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giovedì 7 aprile 2011

INCA. La direttiva comunitaria 115/2008 sui rimpatri e i nuovi scenari per la tutela degli immigrati

Linee interpretative adottate dal patronato INCA-CGIL
A partire dal 25 dicembre 2010, lontano dai riflettori dell’informazione e nella disattenzione dei più, si è verificato un vero e proprio sommovimento giuridico per quanto riguarda la disciplina dell’immigrazione. Infatti gli Stati membri dell’Unione europea, tra cui ovviamente l’Italia, avrebbero dovuto entro il 24 dicembre 2010 adottare disposizioni legislative di dettaglio necessarie a conformarsi e a dare attuazione alla direttiva comunitaria 115/2008 «recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare». Lo Stato italiano ha omesso come è noto di recepire le indicazioni contenute nella direttiva, la quale ha cominciato dunque a produrre effetti immediati e diretti. Nelle righe che seguono si tenterà di tracciare un primo schema dei principali problemi applicativi suscitati dalla mutata situazione normativa, suggerendo al contempo dove possibile delle adeguate strategie di azione nell’ottica di una migliore tutela dei lavoratori immigrati.

Lo scopo della direttiva
Occorre individuare in prima battuta «l’effetto utile» perseguito dal legislatore comunitario con l’adozione della direttiva, poiché la corretta determinazione dello scopo ultimo dell’intervento normativo servirà, specie nei passaggi più complessi, ad orientare l’interprete verso le soluzioni ermeneutiche più adeguate. I «considerando» preliminari della direttiva, che per giurisprudenza costante dalla Corte di Giustizia fanno tutt’uno con la parte propriamente dispositiva del testo, stabiliscono le linee portanti del nuovo sistema dei rimpatri e le priorità da seguire in vista di un contemperamento tra le diverse esigenze, ossia tra quelle, da un lato, degli Stati membri di presidiare le proprie frontiere e di controllare l’ingresso e il soggiorno dei cittadini stranieri all’interno dei propri confini, e quelle, dall’altro lato, a che vengano rispettati nei confronti degli stranieri in attesa di rimpatrio i diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento internazionale. Anche per quanto riguarda il sacrificio della libertà personale delle persone da rimpatriare il considerando tredicesimo stabilisce che l’uso delle misure coercitive dovrebbe essere espressamente subordinato al rispetto dei principi di proporzionalità e di efficacia per quanto riguarda i mezzi impiegati e gli obbiettivi perseguiti. In tale ottica il trattenimento dello straniero in centri di espulsione si presenta nella normativa comunitaria come extrema ratio, esperibile solo quando tutti gli altri strumenti e tutti gli altri tentativi si ritengano o si siano palesati inefficaci.
Tra gli scopi della direttiva, oltre a quello di garantire uno standard minimo di tutela dei diritti fondamentali anche nei confronti dei cittadini stranieri che debbano essere espulsi, vi è anche quello di armonizzare la disciplina di tutti gli Stati membri, evitando così che possano prodursi perniciosi squilibri nei livelli di tutela tra le varie legislazioni nazionali; ciò appare necessario allo scopo di impedire uno spostamento dei cittadini stranieri all’interno dell’Unione, alla ricerca di quei contesti normativi meno rigidi nell’affrontare il fenomeno migratorio, specie per quanto attiene allo spinoso problema dei rimpatri. Tale esigenza è esattamente la stessa che sta al fondo dell’adozione delle direttive in tema di asilo politico e protezione umanitaria: anche in questo caso la preoccupazione del legislatore comunitario era quella di evitare la creazione di flussi migratori secondari tra i vari stati dell’Unione, dovuta soltanto ai differenti livelli di tutela accordati ai richiedenti asilo.
