionale alla formazione delle norme. Svolgono con efficacia la funzione di contrappeso. Si aggiunge a questi il controllo della Corte costituzionale, organo di bilanciamento per eccellenza, in funzione dal 1956. Quindi, il compito originario del Senato — che questo comunque ha svolto molto poco, limitandosi ad essere un doppione o un fattore di ritardo — si è esaurito.
Perché ridefinire compiti e ruolo delle regioni, ciò che secondo alcuni costituisce un riaccentramento di poteri? Anche qui vedo una ragione. 
Da un lato, infatti, le regioni, con la riforma del 2001, avevano visto ampliate le proprie funzioni in aree di interesse nazionale, costringendo la Corte costituzionale a una minuziosa attività di ridefinizione di ciò che è locale e di ciò che è nazionale. 
Dall’altro, le regioni, attori importanti dello scacchiere pubblico, erano ferme al livello amministrativo. La riforma costituzionale riconosce l’opera quindicennale della Corte costituzionale e affida allo Stato temi come il commercio estero, le disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia. 
Viene ora, quindi, operato un ragionevole riequilibrio, dando rilevanza costituzionale alla rappresentanza regionale e locale, e alla funzione di raccordo tra i diversi livelli di governo, nonché riconoscendo — solo per fare un esempio — che il diritto alla salute è eguale per tutti i cittadini: va quindi concretamente assicurato nello stesso modo su tutto il territorio nazionale. 
Se, in futuro, le regioni avranno l’intelligenza di portare al Senato più voci della società civile e dei corpi intermedi, ne trarremo un beneficio ulteriore.
Restano due interrogativi: non stiamo modificando troppo spesso la carta costituzionale? Il ridisegno del Senato e delle regioni può incidere sulla forma di governo parlamentare? 
Si tratta di preoccupazioni importanti, che vanno considerate, perché il patriottismo costituzionale è una importante parte della storia repubblicana e perché un cambiamento del sistema parlamentare non può essere compiuto per vie traverse. 
La prima preoccupazione non ha ragion d’essere. La costituzione tedesca, che ha la stessa età della nostra, è stata modificata un numero di volte quasi quadruplo rispetto a quella italiana, e su punti più rilevanti di quelli toccati dalle nostre 15 modificazioni in 70 anni di vita della Repubblica. 
La circostanza che il governo avrà la fiducia della sola Camera dei deputati non modifica il sistema parlamentare, evita soltanto la stanca e inutile ripetizione della procedura di votazione della investitura parlamentare al governo in due assemblee con analoghe maggioranze (o la paralisi del sistema quando le maggioranze divergono). 
Insomma, per quanto i toni si stiano alzando, l’assetto costituzionale che esce dalla riforma si iscrive nella nostra tradizione repubblicana e le fa fare un passo avanti, consolidandola.
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GUSTAVO ZAGREBELSKY 
(NO)

Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo. 

1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro) Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. 
È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi. 

2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa” (…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità.
Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte? 
3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità” (..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico. 
4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente. 
Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…) 
5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo.
Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica. 
6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente” 
Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…) 
7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962. 
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)