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giovedì 29 novembre 2012

Matteo Renzi. Egli ha provato, il resto degli italiani continuera' solamente a lamentarsi

Due Italie, due paesi, due lingue, due visioni completamente diverse.  Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi a sentirli ierisera,  sembravano due che venivano da pianeti diversi, pur dicendo in gran parte cose sovrapponibili, e mai conflittuali.  Con l’eccezione dell’accordo fiscale con la Svizzera – che Bersani rifiuta con ottime ragioni (e non è un dettaglio) – su tasse, pensioni, mercato del lavoro, urgenza delle risposte ai temi dei potenzialmente infiniti conflitti d’interesse del paese, Renzi è sembrato avere idee meno mediate, più nette e – dato il contesto – necessarie.  Ha ricordato a tutti di avere un oggettivo vantaggio: non ha il fardello del passato e di vecchi patti generazionali da rispettare secondo cui la Bindi dovra' vita natural durante sedere in Parlamento, e fa bene a ricordare quel lungo elenco di cose non fatte o fatte a metà dal centrosinistra di Bersani.  Il sindaco, a cui mancano 30 mila voti per poter battere Bersani, in fondo ieri sera e' tornato a fare il rottamatore, si è rimesso l’abito che gli ha consentito di arrivare fin lì, e ha ripetuto, ogni volta che poteva, che Bersani aveva avuto la sua chance, ed era andata com’era andata, ossia sempre un fiasco.  Ha convinto, il sindaco fiorentino, quando ha provato a presentare le sue ricette di riforma? Sì e no, ma è sembrato davvero uno che ci sta provando, anche a formarsi e a confrontarsi con un mondo che cambia. Un mondo di cui è parte. Certo, Renzi nei tempi tv ci sta bene, con palese uso della  furbizia. Il dibattito e' scivolato da un’Europa schivata con un paio di slogan, ad attacchi e difese sulle ere di un D’Alema mai citato; da un Bersani che rivendica il buon lavoro in quei due lontani anni di governo, a un Renzi che ricorda il tanto non fatto. Un Renzi che snocciola ricette facili, veloci e comprensibili, con qualche dettaglio tecnico. Individua sempre bene il nemico, Renzi: chiama i burocrati burocrati, mette sud e “vizio delle raccomandazioni” nella stessa frase. Dice di no a Casini e all’Udc siciliana di Cuffaro (lungamente alleata di Bersani nell’Isola, ndr), e sembra sacrosanto.  Bersani arretra, incassa infastidito, ma non perde mai il controllo. Ma di programmi e affidabilità delle squadre in campo, ne sappiamo quanto prima. Di quali ricette adotterebbero nel concreto, di come contratterebbero in Europa, di quali progetti di tagli alla spesa inutile e alle tasse si doterebbero... I temi sono tanti, le risposte da analizzare poche. Nel caso di Renzi, si può almeno scommettere con ragionevolezza sull’idea di una classe dirigente tutta da inventare e quindi necessariamente aperta a risorse ed energie che stanno nel mondo. Nel caso di Bersani, diventerà invece una corrente di renziani o simili che arriva in parlamento. Il dibattito non sembra abbia aggiunto conoscenze fondamentali sui due candidati, anche perché non li abbiamo visti mettersi sotto stress con parole come Penati, Monte dei Paschi di Siena,  Telecom, Unipol, “regole per le primarie” e semmai – se davvero ritenete – Arcore. Matteo Renzi ha rinunciato a giocare ogni carta di affondo potenzialmente sanguinoso a propria disposizione. Su Rai Uno ieri sera abbiamo visto  due paesi. Due figure di italiano divise dalle generazioni. La lingua di Bersani, quella lingua di buonsenso di vecchia Italia che chiede scusa al parroco defunto,  cerca riferimenti rispettabili,  ma che parla di un passato che non tornerà. Renzi gioca la carta del nipotino bravo che voleva bene alle maestre, ma ottiene adesione solo quando  ricorda le proprie responsabilità a chi ne ha già avute tante, e non ha preso per mano un paese che ne aveva bisogno. Quando sorride bonariamente del parroco, e quando ricorda il tempo traumatico in cui D’Alema governava con l’appoggio di Cossiga e Mastella.  E d’altro canto, Bersani, non può essere imputato di colpe davvero più grandi di lui, anche perché è davvero sempre sembrato uno che ce la metteva tutta. In fondo il dibattito ha rispecchiato la realta': esistono due Italie.  Quella che si riconosce in Bersani, che si affiderebbe ancora a lui dovendo scegliere rispetto a Renzi, è forse davvero divenuta minoritaria.  Renzi è arrivato fin dove poteva, dove si sentiva. Ma ha dimostrato che le nuove generazioni, i nuovi interessi, le nuove sensibilità, se vogliono trovare spazio devono conquistarselo. Lui lo ha fatto e ha dimostrato che provarci si può, e anche che, per vincere, ci vogliono spalle larghe davvero, perché chi detiene il controllo non ha mai voglia di lasciarlo.  Matteo Renzi, paga la sua assurda solitudine. In un panorama politico immobile da decenni è l’unico che ci ha provato, e questo gli vale un doveroso salvacondotto sugli errori, le ingenuità, le mancanze di strutture che nel mezzo dei trent’anni può capitare di avere se ti candidi di colpo a premier. L’Italia sembra stupirsi del fatto che che lui esista, e che mobiliti tante persone partendo da zero: e invece dovrebbe sorprendersi del fatto che, di Renzi, ce n’è in giro uno solo. 

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