StatCounter

mercoledì 1 settembre 2010

Ulteriore riflessione

Il 27 luglio i responsabili eparchiali, Mons. Sotir Ferrara –Vescovo ordinario- e Mons. Francesco Pio Tamburrino –Delegato Pontificio- hanno emesso un decreto sulla scorta di “una montagna di carte” come supporto istruttorio e fra le tante cose hanno ritenuto di chiudere quello che cartolarmente chiamano “Caso Contessa Entellina”.
Non stiamo qui a ripetere in cosa consista questo “caso” se non in estrema sintesi. In un paese arbërëshe con le sue secolari tradizioni linguistiche e religiose dieci anni fa è stato immesso un prete dell’agrigentino che dal suo curriculum formativo in seminario evidenzia di non avere mai studiato cosa sia il rito bizantino, o peggio, -dice qualcuno- che fino ad una certa età non riteneva che questo fosse una componente della Chiesa Cattolica, scoperto solamente quando, per ironia della sorte, a consentirgli di divenire prete è stato proprio Sotir Ferrara.
Questo prete, da un punto di vista tutto suo, tutto errato, per alcuni periodi dell’anno ha visto arrivare nella sua parrocchia gruppi di fedeli di rito bizantino, guidati dal loro papas, che pregano in maniera “strana” ai suoi occhi. La cosa non lo incuriosisce nella direzione di mettersi a studiare e capire quale fosse la spiritualità nuova con cui veniva in contatto in questo paesino dell’isola. Non gli viene nemmeno lontanamente in testa di capire, apprendere e partecipare. Non gli viene in testa che capendo potrebbe essere lui, i suoi parrocchiani, a padroneggiare questa nuova spiritualità. Si, imparando sarebbe stato naturale che a guidare in quella parrocchia quelle preghiere avrebbe potuto ammirevolmente essere lui (nei prossimi giorni in proposito pubblicheremo uno scritto di padre Pietro Gullo). No, egli scopre che nella sua parrocchia egli è “dominus” e, a suo dire, questo ruolo sta scritto nel Codice di Diritto Canonico del 1983, pertanto lì in quella chiesa si deve pregare come decide lui e quando decide lui: niente cose strane, cose di ‘greci’. Arriva a chiudere il portone della sua Chiesa perché i greco-bizantini non vogliono dialogare sui riti che da secoli svolgono. Egli vorrebbe discutere, negoziare, trattare, rivisitare.
Cosa dovesse essere il contenuto della trattativa a nessuno è dato sapere. Come può uno che sconosce i riti della tradizione bizantina volere trattare, rivisitare ? Cosa ? Le uniche risposte raccolte sono state che il “comitato” dei festeggiamenti deve prevedere un ruolo della parrocchia di Padre Mario. La cosa essendo ovvia e corretta è stata risolta oltre mezzo secolo fa, quando padre Mario non era ancora nato, dal clero di allora includendo paritariamente componenti greci e componenti latini nella gestione della festa civile, quella extra-religiosa, quella che ad un vero sacerdote dovrebbe interezzare zero. Il resto dei riti, delle liturgie e delle feste essendo contestualizzate in un paese arbërëshe, nel rito bizantino, non si capisce in cosa debbano essere oggetto di “trattative” e/o di rivisitazione. Che forse la Paraklisis, ancora oggi cantata in greco e solo in brevi brani in italiano, debba essere Padre Mario a decidere di cantarla in “ciancianese” ?.
Nulla vieta che egli nella sua parrocchia, in orario differente dalla Paraklisis cantata dai greci, organizzi la Paraklisis in lingua italiano. Sarebbe questa un soluzione apprezzata anche dai “greci” e non necessita di trattative, ma egli, per favore, non si intrometta nelle liturgie, nei riti e nelle feste secolari dei greci se prima non mostra per esse l’amore che qualsiasi sacerdote dovrebbe avere per le cose degli altri “cattolici” come per le cose dei “protestanti” e degli “ortodossi”. Mai nessuno a Padre Mario ha detto di non fare, sul piano religioso, ciò che gli pare e piace lungo il corso dell'anno nella sua parrocchia (non coincidendo con altri riti di altri, ovviamente); ma egli con le secolari feste dei bizantini (atteso che non ha in dieci anni imparato nemmeno una virgola) non ha nulla a che fare. Peraltro con i portoni chiusi non si è mai concluso nulla, nemmeno l’insediamento del parroco nell’ambito dei bizantini, come è stato dato vedere purtroppo domenica scorsa.
Torniamo alla decisione del 27 luglio.
Papas Nicola Cuccia, l’umile, mite e pacato papas dei greco-bizantini, e al contempo il tenace uomo di cultura e difensore della tradizione locale, essendo uomo radicato nel luogo natio, è stato spostato dal suo Vescovo a Palazzo Adriano per consentire, viene da dire, a Padre Mario di introdurre nelle feste locali elementi di “ciancianese”. Si, perché ad oggi padre Mario continua ad essere parroco romano di Contessa Entellina, mentre l’altro è già titolare a Palazzo Adriano.
Cosa altro c’è da dire ? Che il Vescovo non conosce i suoi sacerdoti ed ignora il valore di papas Nicola, di colui che nei momenti di difficoltà si è sempre trovato.
Nulla da dire invece per Mons. Tamburrino: egli viene da fuori e con piglio burocratica deve limitarsi, per risolvere un “caso”, a spostare dalla tastiera alcuni soldatini di piombo per far quadrare i conti. Il valore dell’uomo non conta; per un funzionario che deve portare avanti l’incarico ricevuto un individuo vale l’altro.
Questo è il quadro che domenica scorsa i greco-bizantini di Contessa Entellina non hanno voluto accettare. Per loro ci sono “beni immateriali indisponibili” (le tradizioni) ed il rispetto dell’uomo (il loro parroco papas Nicola), che i due prelati hanno trattato entrambi, nel tempo passato e recente, come materiale di risulta.
Ciò non giustifica, ovviamente, la mancata immissione del nuovo reggente.
Ma come si può pensare, d’altro canto, che papas Nicola stia a Palazzo Adriano e il teologo delle porte chiuse stia a Contessa Entellina ? Ha ragione l'avv. Domenico Cuccia quando sul Giornale di Sicilia di ieri dice che i prelati hanno gestito il "caso Contessa Entellina" nel peggior modo immaginabile.

Nessun commento:

Posta un commento