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domenica 19 giugno 2016

Se questi sono i nostri rappresentanti ! Ecco spiegato perchè oltre la metà degli italiani li disprezza e non si reca a ... votare

Articolo di Emiliano Fittipaldi (L'Espresso 17.6.16) 
“Tutto per tre giorni di lavoro a settimana”
“”I senatori e i loro familiari non hanno mai paura di sedersi sulla sedia del dentista. Non perché più coraggiosi degli altri mortali, ma perché il conto, loro, non lo pagano mai. Ci pensano gli italiani: grazie all’assistenza sanitaria integrativa ogni parlamentare può avere rimborsi fino a 25 mila euro nell’arco di un quinquennio. Un plafond che comprende anche «lo sbiancamento di denti non vitali (250 euro per dente)» e «corone in oro e porcellana» a 1.150 euro l’una.

Se il Censis segnala che 11 milioni di concittadini rinunciano alle cure a causa della crisi economica, e l’Ufficio di bilancio del Parlamento ha spiegato che il 7,1 per cento evita di farsi visitare perché i costi delle prestazioni sono troppo alti, lo stesso Parlamento regala a ogni senatore della Repubblica un plafond supplementare da 1.500 euro l’anno per farsi «una depressoterapia intermittente». Una somma che può essere spesa anche per «un’idrochinesiterapia» (si fa in piscine termali) e pure – se si tiene alla linea, l’estate ormai è alle porte – per «drenaggio linfatico manuale».

In passato i Radicali avevano raccontato che ai deputati vengono rimborsati persino sedute di agopuntura e trattamenti shiatsu. Ebbene, se le proteste a nulla sono servite e i rimborsi per i massaggi sono ancora lì, nessuno sapeva che il tariffario di Palazzo Madama prevede anche «sedute individuali di training per dislessici», e che prevede risarcimenti di quasi mille euro al mese per pagare un infermiere in caso di bisogno (il servizio si può estendere anche ai genitori del senatore). 
Il senatore può presentare anche fattura per un paio di scarpe ortopediche da 600 euro (qualcuno giura che ce ne sono di molto eleganti in pelle), e se colto da attacchi d’ansia può spendere 5 mila euro l’anno per sedute dallo strizza-cervelli.
Ecco. Il tariffario dedicato ai senatori, datato maggio 2015, è solo una delle evidenze che dimostrano come, nonostante gli scandali infiniti, le proteste dell’opinione pubblica, il ludibrio internazionale e le batoste elettorali, i privilegi della “casta”sono stati appena scalfiti. È vero: le province e i costi per gli stipendi dei presidenti e dei consiglieri sono stati cancellati, i vitalizi per gli attuali parlamentari finalmente aboliti, ma per il resto prebende e vantaggi assortiti non sono stati toccati. «Il cash a disposizione dei parlamentari è rimasto praticamente identico», spiega la grillina Laura Bottici, questore al Senato che da tre anni sta ancora tentando di districarsi nella bolgia di sconti e stratagemmi (tutti leciti) con cui gli eletti possono gonfiare busta paga e aumentare le loro franchigie.
L’OZIO DORATO
Andiamo con ordine. La busta paga della Bottici è identica a quella dei suoi colleghi: l’indennità parlamentare è di 5.246 euro netti al mese. Se l’eletto fa anche un altro lavoro, scende un po’, a 4.750 euro. Se i grillini si sono decurtati lo stipendio, sono decine i deputati che mantengono la doppia professione. Nessuno stress: a Montecitorio e Palazzo Madama ci si va pochissimo, e il tempo libero non manca. «In questa legislatura in Senato si lavora da martedì pomeriggio, quando partono le convocazioni in aula e commissione, fino a giovedì mattina. Per interrogazioni o question time si arriva a dopopranzo: ma il senatore non ci va quasi mai, e il giovedì alle 14 parte e torna a casa» ragiona la Bottici. «Pure le commissioni sono sempre deserte: solo quando si vota l’affluenza aumenta, perché la maggioranza non vuol rischiare di andare sotto. Anche noi andiamo poco in aula, lo ammetto: le discussioni sono del tutto inutili, è la regolamentazione che va cambiata al più presto».