La nuova disciplina delle espulsioni secondo la direttiva
Venendo alla disamina del contenuto della direttiva, l’elemento che in modo più vistoso balza agli occhi è la preferenza accordata dal legislatore comunitario (salva la ricorrenze di ragioni di segno contrario) al rimpatrio volontario dello straniero. L’art. 7 della direttiva prevede che tale procedura prenda avvio con la notifica all’interessato di una decisione di rimpatrio, contenente l’invito a lasciare il territorio nazionale in un periodo compreso tra sette e trenta giorni. Durante il periodo concesso per la partenza volontaria, per evitare la fuga dello straniero, l’autorità procedente può imporre nei suoi confronti alcuni obblighi quali l’impegno a presentarsi periodicamente presso l’autorità stessa, ovvero di versare una garanzia in denaro, ovvero di consegnare il passaporto o altri documenti, oppure ancora di dimorare in un determinato luogo. Secondo quanto è possibile desumere dall’art. 10 della direttiva la misura di rimpatrio volontario correttamente ottemperata dallo straniero, non dovrebbe comportare un divieto di reingresso sul territorio nazionale.
In presenza di particolari e specifiche circostanze individuate dalla direttiva si può prescindere dal rimpatrio volontario e seguire invece la strada del rimpatrio coattivo, mediante l’adozione di quello che nel linguaggio della direttiva viene definito come «ordine di allontanamento». I presupposti per l’attivazione della procedura di allontanamento coattivo sono l’individuazione di un rischio di fuga da parte del soggetto da espellere, ovvero la presentazione da parte di costui di una domanda di permesso di soggiorno manifestamente infondata o fraudolenta, oppure la presenza di una valutazione di pericolosità sociale ai danni dell’interessato, oppure ancora la mancata osservanza del termine concesso per la partenza volontaria.
Nei casi in cui non sia possibile eseguire immediatamente l’allontanamento coattivo e non possano essere efficacemente applicate altre misure sufficienti e meno coercitive, si potrà disporre il trattenimento dello straniero, la cui durata dovrà essere quanto più breve possibile e sarà mantenuto solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle procedure di rimpatrio (art. 15). La misura dovrà essere riesaminata ad intervalli di tempo e dovrà cessare allorché non sussista più alcuna ragionevole prospettiva di allontanamento del cittadino straniero. Il termine massimo di trattenimento previsto dalla direttiva è di sei mesi, prorogabile di ulteriori dodici mesi nei casi eccezionali in cui l’operazione di rimpatrio rischi di durare più a lungo a causa della mancata cooperazione da parte dello straniero o dei ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai paesi terzi.
I principali elementi di contrasto con la normativa interna
A una lettura pur sommaria della normativa di origine comunitaria emergono significativi profili di contrasto con la disciplina interna. La criticità più vistosa dipende dall’assenza nell’ordinamento italiano di una disciplina per la partenza volontaria dello straniero in condizioni di irregolarità amministrativa. Il TU 286/98 prevede come è noto come regola generale l’espulsione coattiva immediata dello straniero, riservando invece soltanto a casi residuali l’espulsione contenente l’intimazione semplice a lasciare il territorio nazionale (si può fare luogo a tale espulsione senza rimpatrio coattivo solo nell’ipotesi di straniero in possesso di permesso di soggiorno scaduto del quale non sia stato chiesto il rinnovo).
Dunque mentre la direttiva UE privilegia e incentiva la partenza volontaria dello straniero irregolare imponendo all’autorità di concedere allo straniero espulso un termine congruo compreso tra i sette e i trenta giorni per lasciare volontariamente il territorio, e concepisce il trattenimento come mezzo estremo, utilizzabile quando altre misure meno afflittive si rivelino inefficaci, il sistema delle espulsioni italiano muove dalla regola del rimpatrio coattivo immediato, eventualmente preceduto da un trattenimento nei CIE quando non sia immediatamente reperibile un vettore aereo utile per dare corso al rimpatrio. Se neppure vi è disponibilità di posti all’interno dei CIE lo straniero espulso viene munito di un ordine del questore di abbandonare il territorio nazionale entro il termine di cinque giorni. Tale ultima misura, si badi bene, non è equiparabile a quella di rimpatrio volontario delineata dalla direttiva comunitaria, rappresenta bensì una specifica modalità applicativa di una decisione presa «a monte» di rimpatrio coattivo.
