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mercoledì 14 maggio 2014

La lingua albanese

La vita delle parole ...    ... di Paolo Borgia
Perëndi dhe Inzot
Madre Teresa nella sua intensa vita di lavoro scrisse poco, principalmente in inglese. La sua mente e le sue parole inevitabilmente riguardavano Dio, di cui si sentiva sua serva. Ma Lei,  usava solo la parola Lord, Zot, Signore. Come Lei cinque secoli prima anche il ghego Gjon Buzuku aveva scritto Zot, dove una croce con due gambe - ƛ -  è la sua zeta ( /z/ It. s sonora).
Niente Perëndì, figuriamoci poi il futuribile dio Hyu ora l’improponibile Hyji come vorrebbe la lingua letteraria!
E noi? Noi ci dobbiamo fidare di Luca Matranga e del suo Catechismo. Qui Dio si chiama Inëzot:  “Ishtë Inëzot Ati, i Biri, Shpirti Shejt tri faqe, një i vetëmë Inëzot”. E perché non si abbiano dubbi, egli si ripete per ciascuna persona aggiunge il nome Inëzot. In compenso la parola perëndia la troviamo nel Padre nostro: “artë perëndia jote”  >  “venga il regno tuo”.
E a conferma del significato troviamo: “Falemi Perëndeshe” > “Dio ti salvi Regina”. Osserviamo che la parola perëndia è qui al femminile (jote).
Passano gli anni e i secoli e le cose cambiano.  Così nel Credo della liturgia di Monsignor Paolo Schirò viene impegato la parola  “Perëndì i vërtet”  è Dio vero al maschile.  Il Padre talvolta è Ati e talaltra è i Jati e Nostro Signore è declinato in modo arcaico “t’ën’Zonë”.  Oggi la Liturgia in arbëresh ha raggiunto lo splendore e la purezza stilistica che il nostro poeta Zef Schirò Di Maggio ha donato alla nostra comunità. Questo messale trilingue, greco, arbëresh, italiano,  non ha avuto il permesso di Roma perché il testo italiano non era degno dell’altare e perciò va corretto. Il popolo però quando cerca il sostegno del Creatore del Cosmo (il Bello) si rivolge a Lui, Signore dei signori con la semplice giaculatoria: « O  i Madh’Inzot ndihëm Ti!» - «Oh Nostro Gran Signore aiutami Tu!»

Shërbes dhe gjë
Ci sono cose e cose: così sembra dirci la lingua arbëreshe. Da sempre, da quando abbiamo imparato a scrivere, la “cosa” più usata è “shërbes -i” e quando ce n’è più d’una allora sono “shërbise”. Per esempio: “I dīti shërbes çë bën hrī të krështerit çë ishtë pandohia” - “Della seconda cosa necessaria al Cristiano, cioè della speranza”.  E’ logico! Se shërben vuol dire servire, ecco che shërbesi è una cosa utile che serve. Come shërbëtori e anche shërbëtyra.

Una volta - chissa quando? - devono esserci state tante altre cose anche importantissime e che ora sembrano sparite. Ma è solo apparenza  sono cose che si sono mimetizzate, nascoste in altre parole.
Gjë -ja -ra (gjër -i), qish, sej, send, sënd sono parole cadute nel disuso (da noi ma ancora vive altrove), che hanno figliato altre parole composte che le contengono e che usiamo continuamente. Gjagjë (forse da ndogjë?), mosgjë, mosgjakun, gjithqish, gjithsej (ogni cosa), sënduq -i.
E questo delle parole che si formano mettendo insieme altre parole è una delle ricchezze popolare della lingua arbëreshe: fjalëformimi, una delle parti principali dello studio della lingua, che serve alla sua perpetuazione nel divenire culturale e tecnologico e che i “puristi dovrebbero curare maggiormente.

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