È probabilmente d’accordo con lei Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, almeno a spulciare le statistiche Openpolis: in tre anni deputato-fantasma di Forza Italia ha votato 86 volte su 16.365, con un tasso di assenza pari al 99,51 per cento. A Montecitorio tra i meno presenti ci sono l’altro forzista Rocco Crimi (che ha l’8 per cento di presenze), l’ex Pd Francantonio Genovese (assenze forzate le sue, visto che è stato arrestato nel maggio del 2014), l’alfaniano Filippo Picone (che ha un invidiabile 82 per cento di assenze), seguito a ruota da Giorgia Meloni, oberata leader dei Fratelli d’Italia che vanta un tasso di assenteismo del 76,4 per cento.
Recordmen in Senato sono invece l’avvocato di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini e il capo di Ala Denis Verdini: il primo s’è presentato in aula lo 0,91 per cento delle volte, il secondo è stato assente l’88 per cento delle sedute.
L’assenteismo è spesso giustificato dall’inutilità della presenza fisica. In effetti, dai tempi dei governi Berlusconi l’interventismo governativo ha trasformato i parlamentari in meri pigiatori di bottoni, obbligati a un ozio strapagato e a una noia dorata.

È un fatto che le leggi, principale attività per la quale vengono eletti i Nostri, sono ormai appannaggio quasi esclusivo dell’esecutivo: dal 2013 Camera e Senato hanno approvato in tutto solo 36 leggi di iniziativa parlamentare, mentre ne hanno approvate 176 di iniziativa del governo. In media meno di un dispositivo al mese, contando anche norme sull’equilibrio di donne e uomini nei consigli regionali, l’istituzione del “Premio Biennale Giuseppe Di Vagno” e la nascita del “Giorno del Dono” fortemente voluta dall’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi.
TRA DIARIE E PALAZZI
Un po’ poco, forse, per chi all’indennità aggiunge una diaria forfettaria da 3.503 euro nette al mese, che serve ai deputati per sostenere le spese di soggiorno a Roma (viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza, ma un eletto, anche se partecipa al 30 per cento delle votazioni nell’arco di una giornata, è considerato presente). Al gruzzolo vanno aggiunti altri 3.690 euro, sempre netti, come rimborso necessario a garantire il rapporto tra eletto e il suo collegio. Di quest’ultima somma il 50 per cento viene girata direttamente in busta paga, l’altra metà a piè di lista. Può essere usata per pagare collaboratori e consulenze, organizzare convegni e qualsiasi altro «sostegno alle attività politiche».