Detto in modo ancor più diretto: mentre la disciplina comunitaria impone una disamina individualizzata della condizione del soggetto irregolare, finalizzata ad operare la scelta tra rimpatrio volontario e allontanamento coatto, la disciplina interna, per il sol fatto che lo straniero versi in situazione di irregolarità amministrativa, impone sempre e comunque l’avvio di un procedura di allontanamento coattivo, tanto che solo delle circostanze accidentali (quali la temporanea indisponibilità di posti all’interno dei CIE) possono preservare il soggetto da espellere dal sacrificio (mediante il trattenimento) della propria libertà personale.
Cosa ne è del reato di inosservanza dell'ordine del questore?
La giurisprudenza che in queste settimane ha avuto occasione di confrontarsi con gli effetti dalla direttiva 115/2008 ha già avuto modo di segnalare come il contrasto tra direttiva comunitaria e legislazione interna travalichi il campo amministrativo e incida addirittura il sistema delle sanzioni penali previste dal nostro ordinamento in tema di immigrazione.
Per lo stretto legame con il tema dei rimpatri si accennerà qui ai problemi emersi con riguardo al reato previsto dall’art. 14, comma 5-ter del TUI di «inosservanza dell’ordine del questore di allontanamento», che come noto sanziona con la reclusione da uno a quattro anni gli stranieri destinatari di un ordine questorile di allontanamento, sorpresi a soggiornare sul territorio nazionale oltre il termine di cinque giorni dalla notifica. In relazione a tale ipotesi di reato la migliore giurisprudenza si è orientata nel senso dell’incompatibilità della fattispecie criminosa con la direttiva comunitaria. Tale tesi è stata sostenuta facendo ricorso a molteplici argomentazioni:
- si è sostenuto da un lato che la direttiva 115/2008 prevede un termine massimo di trattenimento di diciotto mesi, che in nessun caso può essere valicato, mentre la previsione penale interna consente in linea di principio un sacrificio della libertà personale pari a quattro anni (e anche più in caso di inottemperanza reiterata a più ordini di allontanamento o in caso di contestazione della recidiva); a nulla rileverebbe la diversa natura giuridica dei due casi di privazione della libertà personale, a titolo amministrativo nel caso del trattenimento e a titolo di sanzione penale nel caso della vera e propria reclusione, giacché comunque la sanzione penale è prevista in conseguenza di una decisione di rimpatrio e ricade dunque senza alcun dubbio nel campo applicativo della direttiva e nel «cono d’ombra» del diritto comunitario. A tale riguardo non si deve dimenticare che l’obiettivo della direttiva, come si è già visto, non è soltanto quello di istituire norme comuni per un’efficace politica in materia di allontanamento e di rimpatrio, ma anche quello di garantire il «rispetto dei diritti fondamentali» dello straniero (considerando ventiquattresimo), fra i quali va sicuramente annoverato il diritto alla libertà personale. Occorre segnalare a tale proposito la recente pronuncia della Corte di giustizia europea nella sentenza Kadzoef (sent. 30.11.2009 ric. n. C-357/09) ove è detto che l’art. 15 della direttiva «non consente, quando il periodo massimo di trattenimento previsto da tale direttiva sia scaduto, di non liberare immediatamente l’interessato in quanto egli non è in possesso di validi documenti, tiene un comportamento aggressivo e non dispone di mezzi di sussistenza propri né di un alloggio o di mezzi forniti dallo Stato membro a tale fine»
- da un diverso, ma simile, angolo prospettico si è evidenziato come la direttiva in questione, avendo lasciato liberi gli Stati di introdurre norme più favorevoli, ha implicitamente vietato agli Stati membri di introdurre norme meno favorevoli o più afflittive nei confronti dei soggetti in attesa di rimpatrio; ciò proprio al fine di non vanificare quell’effetto utile perseguito dalla direttiva, consistente come si è detto nel prevenire il fenomeno dei trasferimenti degli stranieri all’interno del territorio dell’Unione, secondo la maggiore o minore durezza dei regimi nazionali in tema di allontanamento
- vi è chi ha obiettato che in forza dell’art. 2, paragrafo 2, lettera «b» (secondo il quale la direttiva 115/2008 non si applica nei confronti dei cittadini stranieri «sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale») la fattispecie penale in questione esulerebbe dal campo di applicazione del diritto comunitario. Questa tesi è stata respinta con decisione dalla giurisprudenza, che ha avuto agio di chiarire che la clausola di esclusione della operatività della disciplina comunitaria riguarda soltanto i provvedimenti di espulsione disposti dall’autorità giudiziaria in occasione di procedimenti penali, a titolo di misure di sicurezza, ovvero di sanzioni sostitutive o alternative.
