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martedì 31 marzo 2015

Hanno detto ... ...

ROBERTO ESPOSITO, scrittore
”Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito internazionale iniziato in America. 
La religione diventa un antidoto al dominio dell’economia. 
L’identificazione tra modernità e laicizzazione non è scontata.

Dopo una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e laicizzazione è tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre. Senza voler assimilare fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera privata della religione. 
L’esplosione dell’estremismo islamico ha conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti. Da Habermas a Taylor, da Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione contribuisce a generare o a moderare la violenza? È fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro che scontata. Come risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod, che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è stato causato da motivi religiosi. Se le Crociate, le guerre tra cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente le attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore. Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filo-occidentali e secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti.

THOMAS PIKETTY, economista
Perchè il popol tradisce la sinistra ?
”Perché le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo?

E perché voltano le spalle in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perché i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica. Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta. I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione. Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze. Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà, pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati. Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi). Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le élite contro abbandono di scuole e università, e via discorrendo. E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.

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