Al Senato il sistema è diverso: «Oltre l’indennità abbiamo rimborsi pari a 9.330 euro al mese, tra diaria, spese generali e quelle per l’esercizio del mandato. Una delle cose più assurde è che la parte che bisogna rendicontare (solo 2.090 euro, ndr) se non si riesce a spenderla per intero entro la fine del mese, può essere “recuperata” prima della fine dell’anno», commenta il questore. «Tutti soldi, si badi bene, non tassati».
Matteo Renzi sa bene che il tema degli stipendi-monstre dei parlamentari è uno dei leitmotiv dei movimenti anti-sistema, e non manca occasione di ricordare che la riforma costituzionale prevede un taglio drastico dei senatori (oggi sono 315, ne sopravviveranno 100) e l’eliminazione dell’indennità per chi siederà sugli scranni di Palazzo Madama. Già: il nuovo Senato sarà composto da consiglieri regionali e sindaci che prenderanno solo lo stipendio dall’ente di appartenenza, ma godranno dell’immunità parlamentare.
Se ad ottobre vincessero i Sì e la riforma firmata da Maria Elena Boschi entrasse in vigore, i costi generali della struttura secondo uno studio della Ragioneria Generale si ridurrebbero però di appena 9 punti percentuali. Complessivamente il Senato, novello ente inutile, continuerà a costare poco meno di mezzo miliardo di euro l’anno. La metà di quanto costa Montecitorio (nonostante tagli e sforbiciate la Camera pesa ancora un miliardo di euro l’anno sull’erario) e il doppio dei costi del Quirinale, casa del capo dello Stato Sergio Mattarella e altro palazzo che gli italiani continuano a pagare a carissimo prezzo.
Per il 2016 la spesa complessiva effettiva sarà pari, si legge nel bilancio di previsione», a 236 milioni di euro, «in diminuzione del 2,15 per cento sul 2015», e di un solo milione sul 2014. Dal 2007, anno in cui il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella evidenziò come la corte presidenziale abitata da centinaia di corazzieri, poliziotti, funzionari e burocrati costasse quattro volte la reggia di Buckingham Palace, è stata tagliata – in termini assoluti – di appena quattro milioni di euro. Nonostante la riduzione del numero del personale, l’aumento costante del costo delle pensioni fa si che il Quirinale costi il doppio dell’Eliseo, e quasi dieci volte la presidenza tedesca.
POVERI PORTABORSE
Nulla sembra possa modificare neppure il destino deiportaborse. I deputati possono usare il 50 per cento della diaria per pagare lo stipendio ai propri collaboratori, ma in molti continuano a farne a meno per intascare tutto il cucuzzaro, preferendo rendicontare altre spese. Altri assumono segretari con stipendi da fame. Se la Bottici ricorda che è uso comune girare soldi al partito in cambio di un collaboratore di fiducia (in questo modo gli uffici di Palazzo Madama non sanno nemmeno che tipo di contratto ha), Valentina Tonti, presidente dell’Associazione dei collaboratori parlamentari chiarisce subito che anche in questa legislatura per i portaborse «la situazione non è affatto cambiata». Non esistono infatti regole chiare per l’assunzione, né contratti regolamentati come avviene nel resto d’Europa. «Esistono ancora stagisti che fanno i portaborse senza essere pagati neanche un euro, ragazzi che sono contrattualizzati da un solo deputato ma che lavorano per più parlamentari, altri pagati – almeno in parte – al nero. Nessuno denuncia gli abusi, nemmeno a noi dell’associazione: tutti hanno paura di perdere il posto e di non trovarlo più», dice la Tonti.

Com’è possibile che il ricatto occupazionale sia messo in atto nei palazzi del potere nonostante inchieste e scandali a catena? «Non lo so. So solo che qualche mese fa siamo riusciti a far approvare alla Camera un ordine del giorno trasversale, che impegnava il palazzo a studiare nuove norme. Finora non abbiamo avuto riscontri, nonostante a parole sia il presidente Laura Boldrini sia i vari partiti siano totalmente d’accordo». A parole. Nei fatti ad oggi è segreto perfino il numero complessivo delle assunzioni, e che le tipologie contrattuali siano avvolte nel mistero più fitto. L’unica certezza è che il sistema incentiva il parlamentare a risparmiare più possibile sul collaboratore, in modo da intascarsi più denaro possibile. Lo stipendio medio di chi è riuscito a strappare un contratto “normale” si aggirava fino a pochi mesi fa sui 1.100 euro al mese, ma adesso, a causa del Job’s Act, il tempo determinato è diventata un’assunzione più onerosa, «e il netto» conclude la Tonti «si è abbassato».
TAXI O MILLEMIGLIA?
Torniamo a chi, dell’Irpef, se ne frega. La mole di integrazioni economiche per i parlamentari, nell’anno di grazia 2016, sembra infinita. I deputati e i senatori più fortunati continuano ad arrotondare lo stipendio con le indennità di carica: i membri del consiglio di presidenza e i presidenti di commissione sono quelli che le hanno più alte. A Montecitorio tutti godono di un plafond supplementare di 1.200 euro l’anno per il rimborso delle spese telefoniche (fino al primo aprile 2014 era addirittura di 3.980 euro), mentre altri 1.500 euro l’anno sono destinati all’acquisto di un computer o un tablet.