L’insieme dei profili fin qui accennati di incompatibilità tra la disciplina comunitaria e le previsioni penali interne hanno condotto dal dicembre scorso ad oggi all’adozione di numerose pronunce di assoluzione, spesso con la formula «perché il fatto non è previsto dalla legge come reato». E’ dunque possibile ravvisare, grazie all’applicazione verticale e diretta del diritto comunitario incompatibile con la norma interna, una sostanziale abolizione della fattispecie penale di cui all’art.14, comma 5-ter TUI. Se questo è vero occorrerà dare applicazione pure, sul piano più squisitamente interno, alla previsione di cui all’art. 2, comma 2 del codice penale («nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato»), in combinato disposto con l’art. 673 del codice di procedura penale («in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale nella norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna … dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato»). Ciò significa che gli stranieri già condannati con sentenza irrevocabile potranno, assistiti da un difensore, proporre un incidente d’esecuzione davanti allo stesso giudice che ha emesso la sentenza, per sentire dichiarare anche retroattivamente l’abolitio criminis della fattispecie in questione con ogni pronuncia necessaria e conseguente allo scopo di vedere estinti tutti gli effetti della condanna. Una simile prospettiva di tutela potrà essere tenuta in considerazione anche con riguardo alle procedure di emersione di cui alla legge 102/09, rispetto alle quali è assai dibattuta dai giudici amministrativi la questione della rilevanza o meno della condanna per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter TUI quale causa ostativa al buon esito della procedura. E’ di tutta evidenza che l’eventuale ottenimento in sede penale di una pronuncia dichiarativa dell’avvenuta abrogazione del reato produrrebbe l’effetto di rimuovere ogni effetto ostativo giocato dalla condanna stessa nell’ambito della procedura di emersione.
Molti degli interrogativi suscitati dal raffronto tra normativa interna e direttiva 115/2008 sono stati di recente ricapitolati dalla Corte di Cassazione con un ordinanza (n. 11050/2011 depositata il 18 marzo 2011) di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. La Suprema Corte in buona sostanza, dubitando della legittimità della normativa interna, con un quesito molto denso e articolato ha chiesto ai Giudici del Lussemburgo di sciogliere la questione interpretativa circa la compatibilità delle previsioni penali interne con lo spirito e la lettera dell’ordinamento comunitario; in particolare è stato chiesto se la normativa italiana sia censurabile solo perché la sanzione penale rischia di determinare una condizione di privazione della libertà personale ben al di sopra del limite di diciotto mesi consentito dalla direttiva (dunque solo quanto all’ammontare delle pene), o se invece sia intrinsecamente contraria al diritto comunitario la previsione di una sanzione penale nei casi di disobbedienza a un ordine di rimpatrio. Occorrerà naturalmente seguire con molta attenzione gli sviluppi del giudizio innanzi alla Corte di Giustizia, che secondo le richieste del Giudice nazionale dovrebbe svolgersi con procedura d’urgenza e dunque addivenire a conclusione in termine assai ristretti (due mesi circa).
Il nuovo volto dell’espulsione amministrativa
Occorre infine, prescindendo dalle conseguenze e dai riflessi penali dell’espulsione, prendere brevemente in considerazione il nuovo scenario delineato dalla direttiva 115/2008 per quanto riguarda l’adozione dei decreti prefettizi di espulsione dal territorio nazionale.
Per correre ai ripari in vista della scadenza del termine di recepimento della direttiva, pur nell’inerzia del legislatore, il Ministero dell’interno con la circolare prot. 400/B/2010 del 17.12.2010 ha tentato di ri-orientare la prassi degli uffici periferici allo scopo di renderla compatibile con la normativa comunitaria sopravvenuta. Le indicazioni ministeriali soffrono di un vizio di fondo dovuto all’impossibilità, a legislazione costante, di dare vita nel nostro ordinamento a una procedura di rimpatrio volontario, che la norma comunitaria concepisce invece come modalità preferita di espulsione, cui si può derogare soltanto in casi determinati e puntualmente individuati dalla direttiva stessa. Per sopperire a tale fondamentale mancanza normativa il Ministero raccomanda agli uffici di prestare particolare impegno nell’articolazione motivazionale dei decreti di espulsione. Ciò significa che i prefetti saranno chiamati non tanto a compiere un'approfondita istruttoria allo scopo di stabilire caso per caso e individualmente se la condizione personale dello straniero irregolare possa essere gestita o meno con una procedura di rimpatrio volontario, quanto piuttosto a concentrare i loro sforzi sull’apparato argomentativo a sostegno di una e una sola soluzione, l’unica consentita dalla normativa interna, quella del rimpatrio coattivo. Alle Amministrazioni periferiche, in altri termini, viene richiesto uno sforzo argomentativo al fine di dimostrare che sempre e in ogni caso esiste in capo al soggetto da espellere quel «rischio di fuga» che solo potrebbe giustificare l'avvio di una procedura di rimpatrio coattivo.
Così stando le cose, in un'ottica di tutela dei soggetti migranti, è evidente che gli atti difensivi di impugnazione dei decreti espulsivi dovranno sforzarsi di argomentare e dimostrare, al contrario di quanto prevedibilmente sostenuto dai prefetti, che lo straniero offre elementi di sufficiente rassicurazione e inserimento sociale, tali da rendere improbabile che lo stesso possa rendersi irreperibile e così sottrarsi alla procedura di rimpatrio. La disponibilità di documenti validi per il rimpatrio, il possesso di un alloggio adeguato e stabile, la titolarità di una posizione lavorativa o di risorse economiche accantonate, sono tutte circostanze (eventualmente comprovabili mediante testimonianza innanzi al Giudice di Pace) che potrebbero essere addotte al fine di smentire l'assunto di partenza contenuto nei provvedimento espulsione, secondo cui il soggetto interessato è privo di radicamento e dunque portatore di un rischio di sottrazione alla misura. Nei casi in cui i decreti prefettizi di espulsione saranno accompagnati da pedissequi e conseguenti ordini di allontanamento entro il termine di cinque giorni, l'impugnativa dovrà ovviamente estendersi anche a tale secondo provvedimento, la cui illegittimità potrebbe ben essere argomentata sulla base della contrarietà dell'azione amministrativa con quanto previsto e disciplinato nella direttiva rimpatri. In tale testo normativo, infatti, non è previsto nulla di simile a un ordine di allontanamento adottato in via subordinata al trattenimento dell'immigrato, e pertanto poiché non previsto deve ritenersi vietato. Anche su questo aspetto potranno comunque venire delle indicazioni risolutive dai Giudici comunitari, cui la Corte di Cassazione ha chiesto anche espressamente di stabilire se alla luce della direttiva rimpatri sia consentito «allo Stato membro ... intimare allo straniero irregolare di lasciare il territorio nazionale quando non sia possibile dar corso all’allontanamento coattivo, immediato o previo trattenimento».
Roma, marzo 2011
Avv. Luca Santini

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