Al Senato c’è una voce simile: 2.500 euro per ogni legislatura, «ma io ci ho rinunciato, il pc me lo sono comprato da sola. Così come rifiuto di prendere i soldi che mi spetterebbero per l’esercizio del mandato», chiosa la Bottici, che eliminerebbe con un tratto di penna le norme che permettono di dare somme forfettizzate, in modo da obbligare chi chiede rimborsi spesa a mostrare fatture e pezze d’appoggio.
Come dalla nascita della Repubblica, anche nella XVI legislatura i parlamentari hanno privilegi eccezionali suitrasporti: un must della casta. La tessera che gli permette di viaggiare gratuitamente, e in prima classe, su treni, autostrade e aerei in tutto il territorio nazionale non è stata abolita. «Viaggiamo gratis anche se dobbiamo andare al compleanno di nostra nonna», spiegò Carlo Monai a “l’Espresso” qualche anno fa , un ex democrat che chiedeva al Parlamento di mettere controlli affinché fossero pagate solo le trasferte legate all’incarico pubblico. Carlo Fraccaro, deputato del M5S, aggiunge oggi un altro dettaglio: «Per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e tra Fiumicino e Montecitorio, è previsto un rimborso spese trimestrale di 3.323 euro per coloro che vivono entro 100 chilometri dall’aeroporto più vicino alla residenza, e di quasi 4 mila euro se la distanza da percorrere supera i 100 chilometri».
Ci sono anche altri vantaggi che la legislatura non è riuscita (?) ad eliminare: come la moda di collezionare, a spese del contribuente, miglia Alitalia da utilizzare per viaggi all’estero o quelli di amici e parenti. Senato e Camera fanno riferimento all’agenzia americana Carlson Wagonlit, con sede in Minnesota, e quasi tutti i parlamentari sono frequent flyer Alitalia. Nessuno vieta loro di scegliere altre compagnie, ma i politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devono anticipare di tasca propria (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall’altro perderebbero i punti fedeltà da accumulare sulla carta “Millemiglia”.
Punti che sono personali, e che vengono usate dal deputato come meglio crede. Nel 2014 i deputati grillini in un ordine del giorno hanno proposto che Montecitorio valutasse «l’opportunità di avviare una trattativa per riformulare i termini dell’accordo della Camera con Alitalia», in modo da attribuire non al singolo parlamentare ma all’amministrazione i punti maturati con i biglietti aerei pagati con fondi pubblici. Finora, la proposta è rimasta lettera morta.
UN PASSO AVANTI E DUE INDIETRO
La vita a scrocco è un must indistruttibile. Non c’è scandalo che tenga: se Monai raccontò che parcheggiare al parking di Fiumicino, al silos “E”, costa agli italiani 293 euro al mese e al parlamentare solo 50, se i mitici barbieri sono ancora lì (passati da 7 a 4, insieme ai quasi mille dipendenti vedranno una riduzione del loro stipendio a partire dal 2018: a fine carriera potranno comunque arrivare a guadagnare 99 mila euro l’anno), i deputati possono beneficiare – se vogliono comprarsi un’auto nuova – di sconti proposti dalle case automobilistiche, riservati esclusivamente a loro.

Sarebbe ipocrita, però, non sottolineare che qualche passo verso la sobrietà è stato comunque fatto. Le auto blu sono calate drasticamente: il Senato – al netto della scorta del presidente Piero Grasso – ha solo sette Audi A6 più quattro auto elettriche, tutte a noleggio; mentre la Camera gestisce nove auto di cilindrata media, più due van monovolume per le delegazioni. «Un parco macchine ridicolo per un’istituzione così importante», protesta un deputato del Nuovo Centro Destra, che ricorda con nostalgia la trentina di berlina 2.4 di due legislature fa.
Passasse il referendum sul disegno di legge costituzionale della Boschi, oltre gli stipendi dei senatori verrebbero tagliati con l’accetta le indennità dei consiglieri regionali, in qualche caso più che dimezzate. Il governo Monti, con un decreto, fissò un tetto massimo di 8.500 euro al mese. Netti. Un limite che, vista la crisi economica, resta comunque altissimo: con la vittoria del Sì i consiglieri prenderebbero automaticamente quanto il sindaco del capoluogo della regione di appartenenza: per fare un esempio, in Calabria i consiglieri passeranno da oltre 7 mila euro netti ai 2.500 euro appannaggio del sindaco di Catanzaro. Una mazzata, secondo Renzi. «Spiccioli», per chi considera la riforma un immondo papocchio che non vale «lo stravolgimento della Carta e della nostra democrazia».”"

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